(Avvenire) I cristiani stanno scomparendo dalla Terra Santa

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Una mobilitazione si simpone

PERCHÉ LA TERRA SANTA NON MUOIA



Fulvio Scaglione


«Le Chiese del mondo – ha detto l’altroieri Michel Sabbah, patriarca latino di Gerusalemme – hanno la responsabilità di affermare il carattere cristiano di questa terra». E in modo ancor più diretto, suor Elaine Kelly, che aveva vissuto per anni a Betlemme e ora si occupa delle opere di solidarietà promosse dalla diocesi americana di Portland (Oregon) verso i cristiani di Terra Santa, aveva affermato: «La nostra preoccupazione è che i luoghi santi diventino un museo della cristianità piuttosto che luoghi di preghiera per l’intera comunità cristiana».
L’una e l’altra voce sono risuonate nella riunione in corso a Betlemme tra i rappresentanti delle Conferenze episcopali di Europa, Usa, Canada, America Latina e tutti i vescovi locali, centrata sul tema “La Chiesa universale in solidarietà con la Chiesa in Terra Santa”. E le loro parole trasmettono tutta l’urgenza del problema e il valore delle iniziative che si vanno (troppo lentamente) imponendo. Mezzo secolo fa, la popolazione cristiana in quest’area era pari al 20% del totale, 35 anni fa era ancora il 13%, oggi è poco oltre il 2%. A Gerusalemme nel 1922 il 51% della popolazione era formato da cristiani, oggi siamo anche qui al 2%.
Un esodo che non accenna a fermarsi, e si è anzi intensificato da quando è scoppiata la seconda intifada. Betlemme, che negli anni Sessanta era cristiana al 90%, ora lo è al 30%, e nel solo 2003 ha perso oltre 2 mila cristiani. A Bir Zeit vivevano 8 mila cristiani, ne restano 2 mila. Chi non se ne va deve lottare con un dramma che non è fatto solo di paura ma anche di disagio sociale (garantire un’istruzione ai figli è sempre più difficile, e padre Battistelli, custode di Terra Santa, ha sottolineato la crescita delle separazioni e dei divorzi nell’ultimo periodo) e di povertà estrema.
Una situ azione insostenibile, soprattutto se si considera quanto siano piccole, ormai, le comunità cristiane in Siria, Iraq e Giordania, benché inquadrabili in quello scenario in cui il cristianesimo è nato ma da dove sta per essere ormai espulso. Incontri come quello in corso tra esponenti delle Chiese distribuite nel globo intero, proprio perché coinvolgono e rendono protagoniste le popolazioni della Terra, imprimono una spinta importante per cambiare in senso profondo la stessa situazione mediorentale. Altro ancora potrebbe ottenere una mobilitazione più capillare.
Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli interventi di solidarietà con i cristiani di Terra Santa da parte non solo delle Conferenze episcopali, con quella italiana in prima linea, ma anche di grandi diocesi come Los Angeles (California) o Detroit (Michigan), la quale ha completato un piano triennale per la raccolta di 900 mila dollari da investire in un progetto educativo per i bambini cristiani palestinesi. In Italia, per fare un solo esempio, il ponte di solidarietà alimentato dalla diocesi di Alessandria ha tra l’altro incluso rapporti di collaborazione tra artigiani di Alessandria stessa e quelli di Betlemme e tra i nostri agricoltori e quelli di Gerico.
Ovvio che tutto questo, se serve ad aiutare i cristiani della Terra Santa, punta esplicitamente a raggiungere l’intera popolazione e a rimettere in moto – senza paternalismi o tentazioni proselitiste – l’economia locale. Ma serve anche a far capire a noi, cristiani del resto del mondo, che la Terra Santa è terra che dobbiamo sentir nostra, luogo dell’anima e della fede nostre. E che aiutarla in quest’epoca di calamità scatenate dall’uomo è compito che spetta non solo a questa o quella cattedra, per altissima che sia, ma appunto a ogni singola comunità. A ogni singolo pellegrino, come in fondo è sempre stato.


Avvenire 15-1-2004