Marina Corradi
Avvenire, 17 febbraio 2008
Giuliano Ferrara si è sottratto a un dibattito televisivo sull’aborto con Marco Pannella. Ha detto che non discuterà della vita umana come fosse un’opinione con gli altri candidati in tv, perché la tv «è antiveritativa».
Un dibattito televisivo, dice il direttore del ‘Foglio’, è un bel mezzo, rispettabile, per discutere di Ici o legge elettorale, ma «sulla vita umana vale la solitaria e pubblica ricerca della verità». Una verità che «non è giusto esporre alla futilità delle opinioni a confronto in un dibattito in tv». Invece, ha proposto a Pannella, confrontiamoci in un teatro, quando vuoi.
Lo scontro a Saxa Rubra – col grande vecchio dei radicali che inseguiva il laico pro life urlandogli «vecchio comunista» – ha destato fra giornalisti e politici un certo sbalordimento. Come sarebbe, che la tv è antiveritativa? Intanto lo stesso Ferrara conduce ogni sera un dibattito in tv. E poi, da vent’anni la tv non è il luogo principe per le verità che vogliono emergere? Dai dibattiti politici ai talk show, la tv non è proprio il luogo migliore per dire e dirsi e mostrare tutto, per la dialettica e il contraddittorio, non è il gran nostro tribunale collettivo e domestico per l’accertamento del vero?
Sul dizionario della lingua italiana Devoto-Oli, ‘veritativo’ è «ciò che conduce alla verità». Diverso da ‘veritiero’, che vuol dire sincero. Ciò che Ferrara dice non è che la tv mente, ma che sulla questione della vita «non è veritativa», non conduce a verità. L’accusa è al mezzo. Ci sarebbe dunque sotto le telecamere, nei tempi imposti dalla regia, nella fretta di un media che costringe, e soprattutto nei dibattiti elettorali, a parole brevi e slogan a effetto, qualcosa che crea quasi necessariamente una futilità e superficialità obbligata. Come se le regole e la concitazione delle parole contate e dei minuti che corrono portassero a un appiattimento e equivalenza di ogni tesi. Il dibattito televisivo come il luogo consacrato di un relativismo in cui ogni opinione equivale all’altra, e non si tende tanto a cercare la verità, ma il consenso – ciò che riscuote maggior consenso, è vero.
Che c’è di diverso in un teatro, o in una piazza? C’è che si è fuori da questa scatola virtuale che allinea e equipara ogni ragione. C’è un pubblico in carne e ossa – la stanza non è chiusa – e le ragioni e la passione dei contendenti sono libere di dirsi pienamente e di mostrare la loro statura senza il conto avaro dei minuti, ciascuno prendendosi il tempo che la propria vis polemica comanda. Al contrario, si ha spesso, in certi affollati talk show, il dubbio che gli invitati siano lì in realtà per ‘esserci’ e mostrare dunque che la trasmissione è pluralista, ma senza poter dire niente – niente almeno di ciò che non pensa il conduttore. Un discutere così sembra più un rito mediatico politicamente corretto, che un confronto ‘veritativo’.
Dentro alla sua iniziativa di una lista pro life, sulla cui opportunità politica si possono avere dubbi, Ferrara ha detto che la questione di cui vuole parlare è troppo grande per sottostare al rito catodico del contraddittorio in par condicio, della rissa più o meno educata, dei concetti strozzati in tre parole per dare «la linea al tg». Ciò che ritiene di avere capito e vuole comunicare è cosa troppo rilevante per farne oggetto di cronometrata dialettica, di tre minuti a testa di parole affannate. Ci vuole una solitaria o pubblica ricerca fra uomini, davanti a altri uomini, in piena libertà reciproca di dirsi, senza restringersi in una scatola che disincarna, un frullatore che omogenizza ogni ragione. La questione della vita, di ciò che siamo, sta stretta nella forma dei meccanismi di formazione del consenso mediatico. Vuole, ed è una sfida nuova, una ricerca ‘veritativa’, cioè che conduca a verità, appassionata e senza cronometri, tra gli uomini.