Myanmar, la Ue vara le sanzioni Ma la giunta fa soldi con l’oppio
I DIRITTI NEGATI
il pressing
Domani il via libera all’embargo «selettivo» su oro, gemme,
legname e al blocco degli scambi commerciali. Dovrebbe restare fuori il capitolo
«energia»: salvi gli interessi della francese Total
DA NEW DELHI PAOLO MARINO
« D opo anni di successi
nella lotta alla droga, in Myanmar la coltivazione di oppio è aumentata
considerevolmente nel 2007». Pur se in poche parole, l’allarme è stato
lanciato e casualmente è coinciso con la repressione del movimento democratico
e delle manifestazioni di monaci nell’ex capitale Yangon e in altre località del
Paese. A collegare statistiche preoccupanti sulla produzione di oppio e la
situazione dello sfortunato Paese asiatico, è il dato che il Myanmar, caso non
unico ma raro, è un “narco-Stato”. L’unico però in cui il governo finanzia con
questo prodotto se stesso e la repressione di ogni istanza democratica e di
identità della sua popolazione.
Secondo i dati presentati a Vienna
dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc) diretto
da Antonio Maria Costa, la superficie coltivata a papavero da oppio è
cresciuta quest’anno del 29%, arrivando a 27.700 ettari dai 21.500 del 2006. Non
solo, ma per le condizioni meteorologiche favorevoli, la produzione è cresciuta
del 46%. Dati che confermano il Myanmar come secondo produttore mondiale dopo
l’Afghanistan. Sono 460 le tonnellate di oppio disponibili quest’anno sul mercato interno ma soprattutto per
l’esportazione. Cifra lontana dal minimo di 312 tonnellate registrano nel 2005
ma ancor più dal picco di 1.760 tonnellate del 1996. Come il regime birmano si
pone in controtendenza rispetto alle aperture democratiche – per
necessità,
convinzione o impegno internazionale – del resto del continente, anche
l’incremento dell’oppio birmano rappresenta un’anomalia, ponendosi in
controtendenza rispetto agli altri Paesi del “Triangolo d’oro”, Thailandia e
Laos ma anche a se stesso.
Una ragione è nella persistente
povertà e
nella mancanza di alternative di un Paese oggi tra i più poveri al mondo. Si
calcola che circa 163mila famiglie siano coinvolte nella coltivazione del
papavero da oppio, cento volte più che in Thailandia, e in costante crescita. La
ripresa della produzione è particolarmente sensibile nella regione
meridionale
degli Stati Shan, da cui arriva il 64% dell’intera produzione del Paese. Una
spiegazione potrebbe essere nella condizione di belligeranza degli Shan verso
la giunta militare, e la necessità quindi di finanziarsi. In realtà, sostiene
Shariq bin Raza – rappresentante Unodc in Myanmar –, «non è corretto stabilire
un collegamento immediato fra attività di gruppi
antigovernativi e crescita della produzione», perché finora si è visto che nei
territori sottoposti alla giurisdizione di una sola etnia, il controllo è più
facile e più efficaci risultano i programmi di sostituzione delle colture.
Certo è un fatto che, come il regime utilizza produzione e traffico di oppio –
delegato al controllo di gruppi malavitosi e etnie alleate con la forza – per
stipendiare oltre 400mila militari, dotarli di armi ed equipaggiamenti,
rifornire di generi d’importazione pregiati la giunta al potere, allo stesso
modo alcuni gruppi ricorrono alla produzione di papavero da oppio per mantenere
le proprie strutture militari e civili, in condizioni in cui è impossibile
creare – sotto la pressione dell’esercito governativo e dei paramilitari di
etnie avversarie – un’economia che non sia quella di sussistenza tradizionale.
Esigenze diverse e spesso in conflitto, quelle delle etnie assediate e della
giunta avvolta nel segreto, che convergono però sull’oppio e sui 450 milioni di
dollari di controvalore stimato. Con una distinzione nemmeno tanto sottile:
che per le prime esso significa sopravvivenza, per la seconda dotarsi di
strumenti per perpetuare il dominio brutale su cinquanta milioni di
sudditi.
