(CorSera) Un afgano rischia la vita per Cristo

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Kabul: sotto processo per apostasia, un uomo rischia la pena capitale





«È diventato cristiano, deve morire»

Abdul Rahman, 41 anni, ha confessato di aver rinnegato il Profeta. Un magistrato: «In Afghanistan queste cose non sono ammesse»
 



A Kabul non comandano più i talebani, ma nei tribunali afghani sembra non se ne siano accorti. Abdul Rahman, 40 anni, un passato come collaboratore di un’organizzazione umanitaria cristiana, è comparso giovedì scorso davanti al giudice Ansarullah Mawlavezada. È accusato di aver abbandonato l’Islam, per convertirsi ad un’altra religione, il Cristianesimo. L’udienza pare sia durata l’intera giornata. Non c’erano giornalisti presenti e il resoconto deve basarsi sulla successiva testimonianza degli stessi magistrati.

Il giudice inquirente, Abdul Wasi, ha messo l’imputato sotto torchio. È vero che hai rinnegato il Profeta? E Abdul Rahman, con un candore disarmante, ha confermato. «Sì, è successo 16 anni fa». Sei disposto a correggere il tuo errore? «No», avrebbe replicato l’imputato. Secondo il giudice Ansarullah, l’apostata rischia la condanna a morte.

«Noi non siamo contro alcuna specifica religione nel mondo — ha precisato il magistrato —. Semplicemente in Afghanistan questo genere di cose non sono ammesse. Sono contro la legge. Non si può andare contro l’Islam». Il verdetto è stato annunciato entro un paio di mesi. Il cristiano Abdul Rahman si è tradito proprio in un’aula di tribunale, mentre chiedeva l’affidamento delle sue due figlie femmine, da sempre in custodia ai nonni materni. Abdul aveva lavorato in Pakistan e poi era emigrato in Germania per nove anni. È tornato nel 2002, alla caduta dei talebani, e da allora ha cercato di riavere le figlie. «Come potete dare queste bambine a un infedele? — ha gridato il suocero —. Guardategli nella borsa, c’è una Bibbia». Abdul è stato arrestato sul posto.

Il vice presidente della commissione (statale) dei Diritti Umani, Ahmad Fahim Hakim, non è affatto rassicurante. «La Costituzione è basata sulla Sharia — ha dichiarato riferendosi alla legge coranica —. E chi rinnega l’Islam merita la morte». Il «caso Abdul Rahman » capita, per sua sfortuna, in una fase di difficoltà del governo centrale. Il presidente Hamid Karzai è l’incarnazione vivente del leader, leale e progressista, che Washington non trova in Iraq. Ma, nonostante ciò, l’Afghanistan non sa scrollarsi di dosso le zavorre della sua storia recente. Dal punto di vista economico gli organismi internazionali non prevedono «entro un ragionevole futuro» che il Paese trovi una qualche forma di sostentamento diversa dai papaveri da oppio. Dal punto di vista militare le cose vanno anche peggio. La guerra ai talebani non è mai finita, così come la caccia, senza successo, al mullah Omar, l’Emiro amico di Osama Bin Laden.

L’anno scorso 1.600 afghani e 99 americani sono stati uccisi dalle milizie fondamentaliste che, nel frattempo, stanno imparando le tecniche di guerriglia irachene: negli ultimi sei mesi ci sono stati almeno 25 attentati kamikaze. È facile pensare che, sul «caso Abdul Rahman», il governo Karzai si troverà tra due opposte pressioni. Da una parte l’Occidente, desideroso di una soluzione incruenta che confermi la nuova immagine tollerante e amichevole dell’Afghanistan. Dall’altra, qualcuno nel Paese ha già detto che un’assoluzione sarebbe un regalo al mullah Omar. «Questo processo — si legge sull’editoriale di Cheragh, un quotidiano della capitale—risveglia il sospetto che, oltre alla loro democrazia, gli stranieri abbiano voluto portare in Afghanistan l’Aids e il Cristianesimo ».



 

Andrea Nicastro

 

CorSera 21 marzo 2006