A Rimini, Messa nel raccoglimento

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di Paolo Facciotto

(C) Le Ragioni dell\’Occidente 

Devi alzarti presto la domenica mattina, se vuoi andare alla messa in latino a Rimini. A Porta Montanara tieni la destra sui Bastioni meridionali, poi subito a sinistra ti inoltri verso la città in via dei Molini, in discesa. Se con la bici non freni in tempo vai quasi a sbattere contro la parete sud della chiesa delle Maestre Pie. Là parcheggi la bici, sali alcuni gradini ed entri. Alle nove e mezzo stanno già cantando, quindi è meglio andarci qualche minuto prima.
Fermi tutti: ha un qualche interesse giornalistico parlare delle abitudini liturgiche della gente? Rispondo di sì. Innanzi tutto perché sembra il nuovo papa abbia liberalizzato la messa della tradizione e da molte parti è tutto un rifiorire. A parte l\’interesse di cronaca – fenomeno da indagare, riserva indiana da raccontare ai civili lettori – c\’è altro: qual è il rapporto delle persone con il mistero, oggi? Questo sì che interessa. Credo che interessi un sacco. Proviamo a vedere. Saliti quei gradini ti trovi immerso in qualcosa di imprevisto. La prima chiave per capirci qualcosa, l\’impatto immediato almeno per me riguarda un aspetto testuale. Dalla messa post-Vaticano II i cattolici hanno imparato la preghiera di confessione pubblica così: Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli, che ho molto peccato eccetera. Qui invece scopri subito che per lunghi secoli si è detto – e ancora oggi i cattolici se vogliono possono dire: Confesso a Dio onnipotente, alla beata Maria sempre Vergine, al beato Michele arcangelo, al beato Giovanni Battista, ai santi apostoli Pietro e Paolo, a tutti i santi e a Te, o Padre, di aver molto peccato eccetera. C\’è differenza. Ci si potrebbe chiedere qual è fra le due preghiere quella più bella, quale la più corrispondente all\’umano, o la più attuale e a noi contemporanea. Nel testo del post-Concilio – che come si vede non è una vera traduzione della preghiera antica ma una sua scarnificazione, riduzione, rivoluzione – la chiave è quella del due: padre e fratelli, cielo e terra, di qua e di là. E\’ un testo che ha il pregio di essere chiaro, una rappresentazione quasi ideale della realtà. Quasi una rappresentazione ideologica. L\’impianto stesso della messa post-Vaticano II è duale: la partizione di fondo è fra liturgia della parola e liturgia eucaristica. E l\’altare, come tutti sanno, è stato girato "di qua", dalla parte dei "fratelli".
Diversamente il testo tradizionale è un fiume che cammina e va in una direzione, non in due: ma in questo uno c\’è il molto, il tutto, il particolare. Ci sono le persone, le facce, la Vergine, l\’arcangelo con la spada, il battista coperto di pelli e così via fino ad arrivare a noi, a me, all\’istante presente. Questo significa contemporaneo: il rapporto col mistero – Dio – non spunta come un fungo da un\’attitudine solitaria, dalla confessione (nel senso di atto di fede) appartata, ma arriva in una storia. In una successione di rapporti. "L\’incontro è successo a Andrea e Giovanni, e via via è arrivato fino a mia madre, e a me". Sembra un paradosso che si debbano confessare i peccati al beato Michele arcangelo. Ma è la stessa cosa fatta dai medievali quando hanno dato a una certa città il nome di Santarcangelo. Ecco, oggi la modernità presunta vorrebbe che i rapporti fossero tagliati, e invece i rapporti ci sono anche se non si vedono, sono nella storia.
Si dirà: il giornalista si sta attaccando a un particolare per farci credere chissà che cosa. No. Il confesso nel messale tradizionale si ripete più volte. E anche in altre preghiere della messa gli antichi indicano la successione dei rapporti che hanno costituito la trama della storia della salvezza. Ad esempio nel Canone romano – poi vedremo cos\’è – viene ricordato Melchisedèch, il sommo sacerdote del tempo di Abramo, il primo ad offrire a Dio pane e vino. Questa messa fa stare il fedele come nel letto di un fiume storico, più che bimillenario. E facilita il rapporto col Mistero: non nel senso che lo renda più ovvio, ma più vicino, più collegato all\’uomo, all\’io.
Ed è proprio un fiume che scorre, a volte piano e a volte forte, placido e silenzioso in alcuni punti, rapido e sonoro in altri. Non è una liturgia bipartita. E\’ ricca, ma non per l\’orrore del vuoto. Tutt\’altro. Vi riscopri il silenzio: a un certo punto, come se il fiume diventasse carsico, la preghiera diventa silenziosa. Succede quando il celebrante – girato "di là" – comincia il Canone romano a voce impercettibile. Una preghiera codificata non più tardi del III° secolo, è quella che già usavano i cristiani nelle catacombe. Vi si ricordano gli apostoli, ciascuno col proprio nome, e poi quelli che sono venuti subito dopo, Lino, Cleto, Clemente, Sisto, Cornelio, Cipriano, Lorenzo, Crisógono, Giovanni e Paolo, Cosma e Damiano. La consacrazione del pane e del vino è rimasta pressoché uguale nella traduzione in italiano, ma tutto il resto è stato scarnificato. Ad esempio nel punto in cui, confessando ancora una volta i peccati, si ricordano i santi apostoli e martiri Stefano, Mattia, Barnaba, Ignazio, Alessandro, Marcellino, Pietro, Felicita, Perpetua, Agata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia. Tutto in una sorta di apnea silenziosa che da sola vale a fare percepire la grandezza misteriosa di ciò che sta accadendo, la transustanziazione.
Il silenzio non me lo ricordavo proprio. Ero troppo piccolo quando tutto questo scomparve, e successe da un giorno all\’altro. Ricordo invece i muratori lavorare attorno agli altari e costruirne di nuovi. Girati di qua.
Ricordo che ci si inginocchiava all\’invocazione dell\’Agnello di Dio – alcuni ancora lo fanno nella "messa nuova", ma sono un\’infima minoranza, un resto d\’Israele, un fiore nel deserto. Da mie ricerche d\’archivio risulta che le prime sperimentazioni liturgiche post-Concilio in Olanda cominciarono proprio da lì: dall\’abolizione dell\’Agnello di Dio. In compenso in fondo a certe chiese avevano aggiunto un bancone da bar "per il ristoro dei fedeli", togliendo alcune panche e il confessionale. Non bastava più la mensa eucaristica. Ma quella è una storia finita.
Nella liturgia della tradizione che è sopravvissuta in alcune, poche catacombe – ma per essa firmarono grandissime personalità della cultura, fra cui Borges, Montale, Dreyer, la Christie, Quasimodo, Zolla, Segovia, Greene – non ci si sbraccia in gesti di pace, non si perde tempo in predicozzi infilati in ogni dove, non si fanno offertori con tutte le categorie merceologiche possibili. Si sta di fronte al mistero, per la più parte del tempo in ginocchio. Però c\’è sempre più gente che ci va.
Come vedete non ho speso neanche una parola in latino. Non è certo la questione linguistica che oggi può eventualmente allontanarci dalla messa della tradizione. E d\’altra parte non ci si va per la suggestione – che pure è potente – della lingua lontana. Esistono libricini facili da seguire, con traduzione italiana a fronte. In queste comunità tutti li usano anche se in gran parte sanno il testo a memoria. C\’è un però: questi libri è impossibile trovarli nelle librerie normali, e non vengono venduti nelle librerie religiose e diocesane. Sarebbe troppo facile, troppo comodo. Un buon cammino normalmente è molto accidentato. Via, togliamoci la soddisfazione: per aspera ad astra.