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Sono stati prelevati dalle proprie case e condotti dai soldati nello stadio
della città. Arrestati gli ultimi tre leader della rivolta ancora in libertà.
Gambari, al via il tour in Asia
Migliaia costretti dai generali a manifestare, nuovi
fermi
DI LUCA MIELE
L e strade della ex
capitale Yangon si sono animate fin dalle prime ore dell’alba.
Vie nei
giorni scorsi praticamente deserte ieri risuonavano di voci. Solo che di
spontaneo la “manifestazione” non aveva nulla. Era ancora notte quando i soldati
sono andati a prelevare la gente direttamente nelle abitazioni, e l’hanno
obbligata a salire a bordo di pullman allestiti per l’occasione. Dovevano
sfilare a sostegno della giunta del generale Than Shwe, manifestandole il loro
pieno appoggio. Poi i “manifestanti” sono stati portati tutti nello stadio
principale della città.
Decine di migliaia di “sostenitori”
sono così dovuti restare dritti in piedi per tre ore di fila sotto una pioggia
battente, costretti ad ascoltare generali e alti gerarchi che si alternavano sul
podio per esaltare le conquiste dei vertici militari al potere.
E, prossimo
obiettivo, la realizzazione di un grandioso quanto non meglio precisato
piano per
costruire nell’ex Birmania una «democrazia prosperosa di disciplina», come da
parola d’ordine. «Ogni singola fabbrica esistente nella zona industriale di
Yangon – hanno raccontato dei testimoni – ha mandato almeno una cinquantina di
dipendenti a prendere parte alla manifestazione». Il regime militare birmano non
molla la presa.
Sceglie la via della “messa in
scena”. Irride il pressing dei Paesi occidentali, ignora i moniti dell’Onu (che
non «condanna», ma «deplora» l’uso della violenza), insiste nella repressione
(ieri sono stati arrestati gli ultimi tre leader ancora liberi della rivolta
pacifica e sembra anche un quarto uomo: si tratta di Htay Kywe, uno degli
esponenti di spicco della rivolta del 1988 e organizzatore delle prime
manifestazioni contro la giunta, Thin Thin Aye, noto anche come Mie Mie e Aung
Htoo), forte della linea di non ingerenza promossa dai Paesi vicini, Cina e
Thailandia in testa. Il regime insomma opta per una nuova “mossa” muscolare nel
momento in cui parte il tour diplomatico, di due settimane, in Asia
dell’emissario Onu per l’ex Birmania Ibrahim Gambari. Un
viaggio preparatorio per una possibile seconda visita nel Myanmar. Prima tappa
oggi in Thailandia, poi il tour toccherà Malaysia, Indonesia, India, Cina e
Giappone.
Un itinerario che il diplomatico nigeriano intende mantenere,
nonostante l’invito degli Stati Uniti a recarsi al più presto nuovamente
in
Birmania, senza altri incontri. Gambari vuole aprire una “breccia” nel muro che
alcuni Paesi asiatici hanno eretto a protezione del regime, a partire dalla
Cina, che continua ad offrire “copertura” politica al regime. Con quali esiti? I
primi risultati non sembrano incoraggianti. Il governo militare al potere in
Thailandia, il primo dei Paesi toccati del tour di Gambari, ha fatto
sapere di non avere intenzione di adottare alcun provvedimento contro la
Birmania, almeno finché non ci saranno le elezioni e a Bangkok non vada al
potere un governo eletto con l’autorità morale per farlo. «Come Paese buddista,
siamo contrari alla violenza praticata dal governo del Myanmar, specialmente
contro i monaci», ha detto il primo ministro thailandese, Sarayud Chulanont. «Ma
se facciamo qualcosa che possa creare dissapori con il nostro Paese vicino
diventerà un problema per il governo che sarà eletto», nelle previste elezioni
del 23 dicembre.
Avvenire 14-10-2007