(Avvenire) Il mondo riscritto dall’ideologia

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Avvenire 22 Novembre 2009
INCHIESTA

Unesco: e questi sarebbero gioielli dell’umanità? Pensateci bene, prima di buttar giù il vecchio capanno degli attrezzi che marcisce nel vostro giardino. Perché, con appena una spruzzata di antitarme e una mano di vernice, potrebbe ambire con buone speranze al rango di "patrimonio dell’umanità" Unesco. In trent’anni l’organizzazione per la cultura delle Nazioni Unite ha via via allargato e stiracchiato fino all’inverosimile i suoi già più che vaghi criteri d’inclusione, al punto tale che ormai dentro potrebbe starci di tutto. In giro per il mondo si incappa sempre più frequentemente in tralicci e capanne, muretti e casupole, che pomposamente innalzano lo stendardo del patrimonio dell’umanità; ma l’umanità che se li trova davanti, spesso, non può far altro che chiedersi: e perché? Perché «paesaggio culturale», per esempio.

O «sito di biodiversità», abitato da «specie endemiche», magari addirittura un’«oasi riproduttiva»… Queste sono le "motivazioni" più gettonate per tirar dentro alla lista dei patrimoni qualsiasi cosa, e che per l’appunto potrebbero andar benissimo anche al capanno del nonno. L’altisonante proposito dell’Unesco – individuare e tutelare i siti che abbiano «un valore eccezionale e universale», da un punto di vista culturale o naturale – nella pratica è degradato fino a trasformare la lista in un pot-pourri di dubbio interesse, nella quale è facile leggere tutti i portati ideologici che da tempo hanno preso piede negli organismi delle Nazioni Unite: terzomondismo, politically correct, ambientalismo, anti-umanesimo.

Così, l’esigenza di dare un contentino a ogni Stato presente sulla mappa ha portato a una rappresentanza del tutto sproporzionata di alcune tipologie: degli 890 siti iscritti, più di ottanta, ben il dieci per cento, è costituito da porzioni di foresta tropicale o sub-tropicale. Tra questi ve ne sono di senz’altro "eccezionali", come le cascate dell’Iguazú argentino-brasiliane o la foresta di mangrovie tra India e Bangladesh, ma molti lasciano la netta impressione di esser stati inclusi esclusivamente in mancanza di meglio in quel Paese, come Lopé-Okanda in Gabon, Le Morne Brabant nelle Mauritius, Morne Trois Pitons a Dominica o Manovo-Gounda St. Floris nella Repubblica Centrafricana. Sintomatica, a questo proposito, la carenza di una simmetrica attenzione per le foreste temperate o boreali: forse perché nei Paesi che le ospitano c’è altro, oggettivamente più interessante? Eppure dovrebbero essere anch’esse, tutte, «siti di biodiversità» e «oasi riproduttive».

La stessa distorsione terzomondista porta a sotto-rappresentare, quasi a discriminare, altre tipologie, magari ben più rilevanti: così, a fronte degli ottanta spicchi di foresta, sono "patrimonio" soltanto una ventina di opere architettoniche romaniche – resta fuori, per esempio, perfino la milanese basilica di Sant’Ambrogio –; oppure si stabiliscono rapporti proporzionali stridenti, con i siti barocchi europei in numero inferiore a quelli in barocco coloniale. È chiaro che anche il barocco coloniale vanta veri e propri capolavori artistici, che meritano l’iscrizione: ma nella lista ce ne sono addirittura una cinquantina, ovviamente concentrati in America centrale e meridionale.

