Parla il filosofo sloveno Slavoj Zizek: «Da allora viviamo nel deserto del reale, un incubo da cui non ci siamo ancora svegliati. Una via di fuga? Imparare da san Paolo e da Chesterton»
Da Milano Daniele Lepido Le trame del dolore e della sofferenza passano anche da lì. Dal virtuale. Quando la realtà sembra lontana, “uccisa” – per dirla con Jean Baudrillard – da tv, Internet e cinema – la simulazione diventa più vera del vero. Finzione chiama mondo. Dimensioni multiple, digitali, si intrecciano e danno vita a trame complicate di esperienze, generando cloni più o meno tecnologici che fanno dimenticare l’autentico. Che cosa è stato, in questo senso, l’11 settembre 2001? A questa domanda ha provato a rispondere Slavoj Zizek docente all’Istituto di Sociologia dell’Università di Lubiana. Istrione del pensiero, Socrate postmoderno, provocatore, paradossale, Zizek è discepolo di Jacques Lacan e da lui ha ereditato la passione per il simbolico. Nei suoi testi si mischiano cultura “alta”, cinema, letteratura poliziesca, fantascienza e religione. Benvenuti nel deserto del reale (Meltemi, postfazione di Marco Senaldi) è il suo nu ovo libro, nato inizialmente come articolo pubblicato sul Web. Zizek è ospite oggi del convegno “Immaginari e scenari dopo l’11 settembre” all’Università Milano Bicocca a cui parteciperanno anche studiosi come Paolo Branca, Salvatore Natoli e Paolo Ferri.
Professore, secondo lei con il crollo delle Torri gemelle gli americani sono entrati nel deserto del reale. Cosa significa?
«Sono partito da una metafora che è quella del film Matrix. Il protagonista della storia è un giovane hacker, Neo, immerso in una realtà virtuale realissima prodotta da un super computer, che per lui è la realtà punto e basta. Poi l’eroe viene risvegliato, anzi scollegato da questo universo immaginario e si trova in un panorama desolato cosparso di rovine bruciate. Io penso che con l’11 settembre sia successo qualcosa di simile. I suoi abitanti sono stati catapultati, appunto, nel deserto del reale. Sono entrati in un incubo da cui non si sono ancora svegliati e di cui non hanno coscienza piena».
Che effetto ha avuto sulla gente la ripetizione delle immagini del crollo delle Torri in televisione?
«L’effetto perverso di de-realizzare l’evento. Ci siamo veramente resi conto di quello che è accaduto? Il paradosso è che gli americani hanno assistito alla realizzazione di una fantasia distruttiva che era già presente nel loro, nel nostro immaginario. Basta pensare a film come 1997-Fuga da New York o Indipendence Day. La finzione è diventata realtà».
Nel suo libro rifiuta il dualismo democrazia contro terrorismo. Perché?
«Il concetto di scontro di civiltà è da respingere. Il conflitto è all’interno di ogni civiltà, la nostra compresa, super democratica e libertaria che dialoga con i regimi più fon damentalisti, conservatori e non democratici del mondo arabo come Kuwait e Arabia Saudita. Conflitti interni? Pensi all’allarme antrace, alle strage di Oklahoma city, alla lotta tra capitalismo e frange anti-globalizzazione. Il fatto è che ci sentiamo liberi perché ci manca addirittura il linguaggio per articolare la nostra illibertà. L’attenzione andrebbe quindi posta sugli interessi economici, sulle trame di queste democrazie manageriali».
Lei parla di un mondo votato all’utilitarismo…
«Viviamo in una realtà de-spiritualizzata, che è quella del capitalismo sfrenato, che è la sparizione della vita reale fatta di passioni, di vita autentica in cui ci deve essere il posto anche per il dolore. La nostra era non accetta più nessun tipo di Assoluto positivo, sia esso Dio o l’ideologia. L’unico a candidarsi a questo ruolo è il Male».
Come riuscirà l’Occidente a risvegliarsi dal suo torpore?
«Questo mi riporta alla stessa domanda di san Paolo: “Oggi chi è veramente vivo?”. Per paradosso, un paradosso pericoloso lo ammetto, i terroristi hanno più passione per il reale di noi, solo che scelgono un assoluto negativo. Un po’ come noi… Siamo tutti troppo concentrati su noi stessi, sul culto del corpo o sul modo in cui ci costringiamo ai miti del successo. In questo senso sono d’accordo con la morale evangelica: “Chi si adopererà per conservare la sua vita la perderà”».
Come giudica la guerra al terrore?
«Le rispondo con lo stesso ragionamento usato da Chesterton nella sua Ortodossia, una delle più belle pagine apologetiche del cattolicesimo. Lì si parlava di libertà di pensiero contro dogmatismo del credente. “Uomini che cominciano a combattere la Chiesa per amore della libertà e dell’umanit&a grave; finiscono per combattere anche la libertà e l’umanità pur di combattere la Chiesa”. E noi cosa stiamo combattendo?».