(Avvenire) Che il terremoto possa servire alla pace

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Il terremoto e la contesa India-Pakistan

Se da quel dramma nascesse una speranza



Gerolamo Fazzini

 «Il bilancio dei morti potrebbe essere nell’ordine delle migliaia». Le parole del portavoce militare pachistano danno la misura del terribile terremoto che ha devastato ieri una vasta area di Pakistan e India, toccando anche l’Afghanistan. Di fronte a notizie del genere si resta ammutoliti, inchiodati dallo sconcerto e dal dolore. E immediatamente ci si accorge di quanto le parole – specie le nostre parole, di chi i terremoti li vede in tv, al riparo di case in cemento armato – possano suonare vuote, gonfie di retorica al cospetto di simili tragedie. Il silenzio – un silenzio partecipe, commosso, orante – in casi come questi sembra l’unica strada adeguata. Se osiamo infrangerlo, è per cercare di non arrendersi all’ineluttabile. Per provare, se non a capire (si può «capire» un terremoto?) ad alzare lo sguardo, oltre il crudo dato di cronaca. Le fredde coordinate diramate dalla agenzie – intensità del sisma pari a 7,6 gradi della scala Richter, danni in un raggio di 650 chilometri dall’epicentro – da sole non bastano a cogliere le dimensioni del dramma. Dietro quei numeri, infatti, ci sono popolazioni che vivono in una terra poverissima, alla periferia dei due grandi Paesi confinanti e rivali. E c’è una terra contesa – il Kashmir – dove una «guerra dimenticata» ha lasciato sul terreno tra i 40 e i 60 mila morti. Davanti allo spettacolo dolente di macerie, morti e dolore una speranza osiamo coltivare: che sulle divisioni etniche e politiche, abbia a prevalere il sentimento del comune destino di fragilità. E che pietà e solidarietà per le vittime – di qualsiasi nazionalità, etnia, religione – siano più forti delle tensioni incancrenitesi nel tempo. Quando il presidente pachistano Musharraf dichiara che l’emergenza-terremoto è «un test per la nazione», dice il vero. Il pensiero va a quanto accaduto recentemente in Sri Lanka: prima che il partito comunista Jvp lo boicottasse, il governo e i ribelli delle Tigri tamil avevano trovato un accordo per portare aiuto alle vitti me dello tsunami. Mettendo da parte – seppur provvisoriamente – anni di ostilità e rancori. Analogamente, è legittimo attendersi che Pakistan e India siano «costretti» a proseguire sulla via del dialogo proprio dall’urgenza di portare soccorso, insieme, alle vittime del sisma. Alcuni segnali autorizzano la speranza: da aprile i due governi hanno autorizzato l’apertura di una linea di trasporto pubblico nel Kashmir; poche settimane fa c’è stato un incontro fra il primo ministro indiano e il leader dei separatisti per cercare di porre fine alla violenza nella tormentata zona. Un precedente storico vale la pena ricordare. Il 12 novembre 1970 il Bangladesh, allora Pakistan orientale, venne colpito da un ciclone: mezzo milione di morti. Nella primavera successiva, la dichiarazione di indipendenza del Bangladesh e la guerra civile che ne derivò, in soli otto mesi, provocarono due milioni di morti e otto milioni di profughi. Col risultato che – come raccontò un missionario italiano, testimone oculare – a distanza di anni la gente ha rimosso il dramma del ciclone, tanto devastante fu la guerra col Pakistan. Chissà se, tra qualche decennio, sui libri di storia i nostri figli avranno la fortuna di leggere la notizia che un tremendo terremoto nell’autunno 2005 contribuì ad accelerare il riavvicinamento tra il colosso indiano e l’ingombrante vicino musulmano.


Avvenire 9-10-2005