PIÙ PATRIMONI PER TUTTI
Sono molti i siti che destano più d’una perplessità, e che danno la netta impressione di essere stati scelti esclusivamente per dar soddisfazione anche a Paesi che, in realtà, non avevano granché da offrire. Così la Terra dell’incenso – deserto con qualche alberello qua e là – e il Santuario dell’Orice d’Arabia – peraltro radiato nel 2007, dopo che il sultano ha deciso che 450 orici erano troppi e ne poteva bastare una sessantina – in Oman, i Palazzi reali di Abomey – di fatto, capanne di paglia – in Benin, le Rovine di Loropéni – muretti a secco molto in rovina, del Trecento ma assai simili a reperti che in Europa risalgono a qualche millennio avanti Cristo– in Burkina Faso. E così via: alle Mauritius l’Aapravasi Ghat, cadente complesso di edifici tra i quali, con un po’ di buona volontà, si riesce a scorgere qualche resto di quello che nell’Ottocento accolse i primi immigrati indiani – evento di qualche rilievo per la storia delle Mauritius, un po’ meno per quella dell’umanità di cui è "patrimonio"; in Nigeria Osun-Osgobo, foresta sacra la cui unica attrattiva sono tronchi secchi coperti da tettoie; in Togo Koutammakou, "paesaggio culturale" di misere capanne di fango; in Uganda le Tombe dei re Buganda a Kasubi, risalenti ben al 1884 e costituite da una capanna rotonda di legno, paglia e canne; a Papua il Sito agricolo primordiale di Kuk, residui di canaletti di scolo primitivi usati fino a epoche imbarazzantemente vicine a noi. Ma in generale i paesaggi agricoli piacciono molto, all’Unesco, anche se non si capisce bene perché alcuni sì e altri no: per esempio, perché la regione del Tokaj ungherese o il Distretto di Lavaux svizzero sono "patrimoni" grazie ai loro vigneti, e – per dire – le Langhe o la Franciacorta no?

Allo stesso modo, sfugge l’eccezionalità, su una scala planetaria, del Paesaggio archeologico delle prime piantagioni di caffè nel sud-est di Cuba – celebrati perché «forma pionieristica [nell’Ottocento, ndr] di agricoltura in un terreno difficile». E ancora: la Piana di Cittavecchia nella Dalmazia croata – vigneti e oliveti tutelati perché già in età antica lì c’erano vigneti e uliveti: difficile tuttavia considerarla un caso raro, nel Mediterraneo –, o il Paesaggio di agave e antiche industrie per la produzione di tequila, ovviamente in Messico – perché la tequila e non il rum o la vodka?

L’Unesco non risponde. Sono molti i siti paesaggistici che lasciano perplessi per i possibili confronti: l’Alto Svaneti in Georgia o il Parco del Pirin in Bulgaria sono senz’altro dei begli scorci di paesaggio alpino, ma le Dolomiti – entrate ben dopo di questi nella lista, poche settimane fa –, il Monte Rosa o il Gran Sasso – ancora escluse – sono ben altro. Per non parlare della Valle del Madriu ad Andorra: è una valletta pirenaica identica a tante altre, solo con l’inestimabile vantaggio di essere l’unica alternativa presentabile a quell’agglomerato di orrendi centri commerciali, tabaccherie e distributori che è Andorra La Vella. Del tutto incomprensibile, invece, la scelta delle Grotte di San Canziano e non di quelle di Postumia come unico sito in Slovenia, così come resta poco chiaro come eccella in «biodiversità e cultura» l’isola spagnola di Ibiza, celebre piuttosto per discoteche e villaggi vacanze che poco hanno del "patrimonio dell’umanità".

COME FAREMMO SENZA SCANDINAVI?
Una variante paradossale del terzomondismo che affligge, come ogni istituzione Onu, anche l’Unesco è un marcato "scandinavismo": i Paesi nordici sanno muoversi nei salotti delle diplomazie sovranazionali, e portano a casa i loro bravi risultati. Così ecco tra i patrimoni Höga kusten-Kvarten, costa e mare tra Svezia e Finlandia "fondamentale" perché consente di studiare l’isostasia, l’innalzamento post-glaciale del terreno; la Lapponia, in blocco; Røros, paesino norvegese fatto di casette in legno di fine Settecento; Vecchia Rauma, altro paesino di casette in legno, questa volta finlandese; e, forse la ciliegina, il Mulino in legno di Verla, risalente addirittura al 1882.

