(Avvenire) L’impotenza della legge di fronte alla tragedia della droga

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Una madre col figlio tossico

Lo incatena per amore della sua libertà

Lucia Bellaspiga

Almeno si sono accorti di lui. Questo deve aver pensato la madre di Trieste che aveva incatenato il figlio al letto per preservarlo dall’ennesima eroina spinta in vena, quando ha visto finalmente entrare in casa sua la polizia. Venivano per lei, non per lui, per spezzare quei due metri di catena e denunciarla alla magistratura per abuso di mezzi di correzione, ma andava bene lo stesso: amore e disperazione a volte coincidono e danno un coraggio disumano.
“Mamme coraggio”, le chiamano infatti: sono le donne che, come la madre di Trieste, arrivano a denunciare il figlio, a consegnarlo alla giustizia, perfino a legarlo come un animale perché qualcuno, più forte di loro e anche della droga, provi a salvarlo. Pure lei, che chiameremo Alba, era andata tante volte da polizia e carabinieri a consegnare l’eroina trovata nella stanza del figlio, ma non era servito a nulla. Lo aveva affidato a diverse comunità di recupero, che però si erano ritrovate impotenti quanto lei. Aveva anche fatto il nome dell’individuo che a quel figlio, ancora minorenne, rubava da tempo l’anima e non solo: “So bene chi gli dà la droga – ha raccontato in questura – e so che abusa di lui”. Gli vende la roba comprando il suo corpo.
L’ultima dose se l’era procurata e iniettata domenica scorsa, mentre Alba era fuori casa. Al rientro una scena già vista troppe volte: quel figlio ragazzino riverso sul letto in stato di demenza, incapace di capire e di reagire, più bestia che uomo, ma sempre figlio, anzi, ancora più figlio perché bisognoso. Finalmente dormiva, non stanco dopo una giornata di studio e di gioco come vorrebbe l’età, ma stroncato da una sostanza che spegne l’interruttore del cervello e, quando lo riaccende, lo ha ormai fatto suo. Così la madre ha potuto prendere una catena di ferro, resistente alle furie del risveglio, e legarlo al letto perché ; non andasse più da quell’uomo malvagio. Al letto, sì, una delle poche cose rimaste nella piccola casa di periferia, dopo che il ragazzo l’aveva saccheggiata vendendosi tutto per comprare l’eroina, prima di dover vendere anche se stesso.
“Nessuno aiuta mio figlio. Non potevo abbandonarlo anch’io”, ha spiegato agli agenti accorsi con la cesoia per spezzare le catene di un amore disperato, chiamati dallo stesso ragazzo quando si è svegliato dal torpore: incapace di liberarsi da ben altre catene, si è visto prigioniero, questa volta sì, e con il cellulare ha invocato l’aiuto della polizia. Questa volta ha saputo farlo…
“Non avevo altra scelta, ho provato di tutto – ha detto Alba alle forze dell’ordine, uomini in divisa, finalmente persone forti entrate in quella casa, cui far conoscere il dramma di un figlio indifeso e ormai indifendibile -. Volergli bene vuol dire chiuderlo in casa, incatenarlo per impedire in ogni modo che scenda in strada dove trova sempre quell’uomo ad aspettarlo”. Ma gli agenti hanno fatto il loro dovere, hanno spiegato a quella donna che ciò che aveva fatto è sequestro di persona, ed è un reato punibile per legge. Sarà stato difficile per lei capire: un reato impedire al proprio figlio di finire tra le braccia dell’orco? Evitargli di andare diritto nelle spire di una morte lenta e atroce? Più colpevoli le sue catene di quelle dell’eroina? Il magistrato del Tribunale per i minorenni ha disposto che il ragazzo rimanga comunque “affidato alla madre”, la quale resta in “stato di libertà”. Ma che significa affidato a lei? Che cosa può più fare? E qual è la libertà che le resta? Forse quella di assistere impotente allo scempio di suo figlio? Il nostro, per fortuna, è uno Stato di diritto, e per questo ha spezzato le catene, in fondo così fragili, avvolte da una madre attor no ai polsi del figlio. Ora però spezzi anche quelle che bucano le sue braccia succhiandogli fuori quel che resta di una giovanissima vita.

Avvenire 21-3-2007