20 aprile 2005 – CorSera
Visto da vicino: verità e leggende
Ma quale Panzer Kardinal, è un mite
Il nome scelto è un ribadire quali siano le radici cristiane dell’Europa che la Costituzione Ue non ha voluto riconoscere
Credo che una certa emozione mi sarà perdonata. Scrivo a caldo, in effetti (televisore spento, telefono e telefonini staccati) subito dopo avere appreso di essere stato coautore di un libro con il Pontefice defunto e di un altro con quello appena eletto. Cose che sembrano troppo grosse e impegnative, per uno che da molti anni ha abbandonato Milano per vivere tranquillo sul lago di Garda, che va di rado a Roma e ancor più di rado in Vaticano, che più che di attualità ecclesiale ama occuparsi, seppur da divulgatore, di storia della Chiesa e di esegesi biblica. Eppure, non so come, ma è andata così: l’invito a pranzo a Castelgandolfo, la scoperta che Giovanni Paolo II leggeva i miei libri (sin dal primo, Ipotesi su Gesù , che volle egli stesso far tradurre in polacco) e poi la domanda imprevista, che mi mise in crisi e mi fece esitare ben più che esultare. «Perché non mi fa qualche domanda?».
Ne nacque quel Varcare la soglia della speranza , dove le risposte del papa – la sola cosa che conti, in quel libro – mi commossero, pensando che le aveva scritte tutte a mano, in polacco, al termine delle sue giornate massacranti. Soltanto dopo scopersi che, tra i motivi per i quali papa Wojtyla aveva voluto darmi tanta fiducia («Faccia lei!», mi disse quando gli chiesi se aveva qualche indicazione da darmi) c’era anche il fatto che il cardinal Joseph Ratzinger gli aveva confidato di essere rimasto soddisfatto del lavoro che avevamo fatto insieme. Fu nell’estate del 1984. Il cardinale bavarese da meno di tre anni era stato nominato da Giovanni Paolo II Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede come, in linguaggio teologicamente corretto, era stato ribattezzato l’antico Sant’Offizio.
Ratzinger mi interessava molto. La fede, l’ortodossia sembravano essere messe in pericolo nella tribolazione postconciliare della Chiesa ma, all’inizio di quella tempesta, c’era anche il ruolo che il giovane teologo aveva giocato come consulente dell’ala progressista dell’episcopato tedesco. I Ratzinger, i Küng, gli Schillebeeckx ed altri tedeschi, olandesi, francesi avevano fondato Concilium, la rivista della contestazione più radicale perché più «scientifica», fatta non solo sugli slogan ma anche sugli studi approfonditi. E invece, qualche anno dopo, ecco Ratzinger non solo cardinale ma addirittura nel palazzo romano che era stato dei Grandi Inquisitori. «Non sono cambiato io, sono cambiati loro», mi rispose quando, tra le prime domande, gli chiesi di questa sua riconversione alla Tradizione.
Voleva dire che si era accorto come quella teologia per la quale aveva parteggiato, più che approfondire la fede per farne risaltare gli aspetti più consoni ai tempi, predicava la rottura, la discontinuità, presentava il Vaticano II non come il ventunesimo Concilio ecumenico della Chiesa ma come un nuovo inizio che esigeva la tabula rasa di quanto lo aveva preceduto. Mentre nel caso di papa Wojtyla fu sua l’iniziativa del libro intervista, non così con il cardinal Ratzinger: fui io che, attraverso amici comuni, gli feci pervenire la richiesta e osai addirittura sollecitarla più volte.
La cosa fece sorridere gli addetti ai lavori che ben sapevano come, nei secoli, il Sant’Offizio fosse stato caratterizzato dal segreto più rigoroso (ci volle, appunto, Ratzinger per decidere di aprire agli studiosi un archivio che era sempre stato inaccessibile) e, dunque, giudicavano velleitaria la mia proposta: un’intervista! Un libro, addirittura, con il Prefetto della Fede! Si ha forse voglia di scherzare? E invece, l’improbabile avvenne. Un paio di giorni prima del Ferragosto del 1984 parcheggiavo la mia auto nel parco del bel seminario di Bressanone che, durante l’estate, offriva un’economica villeggiatura a preti e a famiglie cattoliche senza troppe pretese. Tra quei villeggianti, un sacerdote dal volto intenso e dai modi aristocratici, malgrado le origini piccolo borghesi, i capelli già candidi, un corpo minuto, un modesto clergyman senza alcuna insegna. Il Cardinal Prefetto da anni passava così le sue due settimane di vacanza annuale. Di quei pochi giorni, tre – e non so ancora perchè – aveva deciso di riservarmeli. Ci vedevamo al mattino e conversavamo sino a pranzo, davanti al registratore che girava.
