Antonio Livi, La ricerca della verità (Dal senso comune alla dialettica), Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2001, pp. 290, € 21,00.
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Antonio Livi, professore ordinario di “Filosofia della conoscenza” nell’Università Lateranense di Roma, si è formato alla scuola tomista del francese Étienne Gilson ampliandone coerentemente le indagini gnoseologiche, sia rispetto alle condizioni di possibilità di una filosofia cristiana, sia nella legittimazione del realismo metafisico.
In tal modo, egli ha guadagnato un’originale e sistematica elaborazione teorica del “senso comune” come esperienza originaria nella quale è possibile individuare il criterio assoluto della verità logica; negli ultimi dieci anni, Livi si è proficuamente dedicato allo studio del realismo metafisico, producendo una triade di saggi assai noti agli specialisti del settore: Filosofia del senso comune (Ares, 1990), Il senso comune tra razionalismo e scetticismo (Massimo, 1992) e infine Il principio di coerenza: senso comune e logica epistemica (Armando, 1997).
Il testo che si sta qui esaminando, La ricerca della verità (Dal senso comune alla dialettica), si presenta come una propedeutica filosofica.
L’Autore, infatti, non manca di puntualizzare che «lo scopo specifico di questa “Iniziazione alla filosofia della conoscenza” è di far convergere tutti i discorsi che di solito si fanno in gnoseologia sull’unico problema davvero fondamentale, che è quello della verità» (p. 9).
Ciò giustifica l’ampio spazio riservato alla “logica aletica”, cioè veritativa, che per il suo valore fondativo può essere considerata il nucleo portante di questa interessante ricerca.
Dopo un’introduzione epistemologica sulla natura e sul metodo della filosofia della conoscenza, che non tralascia di precisarne la struttura sistematica e il profilo storico-concettuale, Livi passa a descrivere i diversi modi del conoscere: l’esperienza, l’inferenza e la testimonianza.
Questa parte del libro è utilizzata per mostrare come la ricerca della verità abbia possibilità ed esiti diversi a seconda che a) l’oggetto della conoscenza sia un’evidenza empirica; b) oppure la conclusione di un’inferenza; infine c) qualcosa di non accessibile al soggetto e tuttavia creduto per fede in un testimone.
Per quanto concerne il primo aspetto, e conformemente al realismo metafisico del senso comune, l’esistenza delle cose (res sunt) viene considerata il vero «nucleo dell’esperienza» (p. 89); dunque «l’ens come “primum cognitum” significa la presenza del concreto all’inizio stesso del pensiero: infatti, ciò che è, ciò che ha l’essere, è il concreto, il mondo inteso come l’insieme delle cose.
Del loro esserci (Dasein) ci rendiamo conto fin dall’inizio perchè fin dall’inizio ci sono presenti» (p. 99). Detto altrimenti: il “mondo” non è in alcun modo riducibile alla soggettività.
Ogni conoscenza ulteriore rispetto all’esperienza ha origine nella natura stessa della verità, che essendo dinamica non si accontenta del “già” conosciuto ma tende al “non ancora” conosciuto: tende cioè alla pienezza. Siamo così al secondo punto della questione: l’inferenza (o conoscenza mediata). L’esperienza — il mistero del cosmo, la profondità insondabile dell’autocoscienza, il rapporto dialogico con gli altri, la legge morale e l’intuizione di Dio — suscita nell’intelletto la meraviglia, e la meraviglia muove la ragione alla ricerca delle cause, alla scoperta di ciò che ancora non si è manifestato ma di cui si presuppone l’esistenza, appunto come la causa, la spiegazione di ciò che desta la meraviglia.
Ciò significa che, in accordo con quanto afferma la Fides et ratio (cfr § 123), «l’imperfezione della conoscenza immediata richiede lo sforzo di raggiungere qualche conoscenza mediata, passando dalla constatazione che “una cosa è” alla comprensione del “perché è”, ossia passando “dal fenomeno al fondamento”» (p. 139).