Nota di redazione: le considerazioni sulla liturgia presenti nell\’articolo non coinvolgono in alcun modo il gruppo di preghiera "Il Cenacolo della SS. Trinità" di Rimini ma sono da riferirsi esclusivamente al pensiero dell\’autore dell\’articolo.

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CHE COSA E\’ LA MESSA CATTOLICA DELLA TRADIZIONE

Il 14 luglio 1570 Papa Pio V con la costituzione apostolica "Quo primum tempore" mise un punto fermo nella liturgia cattolica pubblicando il Messale romano, una delle colonne portanti della riforma della chiesa cattolica derivante dal Concilio di Trento. E fu anche un lavoro umanistico e filologico di grande valore, perché per stabilire i testi furono collazionati i più autorevoli e antichi testimoni manoscritti della biblioteca Vaticana e delle maggiori raccolte d\’Europa. Il risultato di una tradizione, dunque.
Il nuovo testo, sempre nell\’alveo di questo lungo fiume, è il "Missale romanum" del 1962, promulgato da Giovanni XXIII ma promosso sotto Pio XII, che recepì le esigenze di sviluppo della liturgia cattolica dei decenni precedenti.
Il 4 dicembre 1963 il Concilio Vaticano II approvò quasi all\’unanimità la Costituzione sulla Sacra Liturgia. Ciò che avvenne negli anni seguenti derivò dall\’impostazione data dal "Consiglio per l\’applicazione della Costituzione liturgica": si arrivò così ai rinnovamenti delle forme liturgiche a tutti noti, vincolanti per la chiesa, ma che "non si identificano con il Concilio come tale" (J. Card. Ratzinger, "I 40 anni della Costituzione sulla Sacra Liturgia. Retrospettiva e prospettiva", Roma 2003).
Il messale post-conciliare che divenne obbligatorio dalla Pentecoste del 1973 fu "una rottura" – raccontava il Card. Ratzinger – per "il divieto quasi completo del messale precedente": "Una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia".

Giovanni Paolo II diede la possibilità di celebrare col messale antico, a patto che i richiedenti ne avessero il permesso dal vescovo diocesano. Benedetto XVI col motu proprio entrato in vigore nella festa dell\’Esaltazione della Santa Croce facilita il ritorno della liturgia tradizionale, perché quella moderna è arrivata ad essere interpretata in forme "al limite del sopportabile".