Avvenire 1 Aprile 2009
Lo storico Pío Moa
Spagna ’36, di chi la vera colpa?
Antifranchista militante, membro negli anni Settanta del Partito comunista clandestino e attivista del gruppo rivoluzionario maoista Grapo, dopo la caduta della dittatura Pío Moa si è buttato a capofitto nello studio della storia dell’ascesa di Franco, della Guerra civile spagnola e della Repubblica del Fronte popolare.
Perché?
«Perché non trovarono quasi nessun appoggio tra la popolazione. La gente si ricordava molto bene che cos’erano stati il Fronte popolare e il comunismo, e non voleva più nulla del genere. In Spagna soltanto negli ultimi anni, con Zapatero, è ritornato un certo clima psicologico da guerra civile, imposto dal potere».
L’opposizione antifranchista era davvero democratica, oppure per quelle sinistre il termine era, come negli anni Trenta-Cinquanta in Italia, soltanto un sinonimo di ‘antifascista’?
«A opporsi a Franco c’era un insieme di comunisti, anarchici, marxisti rivoluzionari del Psoe [Partito socialista operaio spagnolo, oggi guidato da Zapatero, ndr], diversi gruppi golpisti come quello repubblicano di Azaña, nazionalisti catalani; in più c’era il Partito nazionalista basco, di un razzismo non lontano da quello nazista. È ridicolo pretendere che questi partiti fossero democratici. In realtà avevano distrutto ogni legalità nella Repubblica, che almeno in parte era democratica, e così causarono la Guerra civile».
Perché attribuisce al Fronte popolare la responsabilità di aver realmente causato la guerra?
«Nell’ottobre del 1934 il Psoe e i nazionalisti catalani si sollevarono contro il governo legittimo e democratico di centrodestra. Sconfitti, non mutarono atteggiamento, fino a quando non riuscirono a radunare quasi tutte le sinistre nel Fronte popolare, con il quale si presentarono alle elezioni del febbraio 1936. Fu un voto antidemocratico, pieno di violenze, e il Fronte si proclamò vincitore anche se i dati elettorali non furono mai pubblicati. Immediatamente iniziò un’ondata di omicidi, trecento in cinque mesi. Solo una minima parte fu compiuta dalla Falange, allora un piccolo partito semi-fascista che peraltro iniziò a uccidere soltanto dopo che diversi sui militanti erano stati ammazzati impunemente dalle sinistre. E poi incendi, assalti alle sezioni e ai giornali di destra, fino al sequestro e all’omicidio di Calvo Sotelo, uno dei capi dell’opposizione. Il governo, intanto, organizzò un’illegale revisione dei seggi per sottrarne decine alla destra e destituì, altrettanto illegalmente, il presidente della Repubblica, Alcalá-Zamora; annullò poi ogni indipendenza della magistratura, ponendola sotto la supervisione dei sindacati, e si rifiutò di arrestare l’ondata di violenze. Non rispettava né faceva rispettare la legge, e di fatto proteggeva il processo rivoluzionario: quando un militante di destra veniva assassinato, la polizia perseguiva… la cerchia della vittima. I militari, esitando molto, cercavano di organizzare un complotto; quando però Calvo Sotelo fu ucciso da un gruppo di poliziotti e miliziani socialisti, Franco e gli altri smisero di esitare e si ribellarono. Credo che in pochi altri Paesi i conservatori avrebbero sopportato tante violenze e illegalità prima di sollevarsi».
In questo contesto si inscrivono anche le violenze contro i religiosi. Qual è lo stato attuale della ricerca storica su questo tema?
«Furono ammazzati circa settemila religiosi, da vescovi a monache; più ancora furono gli uccisi per il solo fatto di essere cristiani. Furono distrutte migliaia di chiese, incendiati monasteri – alcuni con biblioteche di grande valore –, rubata un’infinità di opere d’arte. L’omicidio dei religiosi mostrò un sadismo difficile da credere. Non fu una persecuzione popolare spontanea, ma organizzata dai principali partiti. Di tutto questo oggi non si può più dubitare».
Perché interpreta la sollevazione franchista come un "atto reazionario"?
«Perché, letteralmente, reagiva contro un processo rivoluzionario. Franco non si sollevò contro la Repubblica né contro la democrazia, ma contro la rivoluzione. I franchisti non credevano nella democrazia, poiché ritenevano che ormai fosse diventata impossibile, in Spagna; all’epoca, del resto, in tutta Europa erano in molti a credere che la democrazia liberale apparteneva al passato».
Ma tra franchisti e repubblicani non c’era, negli anni Trenta, nessuna forza democratica?
«No. Non esistevano sinistre democratiche. Le più moderate volevano imporre un regime come quello del Partito rivoluzionario istituzionale messicano, e le più estremiste – la maggioranza – anelavano a una rivoluzione in stile sovietico o anarchico. Le destre rispettavano molto di più la legalità repubblicana, e si sollevarono soltanto quando la situazione era compromessa. La maggioranza delle destre non era fascista, ma neanche democratica: erano conservatori, e dopo il Fronte popolare cercarono di organizzare un regime cattolico. che chiamavano ‘democrazia organica’. La dittatura di Franco fu autoritaria, non totalitaria, e la differenza è essenziale. Fu molto meno dura di quella sovietica, per capirci».
È difficile, oggi in Spagna, mettere in dubbio i dogmi storiografici sui ‘buoni’ e i ‘cattivi’ della Guerra civile?
«Lo è stato fino a pochi anni fa, quando l’intera storia della guerra e del franchismo era fatta di miti, però si impone sempre più una versione adeguata dei fatti storici. Perché i fatti sono testardi, nonostante il fatto che siano molti coloro che cercano di occultarli – a partire dall’attuale governo. Ma ormai hanno perso la partita e in pochi anni quei miti spariranno del tutto: cosa necessaria per tutelare la democrazia e arrestare l’involuzione politica attuale».