L’UOMO? MEGLIO CHE NON CI SIA
Semplicemente orrendi, ma coerenti con l’ideologia ambientalista e anti-umanista che tollera le opere umane soltanto quando l’uomo non c’è più, sono molti siti di archeologia industriale. Inguardabili sono il Ponte di Vizcaya, tralicci trasportatori in Spagna; le Miniere di carbone dello Zollverein a Essen, in Germania; la Città mineraria di Sewell, in Cile. L’Unesco manifesta poi curiose idiosincrasie: ama le ferrovie e adora i canali, ma non vuol sentire parlare di strade. Nella lista non ce n’è nessuna, nemmeno l’ormai innocua Appia antica. Anzi: la Valle dell’Elba, in Germania, è stata radiata nel giugno scorso non appena è stato approvato il progetto di un ponte stradale, senza nemmeno attenderne la realizzazione. Invece i canali interni – essendo ottocenteschi e ormai quasi tutti inutili alla vita concreta dell’uomo, se non come elementi decorativi del paesaggio – trovano larga rappresentanza, dal Canal du Midi francese al Canale Rideau canadese; anzi, c’è spazio perfino per opere idrauliche che, se costruite oggi, sarebbero senz’altro bollate dalla stessa Unesco come attentati al paesaggio e scempi ambientali: così la stazione di pompaggio del vapore olandese Ir.D.F. Woudagemaal o gli orridi tralicci degli Ascensori idraulici del Canal du Centre, in Belgio.

L’IMPORTANTE È SAPERSI VENDERE
Sempre il Belgio offre un brillante esempio della serie di siti inseriti palesemente solo per l’abilità diplomatica dei loro sostenitori: il Plantin-Moretusmuseum, museo di antichi stampatori di Anversa che può vantarsi di essere il primo museo inserito – intanto Louvre, British, Prado e via dicendo restano fuori. Così anche la Casa di Luis Barragán, architetto messicano che l’Unesco ha ritenuto di dover celebrare mentre ignorava la Casa sulla cascata di Lloyd Wright o l’Auditorium di Aalto; la pietra runica di Jelling, in Danimarca; il villaggio di casette in legno ottocentesche di Lunenburg, in Canada; il Royal Exhibition Building di Melbourne, in Australia – assai discutibile pastiche tardo-ottocentesco; Carcassonne, cittadella finto-medievale francese evidentemente ben promossa dagli enti turistici competenti; l’Independence Hall e Monticello negli Stati Uniti, luoghi sacri per l’indipendenza americana ma che al resto dell’umanità dicono assai poco.

Diverso il discorso per la Statua della Libertà, pure inserita nella lista, dal valore estetico discutibile ma dal valore simbolico indubbiamente universale. Ma il capolavoro dell’Unesco è forse l’Arco geodetico di Struve, patrimonio transnazionale – quello dei siti in comune tra più Stati, così politically correct è il filone più battuto negli ultimi anni – condiviso da ben dieci Stati, e che… non esiste. Si tratta di una catena di triangolazioni geodetiche, per forza di cose astratte, condotte tra il 1816 e il 1855 da Friederich von Struve per misurare con precisione la Terra.

Concretamente, però, l’ambito cartellino "patrimonio dell’umanità" finisce, dalla Norvegia all’Ucraina passando per Svezia, Finlandia, Russia, Estonia, Lettonia, Lituania, Bielorussia e Moldavia, davanti ad anonime casupole, generalmente non visitabili anche perché non ospitano altro che banali strumenti di misurazione. L’Unesco ne sarà orgogliosa: peccato che, nel frattempo, nella lista ci siano dei "buchi" clamorosi, dal duomo di Milano al Cervino, da Cnosso all’Antartide. E a Parigi c’è un solo elemento incluso: non Nötre-Dame, non Montmartre, non gli Champs-Élysées, non la Tour Eiffel. Gli argini della Senna.