(Avvenire) Tendi l’orecchio, c’è il Messia

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“Avvenire”, 4 luglio 2003

dibattito

L’attesa della fine dei tempi è un tema assente dall’orizzonte religioso di oggi? Parlano Luzzatto, De Benedetti, Caruso e Boccaccini

Da Venezia Francesco Dal Mas

Che cosa resta oggi della speranza messianica? È il singolare interrogativo
che si porranno studiosi europei ed americani nei tre giorni di convegno a
Venezia su «Il Messia tra memoria ed attesa».  La prima risposta –
problematica – arriva da Paolo De Benedetti, della facoltà teologica
dell’Italia settentrionale. «È difficile udire – ammette – nella foresta dei
messianismi odierni qualche passo del Messia, accorgersi se “sta venendo”
(Elia Benamozegh). Ma è nostro dovere, prima che di credenti, di uomini
creati dalla storia, tendere l’orecchio, e se è possibile, preparare nel
deserto la via di un vero Messia: che, come insegnavano alcuni maestri
chassidici, arriverà se io comincerò a essere il Messia di me stesso, senza
per questo “privatizzare” l’attesa di tutta la creazione che geme e soffre
fino a oggi nelle doglie». Fermenti messianico-millenaristi legati al
ritorno di Gesù percorrono la storia cristiana, s’intrecciano con la
politica e, come tali, arrivano fino ai nostri giorni. A questo punto gli
interrogativi si moltiplicano e le risposte si caricano di ulteriore
problematicità. Come riconosce Sergio Caruso, dell’università di Firenze.
«Secondo Lyotard, i grand récits caratteristici della politica moderna, le
narrative profetiche, hanno perso oggi ogni appeal. La politica post-moderna
sarebbe caratterizzata dal declino di ogni tensione messianica. Ma sarà poi
vero?».
Un osservatorio speciale, per rispondere a questo interrogativo, è quello
del Medio Oriente. Che ne pensa Amos Luzzatto, presidente dell’Unione delle
comunità ebraiche in Italia? «È giunto ora il momento delle scelte – dice,
con riguardo ovviamente a Isralee – fra un Messianesimo che tenga viva la
speranza, che infiammi gli ebrei motivandone quotidianamente gli sforzi e i
sacrifici, così come l’edificazione di una cultura che sia adatta a una
società migliore – non la migliore che la fantasia utopistica possa
immaginare – e un messianesimo che sia soltanto una copertura per una
politica intransigente, che trova i propri migliori alleati nei
fondamentalisti del mondo arabo-islamico, i quali ne sono l’immagine
speculare».
Nel primo secolo E.V. il messianismo era in Israele un messaggio
controverso, da molti condiviso con fremente attesa, da molti apertamente
rigettato, ricorda Gabriele Boccaccini dell’University of Michigan. Ma la
storia del messianismo non si esaurisce col primo secolo. «Da allora in poi
essa viene elaborata nei due “sistemi religiosi”, giudaismo e cristianesimo,
nel primo caso come attesa del Messia ancora da venire, ne secondo come
memoria del Messia già venuto e nell’attesa della sua seconda venuta». E
lungo le strade della storia cristiana s’incontrano numerosi incroci tra
messianismo e politica. «A partire dall’età moderna – puntualizza
Boccaccini – la figura del Messia e l’attesa dello shalom messianico
s’intrecciano con la tradizione mistica e si confrontano con i problemi del
mondo attuale. Ma alla fine di tutto questo percorso sorge un interrogativo:
cosa resta oggi della speranza messianica?». «Di solito le rivelazioni
messianiche hanno a che fare con un libro – prova a risponde Caruso -. Ma
non è detto che la prossima sia contenuta in un libro, probabilmente troverà
canali diversi. Per esempio c’è tutto un messianismo su internet. Ma
sopratuttto è cambiato il tipo di soggettività. I sistemi filosofici che
hanno tenuto campo finora sono in fondo delle biografie di un supersoggetto,
magari senza nome e cognome, o magari si chiamano nazione, classe, storia,
umanità, scienza, razza. Sono sempre un soggetto da cui ci si aspetta una
liberazione. Solo che con questo tipo di soggetto non ci possiamo più
identificare. Per identificarsi bisogna essere simili. Io credo che sia
cambiata la struttura di fondo della soggettività. Emerge un soggetto che
vede il primato del sé piuttosto che dell’io. E allora è possibile che non
si creda più a quel le vecchie storie». In conclusione? «Quando qualcuno
riuscirà a scrivere o a esprimersi in quella maniera, riuscirà di nuovo a
creare tensioni messianiche e identificazioni ideologiche». Ma per De
Benedetti l’attesa, almeno in campo religioso, dev’essere più operativa. E
più fiduciosa. «Della nostra epoca – osserva – si può dire
contemporaneamente che è molto religiosa o che non lo è più; in realtà i
grandi temi religiosi si sono disciolti o insabbiati nelle più varie forme
socio-culturali, psicologiche, pubblicitarie, politiche che lasciano fuori
le grandi istituzioni religiose tradizionali. E questo, in un mondo che non
attende più il Messia, produce l’effetto singolare di un moltiplicarsi di
messianismi grandi e piccoli, individuali e collettivi, che forse, più che
l’attesa di una salvezza, di “nuovi cieli e nuova terra”, esprimono la
profonda insoddisfazione del presente». Che l’uomo occidentale abbia, come
dice Michael Walzer, un dna esodico, spiega questa insoddisfazione, e questo
molteplice ansioso sguardo al futuro. Oggi è difficile sentire i passi del
Messia, tanto numerosi e tanto rumorosi sono i messianismi. Ma proprio per
questo – è l’appello di de Benedetti – il credente deve tendere l’orecchio.