(Avvenire) Buchanan:«Abbiamo la volontà di vincere?»

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APPELLO ALLE RISORSE DIPLOMATICHE

CASA BIANCA PIÙ FLESSIBILE



Maurizio Blondet


Avvenire 6-4-2004


«Abbiamo la volontà di vincere?». Lo domanda agli americani, nel suo ultimo editoriale, Pat Buchanan: grande opinionista, già candidato alla presidenza, cattolico conservatore e ostile dall’inizio all’intervento in Iraq. Ma in questi giorni paurosi della rivolta irachena, egli pone la questione giusta. Anche i più irriducibili anti-americani e anti-Bush dovrebbero, a mente fredda, temere una flessione della volontà degli Stati Uniti: allo stato attuale, essa significherebbe non solo abbandonare l’Iraq a una carneficina interna inaudita, ma l’intera area – tra l’altro è quella che ci dà il petrolio – all’abisso della destabilizzazione permanente. Tutti i Paesi vicini, già ambigui o malfermi e fragili «amici», sarebbero travolti da una disfatta o da un ritiro americano. Gli Usa devono «vincere», o l’Oriente diventa terra di nessuno.
Tale è il rischio, che ogni critica agli errori di Washington (ai suoi obiettivi strategici plurimi, semi-dichiarati, in parte inconciliabili: lotta al terrorismo? Democrazia? Petrolio? Cancellazione di uno Stato minaccioso per Israele?) oggi ha senso solo se contribuisce alla progressiva pacificazione dell’Iraq. Per questo è essenziale che l’America restringa il campo dei suoi obiettivi e li possa vittoriosamente perseguire con la solidarietà internazionale.
Questo lavoro di messa a fuoco è cominciato in Usa. La Rand Corporation, un centro-studi vicino al Pentagono e accentuatamente “falco”, ha appena pubblicato un rapporto che invita a una politica molto più sofisticata e flessibile di quella finora seguita. «Islam è un termine vago», dice la Rand. «Gli Usa devono distinguere in esso i gruppi che lo compongono, e capire come essi ci percepiscono». I fondamentalisti «non sono» l’Islam, aggiunge, anzi spesso le loro posizion i contraddicono gli insegnamenti tradizionali. Ecco il suggerimento più innovativo: piuttosto che sui modernizzatori secolarizzati, troppo minoritari, la situazione obbliga a puntare sui «tradizionalisti» musulmani. C’è nell’Islam una grande maggioranza di pii credenti, «avversa alla violenza e incline alla moderazione», che dal fondamentalismo è intimidita più che conquistata. «Appoggiare i tradizionalisti contro i radicali»: ecco la proposta.
Come applicare la ricetta all’Iraq? Un modo potrebbe essere la promessa di instaurare la misura di «democrazia» che quell’immensa maggioranza silenziosa non senta contraria ai suoi costumi e alla sua etica familiare. Un altro, riguadagnare la minoranza sunnita: essa che combatte gli americani nel suo triangolo, ha bisogno anzitutto di essere garantita dal pericolo mortale che rappresenta, per questa, una maggioranza sciiita in mano agli estremisti. L’appoggio a tale componente sarebbe, in fondo, una riconferma del sistema di potere di Saddam: ma non è il caso, a questo punto, di sottilizzare. Anche verso gli sciiti, per gli Usa è urgente identificare là degli interlocutori autorevoli e credibili – si dice che il grande ayatollah Sistani non veda con piacere l’emergere del giovane Sadr, il capo della corrente fiammata radicale – evitando, insieme, di farli apparire come «collaborazionisti» filo-occidentali. Infine, Washington deve riconoscere che le chiavi della pacificazione sciita in Iraq si trovano a Teheran: più i «falchi» Usa minacciano di destabilizzazione il regime degli ayatollah, più la pacificazione degli sciiti a Baghdad s’allontana.
Esercizi di diplomazia sottili e difficili, per questa Casa Bianca. Ma gli Usa lo devono a se stessi, al loro ruolo internazionale. Lo debbono alla Nato, in vista di un suo coinvolgimento nella difficile i mpresa irachena. Lo devono all’ordine diplomatico internazionale: dopotutto ha saputo per decenni garantire tra «civiltà» inconciliabili e «nemici» mortali, un qualche terreno di intesa. Mettere da parte i sogni di palingenesi e ridare una voce ai diplomatici, si creda, aiuta sempre.