A dieci anni dalla tragedia di Waco
di Massimo Introvigne (da “Il Domenicale”, 19 aprile 2003)
Il decennale della tragedia di Waco, insieme al ritrovamento della giovane Elizabeth Smart (rapita da un “profeta” e da sua moglie nello Utah) e alla difficoltà di spiegare come sia possibile che giovani della buona borghesia palestinese si arruolino fra i terroristi suicidi di Hamas, ha rilanciato la polemica sulle relazioni fra religione, violenza e tecniche di persuasione intensiva. Prima dei fatti più recenti, e anche prima dell’11 settembre 2001, diversi incidenti avevano rilanciato le polemiche sul tema: i suicidi e omicidi del movimento esoterico Ordine del Tempio Solare nel 1994, 1995 e 1997; l’attacco con il gas perpetrato il 20 marzo 1995 da esponenti del movimento neo-buddhista giapponese Aum Shinri-kyo contro la metropolitana di Tokyo; il suicidio di 39 membri del culto dei dischi volanti Heaven’s Gate nel marzo 1997 a Rancho Santa Fe, in California; la scoperta il 17 marzo 2000 di suicidi e omicidi per un complesso di più di ottocento morti perpetrati dal movimento cattolico marginale Restauration of the Ten Commandments of God a Kanungu, in Uganda. La vulgata diffusa soprattutto dai cosiddetti movimenti “anti-sette” attribuisce tutti questi incidenti alla capacità di dirigenti o “guru” senza scrupoli di condizionare i loro fedeli tramite tecniche di “lavaggio del cervello” spingendoli fino al suicidio e all’omicidio. Altri, che pure non condividono la tesi del “lavaggio del cervello”, fanno riferimento alla psicopatologia: al mondo, dicono, è sempre esistita una certa percentuale di schizofrenici, e fra questi si reclutano i capi e i seguaci delle “sette”. Gli studiosi accademici dei nuovi movimenti religiosi non sono d’accordo. Fanno notare che le ipotesi sul “lavaggio del cervello” sono state regolarmente smentite da una massiccia letteratura accademica. Inoltre, quando si tratta di spiegare i movimenti religiosi più estremi, sia la tesi del lavaggio del cervello (“tutti manipolati”) sia quella della psicopatologia diffusa (“tutti matti”) spiegano insieme troppo e troppo poco. Spiegano troppo, perché – se si leggono con attenzione gli scritti di chi le propone – ci si accorge che propongono critiche generali di tutte le esperienze religiose “forti” e di tutte le conversioni drammatiche e radicali. Tuttavia, religioni e conversioni di grande intensità interessano oggi milioni di persone e migliaia di movimenti. Perché solo una piccola percentuale di questi movimenti è coinvolta in episodi di violenza, terrorismo o suicidio?
Una prima risposta a questa domanda è che i movimenti religiosi di rado sono intrinsecamente violenti. Spesso rispondono a pressioni esterne. Da questo punto di vista, Waco è un caso da manuale. Certamente i Davidiani di Waco non pensavano né allo scontro né al suicidio, e la reazione violenta che ha portato alla tragedia è stata ampiamente causata da una serie di provocazioni avviate dai movimenti anti-sette e dalla stampa scandalistica e spinte fino a coinvolgere un’agenzia federale nota per le sue tendenze “manesche” come l’ATF, da cui poi l’FBI ha ereditato una situazione ormai compromessa. Peraltro, non tutti i casi sono come Waco. All’estremo opposto, nessuno provocava o perseguitava i seguaci dei dischi volanti di Heaven’s Gate, che hanno preso la decisione del suicidio con un minimo di stimoli esterni. Inoltre, rimane la domanda perché su centinaia di gruppi religiosi presi di mira, diffamati o perseguitati dai movimenti anti-sette e anche da alcuni governi pochissimi reagiscano in modo violento. Il volume di Mark Juergensmeyer Terroristi in nome di Dio, di recente tradotto in italiano da Laterza, e l’opera collettiva pubblicata da Cambridge University Press, Cults, Religion and Violence, cui io stesso ho collaborato, iniziano a dare delle risposte. Sono i gruppi piccoli, isolati, in crisi che reagiscono più facilmente in modo violento. In ultimo, tuttavia, è un’illusione tipica di un certo relativismo immaginare che la violenza sia indipendente dalle dottrine. Se al-Qa’ida ricorre al terrorismo mentre i fondamentalisti islamici turchi sono in genere non violenti, la differenza non deriva solo dalle circostanze geopolitiche o dalla psicologia dei relativi dirigenti: si tratta anzitutto di una questione dottrinale, di una diversa interpretazione dei testi fondatori dell’islam fondamentalista e dello stesso Corano.
Su questi punti il consenso degli studiosi comincia a influenzare la gestione degli incidenti critici a sfondo religioso in diversi paesi: negli Stati Uniti, dopo Waco, l’FBI ha avviato una discreta ma continua collaborazione con studiosi accademici, che già in diversi casi concreti ha permesso di gestire situazioni difficili in modo ben diverso da Waco. Se questo avvenisse ovunque, i poveri morti di Waco non sarebbero caduti invano. Purtroppo, i rapporti internazionali sui diritti umani hanno evidenziato almeno cinque paesi dove la gestione delle “sette” rimane invece piuttosto “manesca”, pesantemente influenzata dai movimenti “anti-sette” e dai miti sul “lavaggio del cervello”: nell’ordine, Cina, Francia, Russia, Belgio e Germania. Sarà un caso se si tratta anche dei paesi che si sono mostrati meno sensibili alle violazioni dei diritti umani da parte di Saddam Hussein?