(Avvenire) 25 anni fa la legalizzazione dell’aborto

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Avvenire 22-5-2003


25 ANNI FA LA LEGGE 194


FINZIONE COLLETTIVA RIMASTA SENZA FORZA



Marina Corradi


Venticinque anni fa veniva inscritta nel nostro ordinamento la legge 194, che infatti porta la data del 22 maggio 1978. E per quella legge un Paese spaccato, cortei rabbiosi, e poi un referendum in cui i «sì» all’abrogazione furono il 32 per cento. I cattolici al 32 per cento, si disse. Per molti, quel giorno sembrò una Caporetto. Certamente, il segnale, brusco come una spallata, di un’Italia che aveva rapidamente metabolizzato le spinte del ’68 e del femminismo.


Ora che quella legge ha venticinque anni, si può cominciare a guardarla in prospettiva. Pareva un inevitabile segno dei tempi – diciamolo, un segno di modernità – adeguarsi a ciò che tutti o quasi già facevano in Europa. Modernità, per molti, era anche liberarsi degli oscuri retaggi di una «vecchia » morale di fronte al concepimento; di quella sorta di soggezione, come di chi si arresti intimorito davanti a qualcosa di immenso, che è proprio dello sguardo cristiano davanti alla vita. La 194 dunque – oltre a pretendere di eliminare gli aborti clandestini, come ripetevano instancabilmente i suoi fautori – era in qualche modo intesa come portatrice di modernità. E quel 32 italiani su cento che nel referendum avrebbero detto «sì» all’abrogazione, altro non erano che oscurantisti; minoranza, comunque, anche culturalmente perdente.
Senonchè, venticinque anni dopo, lo scenario appare quasi completamente rovesciato. A monte della legge c’era la rivendicazione femminista del rifiuto della maternità non voluta. Oggi, se aborto e contraccezione sono accessibili a tutte, l’innalzamento dell’età media della maternità ha portato a livelli di infertilità mai conosciuti, e a battaglie dolorose fra provette e ormoni per concepire; un alto prezzo, di cui si parla poco. In tutta Europa poi le ricerche sociologiche parlano di quel secondo figlio che le donne vorrebbero avere, ma non possono: perchè lavorano, perchè non hanno il tempo di badargli. Venticinque anni dopo, attuale sarebbe una battaglia per potere avere tutti i figli che si desiderano.
Ma la modernità del no all’aborto di quel 32 per cento emerge ancora più chiaramente a fronte degli scenari aperti dalla ricerca nel campo della biologia dello sviluppo ed embriologico. E’ singolare notare come nei testi dei ricercatori «puri» lo sviluppo umano venga considerato un continuum graduale e coordinato, e solo fra quanti si dedicano alla fecondazione in vitro o alla clonazione appaia la distinzione tra pre-embrione ed embrione. Nello stesso rapporto Warnock, che regolamentò la fecondazione artificiale in Gran Bretagna, si parla di sviluppo embrionale come di un «processo continuo»; tuttavia «al fine di acquietare la preoccupazione del pubblico», si introduce il 14esimo giorno come termine per la ricerca sull’embrione in vitro.
La «preoccupazione» del rapporto Warnock non è una forma della stessa ansia che prende quando si parla di manipolazione di embrioni, o addirittura oscure sette ne annunciano la clonazione? Allora in molti, anche fra i laici, avvertono una istintiva avversione, il palesarsi netto di un imperativo morale violato. Eppure, sempre di pre-embrioni si tratta, di quell’invisibile nulla ignorato da tutte le 194 d’Europa. I cittadini del 32 per cento, di quella che sembrò una Caporetto, non erano retroguardia, ultimi vessilliferi di un esercito reazionario. Ma, e lo si vede oggi, memori, nel clamore contrario, di una verità più antica; e quindi, paradossalmente, precursori.