A tavola, le buone, corpulente suore tirolesi ci servivano qualche loro rustico piatto. Un breve riposo e poi di nuovo davanti al magnetofono. Le ultime due sere, per ritocchi e precisazioni, ci vedemmo anche dopo cena. Da quei colloqui, nacque quel Rapporto sulla fede che non fu soltanto un clamoroso best seller in una ventina di lingue (negli Usa, terra di cattolicesimo tradizionale, The Ratzinger Report era venduto, in tascabile, nei supermercati) ma determinò una tale reazione, pro e contro, nella Chiesa intera che l’anno della sua apparizione è indicato ormai dai manuali come la fine della fase caotica dopo il Concilio.
Prima di dire qualcosa del suo pensiero, è dell’uomo Ratzinger che vorrei parlare. La leggenda – e, purtroppo, l’odio ideologico di tanti, in un certo mondo clericale – ne ha fatto un Panzer-Kardinal , un disumano fanatico dell’ortodossia, un vero erede dei Grandi Inquisitori. Il Ratzinger della realtà, non del mito, è tra gli uomini più miti, comprensivi, cordiali, addirittura timidi, che mi sia stato dato di conoscere. Potrei dire di lui quanto ho testimoniato, di recente, al processo di beatificazione di monsignor Alvaro del Portillo, il Prelato dell’Opus Dei che è stato il primo successore dell’ormai santo Escrivá de Balaguer: «Un sacerdote con il quale, dopo qualche ora di colloquio, veniva voglia di deporre penna e taccuino per chiedere di confidarsi, magari di confessarsi». Con Ratzinger non mi confessai, ma sarei stato lieto ce ne fosse stata l’occasione.
Uomo austero, certo: a metà del pomeriggio, le suore del seminario di Bressanone portavano un vassoio con cioccolata e tè e con eccellenti biscotti e torte fatte da loro. Ero io, ed io soltanto, che mi servivo con gusto. Per Sua Eminenza, solo un bicchier d’acqua da sorseggiare lentamente. Ma, particolare significativo, un’austerità che (a differenza di troppi fanatici del moralismo) riservava a sé e non pretendeva dagli altri. Ne ebbi conferma in uno dei nostri altri incontri, anni dopo quando, parlando dei giorni di Bressanone, gli dissi sorridendo che, almeno un poco, avevo sofferto per lui, rinunciando a fumare per tutte quelle ore. Lo vidi sinceramente costernato: «Ma perché non me l’ha detto? Non mi avrebbe disturbato affatto. Anzi, pur non fumando, le dirò che mi piace l’aroma del tabacco». Forse non era vero. Ma ammirai questa sua premura per mettere a suo agio l’interlocutore.
Uomo, tra l’altro, di fine umorismo, pronto al sorriso: ricordo una sera a tavola, dopo un premio che gli era stato dato, che volle sapere da me alcune delle barzellette che circolavano sul suo conto nelle parrocchie. Gliene riferii qualcuna e lo vidi davvero divertito. Del resto, c’è da chiedersi che cosa resti della leggenda nera dell’Inquisitore se si fa un bilancio dei suoi 24 anni come Prefetto della Fede, scoprendo che la misura più grave presa contro un teologo della liberazione (quella da cui veniva contro di lui un fiume di contumelie) fu il caffè cui invitò, nel suo ufficio, Leonardo Boff e la disposizione di interrompere per un anno il fiume di interviste, di dichiarazioni, di manifestazioni. Dal palazzo di piazza Sant’Uffizio è uscito il brontolio, doveroso, di molti tuoni ma da essi non si è scatenata alcuna folgore, le celebri segrete nei sotterranei del cupo palazzo non sono state ripristinate per alcuno.
In realtà, per amore della Chiesa, Joseph Ratzinger ha fatto il maggiore dei sacrifici, la rinuncia alla sua vocazione vera, quella dello studioso di teologia, di professore che divide il suo tempo tra la biblioteca e il contatto con i giovani. C’è sempre stato, in lui, il disagio di dovere intervenire criticamente sul lavoro di certi suoi colleghi: se lo ha fatto è perché questo era il suo dovere, questo il duro compito dell’«operaio chiamato a lavorare la vigna del Signore», come ha detto nelle prime parole da papa.
Perché quel nome e non un Giovanni Paolo III, come pure gli avrebbe suggerito la fedeltà, l’affetto, anzi la fratellanza con il suo predecessore? Ma perché Paolo VI proclamò san Benedetto da Norcia patrono dell’Europa (e Wojtyla vi aggiunse Cirillo e Metodio, apostoli dell’Oriente) e, dunque, la scelta di quel nome è un ribadire quali siano le radici cristiane dell’Europa che la Costituzione dell’Unione non ha voluto riconoscere. Rapporto sulla fede uscì, dicevo, nel 1985. Mancavano soltanto quattro anni al crollo del Muro eppure nella Chiesa vasti settori erano ancora nella fase dell’innamoramento di un comunismo che avevano scoperto con passione pari al ritardo. Tutto, in quel libro, provocò l’indignazione di chi si diceva «progressista» (e stava invece per finire fuori della storia), tutto ma innanzi ad ogni altra la definizione che Ratzinger vi dava del marxismo: «Non speranza, ma vergogna del nostro tempo».
