Corriere della sera 3 aprile 2003
Nissim, il ragioniere che salvò 800 ebrei e Bartali portava in bici i documenti falsi
Toscana, 1943: una «rete» che coinvolse religiosi e suore per aiutare le vittime delle persecuzioni
di Francesco Alberti DAL NOSTRO INVIATO
FIRENZE – Questa è la storia di un ebreo pisano, Giorgio Nissim, che aveva studiato per fare il ragioniere, ma che la Seconda guerra mondiale trasformò in un salvatore di ebrei. Ma è anche la storia di uno specialissimo «postino», Gino Bartali, che batteva le campagne, tra parrocchie e frati francescani, nascondendo nella canna della bicicletta documenti falsi per i perseguitati. E¹ una storia di ebrei e di cattolici, di rabbini e di sacerdoti, di conventi di clausura trasformati in rifugi e in tipografie. Uomini di religioni diverse che nell¹opposizione al nazifascismo, nelle pieghe di una pericolosa clandestinità, trovarono la forza di costruire una rete d¹azione con un unico interesse: salvare la vita di altri uomini.
Furono almeno ottocento le persone che nel biennio ¹43-¹44 tra Livorno, Lucca e Pisa, terre insanguinate dalla presenza della Linea Gotica e teatro di 83 stragi nazifasciste, trovarono scampo alle persecuzioni grazie all¹assistenza, al coraggio e alla capacità organizzativa di Giorgio Nissim: una sorta di «Perlasca toscano», verrebbe da dire, se non fosse per il rischio di banalizzare l¹irripetibile originalità di questi uomini.
Ma ben poco avrebbe potuto fare il ragioniere ebreo se non avesse avuto l¹appoggio di religiosi come i Sacerdoti Oblati di Lucca, l¹arcivescovo di Genova, frati francescani, suore di clausura e politici di estrazione cattolica (tra questi, il padre dell¹ex senatrice dc Maria Eletta Martini). Un esercito che, com¹è scritto in una testimonianza resa da Giorgio Nissim nel ¹69 e attualmente custodita negli archivi del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano, «era stato incaricato di tenere rapporti (con il movimento clandestino ebreo, ndr.) dallo stesso Papa di allora, Pio XII». Circostanza, questa, che probabilmente introdurrà nuovi elementi di dibattito nella controversa analisi sul ruolo e l¹atteggiamento tenuto dal Vaticano nei confronti del regime nazifascista.
E¹ una storia di eroi silenziosi. Lo stesso Gino Bartali, cattolico fervente, devoto di Santa Teresa del Bambin Gesù, militante di Azione Cattolica sin dal ¹35, «era un estroverso, parlava di tutto e di tutti – ricorda il figlio Andrea -, ma mai della carità che aveva fatto o delle vite che aveva salvato in quegli anni di guerra perché, diceva, “quelle cose lì si fanno e basta…”». E se adesso questa storia comincia a prendere corpo è solo per un combinato di fortunate circostanze. La decisione dei figli di Nissim, Piero e Simona, di riordinare i tre quaderni che contengono le memorie del padre, deceduto nel ¹76. La tenacia con la quale due studiose di storia, Silvia Angelini e Paola Lemmi (con la supervisione di Liliana Picciotto della Fondazione di documentazione ebraica di Milano), stanno raccogliendo le testimonianze di ebrei, ma anche partigiani, salvati dalla rete di Nissim. E infine l¹impegno del presidente del consiglio regionale della Toscana Riccardo Nencini e del suo vice Enrico Cecchetti, che hanno messo in cantiere a fine aprile un convegno per riunire alcuni dei protagonisti di allora (a cominciare da don Arturo Paoli, oggi novantenne, premiato in Israele con la prestigiosa onorificenza di «Giusto tra le Nazioni») e consegnare il «Gonfalone d¹Argento» alla memoria di Giorgio Nissim.
L¹ebreo pisano, che allo scoppio della guerra era poco più che trentenne, il ragioniere non l¹ha mai fatto. Dal ¹40 ricoprì diversi incarichi nella struttura toscana della «Delasem», organizzazione creata dall¹Unione delle comunità israelitiche per dare assistenza ai profughi ebrei, in particolare a quelli rinchiusi nei campi italiani di internamento. Le cose precipitarono nell¹autunno del ¹43. Dopo l¹arresto dell¹intero gruppo fiorentino di «Delasem», Nissim si ritrovò solo, proprio mentre la persecuzione razziale raggiungeva l¹apice. Cominciò allora la collaborazione con i Sacerdoti Oblati di Lucca: don Paoli, don Staderini, don Niccolai. «Attrezzai un completo ufficio di carte false – ricordò lo stesso Nissim – in una stanza delle suorine di clausura». Una fabbrica di documenti falsi («Spesso erano gli stessi sacerdoti a mettere firme fittizie al posto di quella del Podestà»), che consentivano di salvare gli ebrei o nascondendoli in qualche sperduto convento della Toscana oppure facendo loro raggiungere zone d¹Italia già liberate. Nissim si occupò di persona anche dell¹aspetto finanziario: «Andavo a Genova con mezzi di fortuna – raccontò – per ritirare il denaro da don Repetto, segretario dell¹arcivescovo, poi consegnavo le somme a don Paoli». Il coraggio non gli mancava: «Una volta – racconta oggi il figlio Piero – penetrò in piena notte in una villa di Lucca, sede del comando tedesco, riuscendo a recuperare numerosi arredi sacri della comunità ebraica».
Gino Bartali, in quel tragico autunno del ¹43, era già un simbolo per l¹Italia dei due pedali, e non solo. Aveva vinto il Tour de France del ¹38 e una miriade di altre corse. Ma soprattutto aveva già maturato quella fede che lo accompagnerà fino alla morte quando, anziché le tante maglie di campione, volle portarsi nella tomba solo il mantello da Terziario carmelitano. Inevitabile che venisse coinvolto nella rete di Nissim e degli Oblati. «Il suo compito – racconta il figlio Andrea – era quello di portare nelle tipografie clandestine le foto e le carte per fabbricare i documenti falsi. Arrivava al convento, smontava la bici, infilava il materiale nella canna centrale e ripartiva. Oppure faceva da guida, indicando le vie meno note per raggiungere alcune località del Centro Italia». Partiva sempre da Firenze, con la sua bici da corsa e la maglia con la scritta «Bartali»: «Se lo fermavano, diceva che si stava allenando. In realtà, i fascisti della zona qualche sospetto lo nutrivano su di lui, ma non avevano il coraggio di arrestarlo: avrebbero rischiato una sollevazione popolare».
Pedalava, il grande Gino, per colli e campi: su ad Assisi, al convento dei fraticelli, in Umbria, nelle Marche, «fino ad arrivare a Roma, se necessario».
Una volta rischiò grosso: «Le camicie nere lo convocarono a Villa Triste, luogo di torture a Firenze, e gli fecero capire di stare lontano da certi ambienti cattolici. Lui rispose alla sua maniera: “Io faccio quello che mi sento”. Poi però tornò a casa e ci disse “Ragazzi, ci si va a nascondere in un paesino vicino ad Arezzo…”». La famiglia andò. Lui no: rimase fino all¹ultimo con Nissim e la sua rete.