I ritardi nella ricerca non dipendono solo dalla comunità ebraica, ma dal clima culturale. A quando una lapide nel Parlamento italiano?
I «Giusti» dei lager, buco nero della Storia
Vi sono altri casi non ancora esplorati: quello dei gulag, per esempio. E oggi c’è chi si adopera per salvare nuove vittime, come il console Costa con i tutsi del Rwanda
Di Gabriele Nissim
Nel volume Il Tribunale del bene ( Mondadori) ho indagato sui dilemmi morali di Moshe Bejski, il giudice della Corte Suprema di Israele diventato presidente della Commissione di Yad Vashem a cui tutti (ebrei, cattolici, musulmani) dobbiamo l’invenzione del Giardino dei Giusti di Gerusalemme. Moshe era un lavoratore instancabile e si appassionava di fronte a ogni nuovo caso di salvataggio. Tuttavia era convinto che si facesse troppo poco per ricordare i Giusti e se la prendeva con i salvati dalla memoria corta, come l’orologiaio di Varsavia emigrato in Australia, che cercavano di liberarsi del passato dimenticando anche i salvatori, invece di rispondere al dovere morale della riconoscenza andando a documentare la loro storia al Mausoleo di Gerusalemme. Ma soprattutto polemizzava con i responsabili di Yad Vashem, perché destinavano pochi mezzi al lavoro della sua commissione. Si era dato una missione, a cui ha dedicato tutta la vita: di scoprire, valorizzare e onorare i Giusti, in ogni paese lacerato dalla Seconda guerra mondiale, non solo in quanto eroi per gli ebrei, ma come espressione dell'”élite dell’umanità”. Tutti dovevano impegnarsi a fondo contro il rischio del loro oblio: gli ebrei erano tenuti a fare il primo passo per rintracciarli, ma poi la loro memoria era un dovere universale. Quando gli presentarono le bozze del primo volume dell’Enciclopedia dei Giusti, una ricerca condotta a suo dire senza serietà dalla direzione del Mausoleo, decise per protesta di dimettersi dalla Commissione dopo trent’anni di lavoro accanito. Mi disse che non voleva “perdere la faccia” di fronte al mondo intero.
Moshe Bejski si era scontrato in Israele con un problema di fondo che investe anche il dibattito in Italia. La memoria dei Giusti rimane sempre in secondo piano se non viene compreso il suo fondamento etico: nel migliore dei casi è percepita come un inutile esercizio buonista, se non addirittura in concorrenza con la memoria d el male.
I ritardi nella ricerca dei Giusti italiani non dipendono soltanto dalla comunità ebraica, ma dal clima culturale che si respira nel paese. Due piccoli esempi. Nel febbraio del 2003 a Roma, alla presenza dello stesso Bejski, ho proposto di porre una lapide in Parlamento a ricordo dei Giusti italiani. Ma sinora non se n’è fatto niente. D’altronde, il Consiglio comunale di Milano sta lasciando “morire” il Giardino dei giusti di tutti i genocidi sul Monte Stella perché lo considera un progetto senza un interesse “politico”.
Ma cosa viene scarsamente compreso? La memoria di un salvatore esalta il valore della responsabilità personale, in ogni circostanza di un male estremo. Il Giusto, come direbbe Hannah Arendt, è un uomo che ha la forza e la capacità di pensare in modo autonomo davanti a un crimine contro l’umanità diventato legge dello Stato. Non è un santo, non è un eroe e non è per forza una persona integerrima: non importa la sua ideologia, il suo credo, persino la sua adesione al regime; vale la sua reazione di fronte alla persecuzione. Non è migliore il Giusto antifascista rispetto a quello fascista, conta solo il soccorso che ha portato nei confronti di una vita in pericolo.
Il Giusto è la dimostrazione che là dove la politica fallisce e le opinioni pubbliche sono sorde alla sorte delle vittime, all’individuo rimane sempre uno spazio personale per erigere comunque un argine al male. Nessuno può sfuggire a questa scelta. Anche se non si ha la forza di ribaltare la Storia si può seminare un granello di bene. Lo ha fatto il muratore Lorenzo ad Auschwitz quando ha offerto il suo pane a Primo Levi. Oppure si può voltare le spalle e non guardare.
Il processo non è automatico, non deriva da una vocazione “altruistica” naturale, ma richiede sempre uno sforzo enorme di volontà, in primo luogo per sfuggire agli alibi della propria coscienza (cosa potrei fare io da solo?) e soprattutto per trovare il coraggio di rischiare la vita a favore di un al tro essere umano. Non basta avere capito, occorre vincere l’istinto di sopravvivenza e trovare la forza per superare la paura, come ha sottolineato il grande intellettuale ungherese Itzvan Bibo.
Perché la memoria del bene – Bejski l’ha intuito – ha un valore innovativo? Dopo Auschwitz i sopravvissuti hanno chiesto al mondo di non dimenticare affinché l’incubo non si ripresentasse nella Storia. Purtroppo non è andata così, ma i giusti rimangono lì a ricordarci come ci si dovrebbe comportare di fronte al male. Sono un monito alla nostra coscienza, un richiamo all’agire individuale, un invito alla prevenzione.
C’è una storia tutta italiana. Il console Pierantonio Costa mi ha raccontato come ha salvato decine di tutsi in Rwanda portandoli sulla sua automobile diplomatica. Conosceva la vicenda di Perlasca in Ungheria e ne era rimasto impressionato. Certo, avrebbe agito in ogni caso, ma un Giusto della Shoah aveva lasciato un segno in un uomo che si è poi battuto contro un altro genocidio. La memoria del bene diventerà ancora più ricca di significato se si estenderà all’esame di altri totalitarismi. Un buco nero rimane tutt’ora l’indagine attorno al gulag sovietico. Anche durante il terrore staliniano ci sono stati dei Giusti, pur se con modalità diverse dai salvatori degli ebrei. Sono gli uomini che non hanno ceduto al ricatto del potere, rifiutando di denunciare e sacrificare il prossimo per la propria salvezza. Hanno fatto il bene astenendosi dal fare del male agli altri, come ci ha raccontato Varlam Shalamov dalla Kolyma. Ci sono storie straordinarie di resistenza al meccanismo della delazione. Anche di donne italiane, come Pia Piccioni, Luciana De Marchi, Nella Masutti, che si sono rifiutate di rinnegare i mariti o i padri, pur rischiando il gulag. Meriterebbero di essere ricordati come un esempio morale.
Avvenire 6-10-2005