Non fu, comunque, quel colloquio, «il manifesto della restaurazione», come molti dissero. Fu, semplicemente, la riconferma della fede di sempre, l’anticipo di ciò che sarebbe stato ribadito nel Nuovo Catechismo. Mancano il tempo e lo spazio per prevedere almeno qualcosa di ciò che contrassegnerà il papato di Benedetto XVI (mi fa effetto chiamare così il buon, caro don Joseph!). Una sola cosa sulla quale credo di non sbagliarmi: un intervento rapido e drastico sulla liturgia per ridarle stabilità e sacralità. In ogni caso, lo Spirito Santo sa quel che fa. E, dunque, saprà ispirare al meglio il nuovo pastore.
messori@numerica.it
messori@numerica.it
Vittorio Messori
21 aprile 2005 – CorSera
I molti pregiudizi da rimuovere
La vera modernità di Benedetto XVI
Eleggendo Papa Joseph Ratzinger la Chiesa cattolica ha mostrato innanzitutto la sua vitalità storica e la sua collaudata sapienza in quanto corpo politico, sia pure di un tipo specialissimo. Posta infatti di fronte a una difficile successione, la sua suprema assemblea non ha ripiegato sul compromesso e sulle mezze misure. Essa ha tagliato con risolutezza il nodo mostrando cosa significhi un rapporto antico e consapevole con la dimensione della leadership. E ha scelto.
Ha scelto non già un arcigno conservatore o un occhiuto inquisitore: a dispetto di molti timori e di molti pregiudizi, Joseph Ratzinger non è questo. Egli è principalmente un testimone della nostra drammatica epocalità, l’uomo consapevole che—nella vampa infuocata dei tempi — interi universi storici, interi mondi antropologici e culturali che per secoli ci hanno plasmato, minacciano di venire annientati e di scomparire; e sente che, lungi dal corrispondere a un qualsiasi progresso, ciò apre solo la strada verso il nulla. Al pari di una parte significativa dell’élite intellettuale europea e americana che oggi sente in modo non dissimile, anche Ratzinger, negli anni Cinquanta e Sessanta, ha immaginato altri orizzonti che per quell’élite furono gli orizzonti dell’emancipazione sociale attraverso la rottura politica, per lui quelli del Concilio. Ma poi egli pure ha dovuto prendere atto delle dure repliche della storia e della mutata atmosfera dei tempi; e come altri egli pure ha avvertito il bisogno di sintesi e di pensieri nuovi sì, ma che fossero capaci innanzitutto di non perdere il legame con il passato e con ciò che ne deriva alla nostra identità.
È proprio nella comune riscoperta dell’essenzialità delle radici e della parte che in queste ha il retaggio giudaico-cristiano per la cultura laica, è il depositum fidei per quella religiosa, il senso dell’inaspettato riavvicinamento tra le due: riavvicinamento che costituisce uno dei grandi fermenti nuovi dei tempi che si annunciano o che forse già sono. L’intellettuale teologo Ratzinger, alimentato dalla grande tradizione di cultura della sua e della nostra Germania, è stato uno degli attori decisivi della riscoperta e del riavvicinamento che dicevo. La sua celebre conversazione con Jürgen Habermas, uno dei massimi pensatori laici contemporanei, sui grandi problemi della scienza e della trasmissione della vita, è destinata molto probabilmente a restare come una pagina altamente simbolica della vicenda intellettuale dei nostri anni.
Tra le convenzioni del discorso pubblico attuale c’è quella per cui chi non è disposto a disfarsi senza fiatare del passato e dei suoi valori sarebbe un nemico della modernità e dunque, alla fine, della felicità umana. Ma ogni giorno che passa il rapporto tra modernità e felicità diventa più ambiguo; troppo spesso ogni nesso tra le due sembra svanire e apparire inesistente. Batte insomma alla porta del nostro presente l’urgenza di una diversa modernità. Essere moderni, cioè liberi ed eguali, ma senza la tutela protettiva del potere e senza l’invasione ricattatoria della tecnica; essere moderni, cioè rendere effettivamente universale, ma senza passare attraverso scontri mondiali sanguinosi, «l’acquisto per sempre » di civiltà che storicamente questa parte del mondo ha fatto per sé e per ogni altro; essere moderni, ma senza rotture irreparabili e costruendo un nuovo senso del limite: ciò che vuol dire, anche, non poter non riconoscersi in una storia e in una memoria iniziate con un giovane ebreo in Palestina duemila anni fa, le quali aspettano oggi dall’intelligenza e dal cuore di Benedetto XVI l’impulso per restare nel nostro presente.
Ernesto Galli della Loggia