(Avvenire) Documentario di Avati sullo sconosciuto Est europeo

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Al via domani «A est di dove?», il nuovo programma realizzato dal regista bolognese in questi giorni impegnato sul set del film «La cena per farvi conoscere»

«Su Sat 2000 svelo le speranze dell’Est»


Storie di vita e immagini dai Paesi ex comunisti in 60 documentari «È un viaggio nella nuova Europa e una riscoperta del valore immenso della libertà»


Di Massimo Iondini


«È un viaggio nella nuova Europa allargata ed è anche un viaggio alla scoperta della ritrovata libertà, di cui non si può capire veramente il valore finché non la si perde». Sintetizza così il regista Pupi Avati il senso e l’essenza di A est di dove?, la nuova poderosa avventura documentaristica al via domani alle 13 su Sat 2000, il canale dei cattolici italiani. Sessanta puntate di un’ora ciascuna, prodotte da Avati (in questi giorni sul set del nuovo film La cena per farvi conoscere, con Diego Abatantuono nei panni di un ex attore di soap opera «che ritrova i trascurati valori familiari e il senso dell’essere padre, figura che è la grande e grave assenza di questi nostri tempi»), in cui le storie di vita di una moltitudine di europei dell’est di diverse età ed estrazioni s’intrecciano in un mosaico di progetti, speranze, delusioni, aspettative che mostrano l’altra faccia del vecchio continente, a più di sedici anni dalla fatidica caduta del muro di Berlino.
Avati, com’è nata l’idea di questo programma?
«Ci siamo semplicemente chiesti che cosa sapevamo davvero di quel mondo fino a pochi anni fa impenetrabile e oggi finalmente ritornato nel cuore della vecchia Europa. E abbiamo capito che siamo ancora intrisi di stereotipi e luoghi comuni e che in realtà di quell’altrove sconosciuto abbiamo finora capito troppo poco».
Allora come avete deciso di raccontarlo?
«Con le nostre tre troupe ci siamo spostati di volta in volta a Berlino, a Bucarest, in Bosnia o in Lettonia senza nessun progetto precostituito, ma cercando soprattutto di dare voce alle persone. Scegliendone diverse, portatrici ognuna di storie, esperienze ed emozioni particolari. Si tratta di gente comune. È importante entrare nella dimensione individuale. Una società è fatta di persone, non di tesi o di teoremi».
Nelle varie testimonianze raccolte è emerso più entusiasmo o delusione per le tante aspettative in parte deluse?
«A parte qualche nostalgico dei regimi comunisti, quasi mosche bianche, il filo rosso che lega persone e racconti è l’entusiasmante approdo a ciò che alcuni avevano perso e che molti non avevano mai nemmeno conosciuto: la libertà. Abbiamo raccolto testimonianze davvero commoventi. Io che ricordo nel ’45 l’ingresso a Bologna delle truppe americane che ci liberavano dai nazi-fascisti ho rivissuto quel mio stesso entusiasmo di allora».
Tra tutte le storie raccolte qual è quella che l’ha colpita di più?
«Ce n’è più di una. Per esempio, il viaggio di una donna romena, venuta a lavorare a Roma per poter mantenere la famiglia, che torna in pullman a Bucarest per il matrimonio della figlia. Ma è la prima puntata che dà il clima e la cifra dell’intero ciclo: Berlino. Una ragazza racconta la gioia dei giorni della caduta del muro e mentre scorrono quelle scene viste e riviste, ti viene un nodo alla gola. È la forza della soggettività, della vita vissuta, che rende vere le immagini».
Genti che hanno anche riconquistato la libertà religiosa.
«La dimensione spirituale esce naturalmente da ogni racconto. Noi non abbiamo mai fatto domande specifiche, ma la riconquistata libertà di culto emerge in molte testimonianze come una fondamentale risorsa a cui poter finalmente attingere per nutrire la speranza».


Avvenire 15.1.2006