Al Cairo tra i cristiani della discarica
Centomila «zibellin» vivono di scarti. Le loro chiese scavate nella roccia
Di Aristide Malnati
Benvenuti all’inferno, nel girone dei cristiani». Ci accoglie con queste parole suor Emmanuelle, l’angelo ormai anziano che ha svolto un lungo apostolato a sostegno delle masse di diseredati del quartiere degli zibellin, i raccoglitori di rifiuti del Cairo. La strada è fangosa, e man mano che si procede la fanghiglia aumenta sempre più, si diparte dall’arteria principale per addentrarsi in un quartiere fetido e a dir poco scioccante: qui abitano almeno 100.000 cairoti di religione cristiano-copta indaffarati a raccogliere il pattume di 16 milioni di abitanti e a vedere cosa possa essere riutilizzato. Cercano spasmodicamente nella massa informe dei rifiuti, ormai ridotti quasi a poltiglia, incuranti del fetore che promana dai sacchi e si entusiasmano quando possono recuperare qualche oggetto. Più in là bambini e animali da cortile razzolano nella montagna sempre più consistente dei sacchi di spazzatura, che deborda sulla strada fangosa al di fuori dei magazzini; sono spesso piccoli abbandonati dai genitori, a volte orfani, per lo più malati, che le sisters di Madre Teresa di Calcutta raccolgono e assistono nel loro centro religioso nel cuore del quartiere.
In questo eremo di speranza medici, religiosi, volontari, persino psicologi curano chiunque ne abbia bisogno e ne faccia domanda; «e come ci si può ben immaginare – commenta suor Emmanuelle – le domande superano la disponibilità dei letti tanto che siamo costretti a prevedere una turnazione dei degenti, non riuscendo così ad assisterli fino in fondo».
Gli zibellin, umili spazzini del Cairo, si accendono e quasi si infiammano in un’occasione particolare: il 7 gennaio, ricorrenza del Natale copto. Quel giorno è tutto un brulicare di formichine umane in festa; luci, stelle filanti, scoppi reiterati di mortaretti: tutto il quartiere partecipa al gran giorno dimenticando almeno una volta all’anno i gravi problemi che lo affliggono. Alla sommità dell’arteria principale, una strada impastata di pattume, i fetidi miasmi lasciano spazio a un più gradevole profumo di incenso: è il primo sentore delle due grandi e moderne chiese ricavate in una roccia, che dominano il quartiere.
«In questo luogo di pace accogliamo e diamo assistenza spirituale e materiale a chi ne faccia domanda», spiega Abuna Morcos, giovane prete cristiano tra gli zibellin da qualche anno. «Il governo – continua con amarezza – non fa nulla per questi poveracci, anche perché appartengono a una religione diversa e per loro inferiore a quella islamica. Anche nelle scuole, dove l’insegnamento del Corano è impartito regolarmente, si ha crescente difficoltà a leggere o solo a presentare il Vangelo».
Se gli zibellin nuotano e quasi si nutrono di spazzatura, non stanno molto meglio gli abitanti della città dei morti, un vasto quartiere cimiteriale non molto distante. Cimiteriale nel senso letterale del termine: qui musulmani, e oggi anche numerosi cristiani, si sono adattati a vivere con la tomba in casa. È una pratica iniziata nel 1500, quando i guardiani di questo grande cimitero islamico abitavano con i propri familiari a fianco delle sepolture che dovevano sorvegliare (per l’islam ogni cimitero è sacro e va sorvegliato). Poi, col passare del tempo e soprattutto dopo la nazionalizzazione nasseriana del 1952, le masse rurali, disperati di tutte le confessioni costretti a fuggire dalle campagne egiziane a causa di una miseria incontrollabile e devastante, si sono installate in questo quartiere edificando misere baracche sopra tombe antiche e moderne.
Con il passare degli anni il rione ha preso forma ed ha acquistato una propria fisionomia: è diventato una città nella città, con l’imam a fare da guida spirituale e organizzativa; intorno alla moschea di Qait Bey, centro nevralgico di tutto la zona, è un brulicare di gente, voci che si levano per estenuanti trattative pseudocommerciali, i bambini pronti ad inseguire gli sparuti turisti con la richiesta di qualche caramella o di una penna o ancora di un semplice bakshish di pochi centesimi. Lo straniero che si avventura sin qui entra in una sorta di dimensione atemporale in cui i ritmi della giornata sono ancora scanditi dagli inviti regolari alla preghiera urlati dal muezzin in cima al minareto.
Il governo e le associazioni internazionali si interessano sempre più alle pesanti difficoltà di chi in simili contesti vive o meglio sopravvive; si occupano con attenzione sempre maggiore di agglomerati urbani, dove la sussistenza minima è garantita dal riciclo dei rifiuti o dove un’umanità disperata vive con il caro estinto nella cantina di casa o a fianco della porta d’entrata. Meritevole di segnalazione è l’opera di Anna Tozzi, una sociologa napoletana che abita in questi paraggi da tempo, per studiare e aiutare, per aiutare più che per studiare i locali. «All’inizio – spiega Anna – come donna occidentale sola ero malvista ed evitata; poi pian piano ho conquistato la fiducia di alcuni membri di riferimento della città dei morti e degli “zibellin” e il mio operato è diventato più agevole. Posso dire di aver verificato con una certa sorpresa che il nostro non è uno dei quartieri più poveri del Cairo: alcuni studiano all’università, molti posseggono un televisore e un’automobile, con cui ingolfa ulteriormente il già intasato traffico cairota. È solo un quartiere anomalo, unico al mondo».
Avvenire 17-7-2004