Il terzo punto riguarda la conoscenza indiretta o “fede”. A differenza dell’esperienza, la cui verità è fondata sulla conoscenza diretta e immediata, e a differenza del ragionamento, la cui verità è parimenti fondata sulla conoscenza diretta, anche se mediata dall’inferenza, la fede è una conoscenza che il soggetto non acquisisce direttamente, con le sue personali capacità cognitive.
La conoscenza che si ottiene per mezzo di una testimonianza è un fenomeno assai complesso e variegato: di fatto, è possibile distinguere almeno tra una fede storica e una fede nella rivelazione divina.
Così argomenta Livi: «Si dà il fenomeno della fede allorché la testimonianza altrui porta un soggetto alla certezza di sapere qualcosa circa un oggetto che gli è in evidente, cioè che è (per lui) non-visibile, un “mistero”: infatti, sia quando si tratta di eventi del passato (fede storica) che di aspetti dell’interiorità altrui (fede nella confidenza o confessione di un altro), è sempre di un “mistero” naturale che si tratta, quando non si tratta addirittura di “misteri” soprannaturali (fede nella rivelazione divina)» (p. 161).
Dal punto di vista logico, l’atto di fede può essere definito come certezza che un’ipotesi di proposizione sia vera, in quanto corrisponde alla realtà, sebbene tale adaequatio non sia verificabile da parte del soggetto che crede, né con un approccio immediato all’oggetto, né con un approccio mediato dall’inferenza: non verificabile, ma garantita e legittimata da un altro soggetto, il testimone.
Qui Livi segnala che tra i filosofi contemporanei attenti ai problemi della conoscenza storica, Romano Guardini è quello che con più maestria ha saputo cogliere il nesso fecondo tra verità del Vangelo e verità dell’evento cristiano.
La fede nella rivelazione è essenzialmente fede nella Parola di Dio: dove il testimone dei misteri da credere è, appunto, Dio stesso, e non più un essere umano, sia pure autorevole.
Ma il discorso sul cristianesimo, che si presenta come unica religione vera, esige il chiarimento del presupposto logico di tale pretesa, ossia il carattere fondamentalmente aletico dell’atto di fede nella rivelazione divina.
Quando, superando il pregiudizio epistemologico kantiano, si parla dell’armonia tra “ragione” e “fede”, ciò che si presuppone è sempre il carattere aletico della fede nella rivelazione, senza il quale non sarebbe possibile parlare di “razionalità della fede”.
Un cenno alla mistica mi sembra qui rilevante. Sempre in riferimento alla Fides et ratio (cfr § 1,2; § 34), Livi sostiene infatti che «il fondamento logico che rende possibile la conoscenza mistica è la conoscenza di fede nel suo nucleo certo e comunicabile, che è di tipo assertivo-oggettivo: proprio perché il soggetto ha la più ferma convinzione che tutto ciò che egli crede in base alla Parola di Dio è vero, il suo coinvolgimento personale con l’oggetto della fede è totale.
La mistica non si oppone ma presuppone la certezza della verità oggettiva del proprio credo; l’autentico rapporto con Dio presuppone infatti che non si rimanga chiusi nella soggettività, ma che se ne esca attraverso un atto di autentica conoscenza, la quale è appunto rapporto con l’altro da sé» (p. 187).
Si giunge così alla parte del saggio che sistematizza i criteri per la verifica della conoscenza, per poi procedere all’analisi critica e alla confutazione delle posizioni scettiche, ancora dominanti nella cultura filosofica attuale ma incompatibili con i criteri della logica aletica qui sostenuti.
In conclusione del libro, Livi fornisce un utile glossario dei termini tecnici della filosofia della conoscenza, a scopo didattico: ciò impreziosisce ulteriormente questo suo lavoro.
Patrizia Manganaro
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