(Avvenire) Perchè fa così paura cercare di salvare una vita?

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CHI HA PAURA DELLA LIBERTÀ?

NEI CONSULTORI SENZA OLTRANZISMI



Marina Corradi

Mettiamo per ipotesi che una nostra figlia, o sorella,
incinta, entri domani in un pubblico consultorio, già
sufficientemente intenzionata a porre fine a quella
gravidanza.
Già quasi totalmente decisa.
Non può, o non vuole, o non c’è lo spazio, pensa, per quel
figlio. Magari, la decisione è irrevocabile.
Forse, non per tutte.
E tuttavia l’automatismo con cui il certificato per
l’interruzione viene quasi sempre e quasi dappertutto
consegnato da un operatore, quasi si trattasse di una carta
qualsiasi, è esempio di quella burocrazia sanitaria tanto
corretta, tanto rispettosa della privacy, che però in fondo
se ne infischia sia della donna, che di suo figlio che non
nascerà.

Ma, obiettano, l’autonomia, la libertà della donna.
Al di là del dettato dell’articolo 2 della 194, è davvero
tanto offensivo, tanto ignobile, sempre che una donna
accetti liberamente un colloquio con dei volontari pro vita,
sentirsi chiedere soltanto se proprio non c’è una via
d’uscita, una sola possibilità da dare a quello lì che
silenzioso aspetta dentro di lei il suo destino?
Nessun obbligo, nessuna coazione ad accettare quel dialogo;
ma una proposta appena, infarcita di cautele: di affrontare
per un momento un’ipotesi, che d’altronde tante donne sul
punto di abortire hanno in sé, ferocemente tacitata, e non
da se stesse.
Ma spesso dal marito, che non vuole, o che non c’è, o dal
“compagno” che se ne è già andato, dal lavoro che
rapidamente sparirebbe, dai ricatti in ufficio, dai soldi
che non bastano.
Davvero è così ripugnante che qualcuno – quando una vita è
in gioco – ti domandi: sei proprio certa? Hai bisogno di
aiuto?
Che è poi ciò che da anni fanno per esempio i volontari del
Centro di aiuto alla vita alla Mangiagalli di Milano.
Che non è esattamente un ospedale antiabortista.

Certo, si tratta di un lavoro di una delicatezza profonda.
Di una sensibilità e un rispetto estremo per la donna che si
incontra.
Non è lavoro per chiunque, né bastano la migliore volontà, o
il più grande fervore.
Fa tremare l’idea che si possa anche solo pensare di portare
nei consultori la veemenza integralista che alcuni usarono
nella battaglia del referendum abrogativo della legge 194.
Il volontariato nei consultori, se ci si arriverà, dovrà
mettere da parte coloro che delle donne, in bilico fra la
morte e la vita del figlio, vogliano farsi giudici, quando
invece – lo insegnano quei tanti che in questi anni hanno
aiutato a venire al mondo, in silenzio, 75mila bambini –
tutto ciò che occorre fare è esserci, essere accanto.
Occorre un volontariato che, grato a chi per tutti questi
anni profeticamente ha continuato a lavorare perché i figli
nascessero, si apra a tutte le componenti religiose, e
laiche, anche: a tutti coloro per cui è bello e importante
che anche una sola donna diventi madre.
Perché i “preti maledicenti”, quelli che “minacciano le pene
dell’inferno” e attraverso cui si vorrebbero “far passare le
donne”, esistono ormai solo nell’immaginario acre di
illustri giornalisti e ginecologi un po’ agée – mentre il
fanatismo è accasato altrove.

I cattolici, dal canto loro, si fanno attenti alla realtà.
Secondo la quale, dicono le statistiche dell’ultimo rapporto
ministeriale sulla Ivg, oggi 1 donna su 4 che abortisce è
extracomunitaria, con un aumento rispetto a dieci anni fa di
oltre il 200%, e un tasso di abortività di tre volte
maggiore rispetto alle italiane.
Il che potrebbe voler dire che l’aborto non è più solo
quello delle nostre sorelle o amiche, gelose in ottica
femminista della loro “indipendenza” e “autonomia”, ma
sempre più spesso quell o delle colf in nero, che quel
figlio non sanno proprio dove metterlo.
E che magari, dalla faccia di qualcuno che chieda: vuoi una
mano? non si sentono offese, affatto, ma meravigliate –
perché questa domanda non gliela ha mai fatta nessuno.

Marina Corradi
(C) Avvenire, 22-11-2005