11 Aprile 2005
Vive nella sua eredità
Non l’abbiamo seppellito
10 aprile 2005
Giovanni Paolo II è stato sepolto. La sua personalità però continua a giganteggiare, tanto che appare obiettivamente difficile chiudere in fretta il suo tempo. Un altro verrà, evidentemente verrà, e assumerà il suo ruolo. Arduo però – diciamolo francamente – che possa prendere il suo posto negli occhi del mondo. Eppure, passati appena i momenti più dolorosi e di intensa partecipazione alla sua malattia e alla sua morte, si deve rimeditare la sua eredità. Che è una grande eredità, ma non tale da allontanare i tanti. Non a caso infatti, in questi ultimi giorni vi si sono riconosciuti moltissimi, più di quanti pensavamo. La folla attorno alle sue spoglie ha impressionato. Il numero di leader e delegazioni presenti non ha paragoni con le modeste rappresentanze diplomatiche che accompagnarono i funerali dei papi di una parte notevole del Novecento.
L’eredità più vera di Papa Wojtyla tuttavia non è politica. Il suo testamento rivela innanzitutto la tempra spirituale dell’uomo: «Ognuno deve tener presente la prospettiva della morte. E deve esser pronto a presentarsi davanti al Signore e al Giudice – e contemporaneamente Redentore e Padre».
Nei primi tempi del pontificato, così rispondeva a chi lo interrogava circa il suo orientamento: «La linea del Papa? Questa linea è la fede». E il primato della fede è tutt’altro che scontato, pur se troppo facilmente lo si considera un’ovvietà.
A tale primato si connette la sua pastoralità. Chi lo ha conosciuto come vescovo – si pensi alla Chiesa di Roma – ha avuto la percezione chiara di trovarsi dinanzi a un uomo che prendeva sul serio la vita e la fede della sua gente. È stato un pastore che ha incontrato milioni di uomini e donne, li ha ascoltati, si è interessato a loro. È stato sul serio sacerdote e testimone del Vangelo: fin nel profondo della sua umanità.
Karol Wojtyla è stato un vescovo del Vaticano II, anche se la sua nomina è avvenuta nel 1958. Nelle note testamentarie datate 2000 scrive parole che fanno pensare: «Desidero ancora una volta esprimere gratitudine allo Spirito Santo per il grande dono del Concilio Vaticano II, al quale con l’intera Chiesa – e soprattutto con l’intero episcopato – mi sento debitore». Ma non è solo un tributo al passato: «Sono convinto – aggiunge – che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito».
Nel testamento non si danno indicazioni per il futuro. E in questo si legge un rispetto estremo per la Chiesa e il suo successore. Solamente ha scritto, però, sempre a proposito del Concilio: «Desidero affidare questo grande patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a realizzarlo». D’altra parte, era stato – come lui stesso afferma – la «grandissima causa» del suo pontificato. Che potrebbe anzi leggersi come un’interpretazione creativa del Concilio. Per lui il Vaticano II era, a un tempo, porta sul nuovo millennio e ponte con la grande Tradizione. Il Papa è rimasto fedele alle stesse regole decretate da Paolo VI, anche se ha riempito il servizio pontificale di uno spirito personale e nuovo. Il che mostra come, nella Chiesa, il vissuto, la spiritualità, il tratto umano possano operare una profonda innovazione.
Tanti hanno sentito questo Papa vicino. I piccoli, i poveri, i malati, i feriti della vita hanno amato con intensità la sua figura. Nonostante i problemi che la via ecumenica ha incontrato negli ultimi anni, i suoi funerali hanno registrato una folta e silenziosa partecipazione di personalità cristiane (tra cui il patriarca ecumenico, l’arcivescovo di Atene, la rappresentanza dell’ortodossia russa, con cui esistono questioni aperte). Giovanni Paolo II è stato così salutato come un grande servitore dell’unità cristiana e leader primo del cristianesimo. Anche questo è suo lascito. Perciò la sua eredità non può andare dispersa nelle emozioni che passano, ma andrà recepita in profondità. È un’eredità – come disse il cardinale Montini quando Giovanni XXIII ci lasciò – che «la morte non può soffocare e una tomba non può contenere». Solo la Chiesa può accoglierla nel suo seno.
L’eredità più vera di Papa Wojtyla tuttavia non è politica. Il suo testamento rivela innanzitutto la tempra spirituale dell’uomo: «Ognuno deve tener presente la prospettiva della morte. E deve esser pronto a presentarsi davanti al Signore e al Giudice – e contemporaneamente Redentore e Padre».
Nei primi tempi del pontificato, così rispondeva a chi lo interrogava circa il suo orientamento: «La linea del Papa? Questa linea è la fede». E il primato della fede è tutt’altro che scontato, pur se troppo facilmente lo si considera un’ovvietà.
A tale primato si connette la sua pastoralità. Chi lo ha conosciuto come vescovo – si pensi alla Chiesa di Roma – ha avuto la percezione chiara di trovarsi dinanzi a un uomo che prendeva sul serio la vita e la fede della sua gente. È stato un pastore che ha incontrato milioni di uomini e donne, li ha ascoltati, si è interessato a loro. È stato sul serio sacerdote e testimone del Vangelo: fin nel profondo della sua umanità.
Karol Wojtyla è stato un vescovo del Vaticano II, anche se la sua nomina è avvenuta nel 1958. Nelle note testamentarie datate 2000 scrive parole che fanno pensare: «Desidero ancora una volta esprimere gratitudine allo Spirito Santo per il grande dono del Concilio Vaticano II, al quale con l’intera Chiesa – e soprattutto con l’intero episcopato – mi sento debitore». Ma non è solo un tributo al passato: «Sono convinto – aggiunge – che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito».
Nel testamento non si danno indicazioni per il futuro. E in questo si legge un rispetto estremo per la Chiesa e il suo successore. Solamente ha scritto, però, sempre a proposito del Concilio: «Desidero affidare questo grande patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a realizzarlo». D’altra parte, era stato – come lui stesso afferma – la «grandissima causa» del suo pontificato. Che potrebbe anzi leggersi come un’interpretazione creativa del Concilio. Per lui il Vaticano II era, a un tempo, porta sul nuovo millennio e ponte con la grande Tradizione. Il Papa è rimasto fedele alle stesse regole decretate da Paolo VI, anche se ha riempito il servizio pontificale di uno spirito personale e nuovo. Il che mostra come, nella Chiesa, il vissuto, la spiritualità, il tratto umano possano operare una profonda innovazione.
Tanti hanno sentito questo Papa vicino. I piccoli, i poveri, i malati, i feriti della vita hanno amato con intensità la sua figura. Nonostante i problemi che la via ecumenica ha incontrato negli ultimi anni, i suoi funerali hanno registrato una folta e silenziosa partecipazione di personalità cristiane (tra cui il patriarca ecumenico, l’arcivescovo di Atene, la rappresentanza dell’ortodossia russa, con cui esistono questioni aperte). Giovanni Paolo II è stato così salutato come un grande servitore dell’unità cristiana e leader primo del cristianesimo. Anche questo è suo lascito. Perciò la sua eredità non può andare dispersa nelle emozioni che passano, ma andrà recepita in profondità. È un’eredità – come disse il cardinale Montini quando Giovanni XXIII ci lasciò – che «la morte non può soffocare e una tomba non può contenere». Solo la Chiesa può accoglierla nel suo seno.
di Andrea Riccardi
Avvenire