(www.chiesa) Stop alla secolarizzazione della vita pubblica

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Caso Kennedy. Il vescovo boccia il professore

Terza puntata di una disputa che divide la Chiesa e il campo politico, non solo negli Stati Uniti. L’arcivescovo di Denver, Chaput, respinge le critiche del professor Diotallevi e ribadisce che Kennedy ha avuto un influsso "moralmente distruttivo" su due generazioni di politici cattolici

di Sandro Magister ROMA, 21 aprile 2010 – La difesa di John Kennedy, o meglio, della sua "dottrina" sui rapporti tra religione e politica, fatta dal professor Luca Diotallevi in replica alle dure critiche rivolte al primo presidente cattolico americano dall’arcivescovo di Denver, Charles J. Chaput, non è passata inosservata.

L’arcivescovo Chaput aveva esposto le sue critiche a Kennedy in un discorso del 1 marzo di quest’anno alla Baptist University di Houston, integralmente riprodotto da www.chiesa:

> La dottrina del cattolico Kennedy? Da dimenticare

Il professor Diotallevi, sociologo della religione, studioso della società americana e consulente della conferenza episcopale italiana, ha replicato a Chaput il 12 aprile, sempre su www.chiesa:

> Salvate il cattolico Kennedy. Una replica a monsignor Chaput

E ora l’arcivescovo di Denver critica le critiche di Diotallevi e ribadisce e chiarisce le proprie tesi, nel testo riprodotto più sotto.

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Ma dagli Stati Uniti sono arrivati a www.chiesa anche altri commenti alle posizioni di Diotallevi. Ne segnaliamo tre.

1. James Brady ci ha scritto da Gering, nel Nebraska, che Kennedy, rivolgendo il suo storico discorso del 1960 a una platea di pastori protestanti, sapeva che la loro diffidenza riguardava proprio il suo essere cattolico. E allora "egli svendette il suo credo cattolico in cambio di vantaggi politici. Io ricordo ciò molto bene perché i miei parenti protestanti erano preoccupati di avere un ‘cattolico’ come presidente. Ma appena fatta la ‘svendita’, la loro preoccupazione svanì".

2. Anche Christopher C. Caron ci ha scritto, da Washington, DC, che la "decattolicizzazione" del candidato Kennedy era ciò che i protestanti esigevano, e che lui concesse di buon grado. Intenzionale o no, l’effetto fu rovinoso: "Il cattolico medio negli Stati Uniti capì che non doveva più attingere alla religione nel fare politica pubblica. Questa fu la lezione che tanti impararono, e praticamente nessun vescovo rifiutò questo errore di base. L’effetto di quel discorso fu di secolarizzare i cattolici americani".

3. Infine, è degno di nota il commento che ci ha inviato James Hitchcock, professore di storia alla St. Louis University e autore di saggi sulla religione in America, tra i quali "Catholicism and Modernity", Crossroads, 1978, e "The Supreme Court and Religion in American Life", Princeton University Press, 2004.

Il professor Hitchcock nega che il teologo gesuita John Courtney Murray abbia ispirato il discorso di Kennedy, come sostenuto da Diotallevi.

Nega anche che i pastori protestanti ai quali Kennedy parlava si aspettassero da lui un’attenuazione del posto della religione nella vita pubblica. La loro diffidenza era concentrata sull’appartenenza del candidato presidente alla Chiesa cattolica.

Soprattutto, Hitchcock mostra che il discorso di Kennedy segnò un reale distacco dalla grande tradizione americana di amicizia pubblica tra la religione e la democrazia. Un distacco iniziato da una sentenza della corte suprema del 1947, che cambiò il significato della separazione tra Chiesa e stato, e favorito dall’insegnamento secolarizzante di un filosofo influentissimo come John Dewey.

Il commento del professor Hitchcock è riprodotto integralmente in questa stessa pagina, dopo quello dell’arcivescovo Chaput.

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UNA REPLICA AL PROFESSOR DIOTALLEVI

di Charles J. Chaput

Sono grato al professor Diotallevi per il suo commento al mio discorso del 1 marzo alla Baptist University di Houston. Lui e io chiaramente divergiamo nell’interpretare il discorso di John Kennedy a Houston nel 1960 sul ruolo della religione nella vita pubblica americana. Divergiamo anche nella comprensione precisa della "separazione di Chiesa e stato" nella luce della storia e dei documenti fondanti della mia nazione. Offro qui alcuni pensieri in risposta alle sue osservazioni.

Primo. Il professor Diotallevi sostiene che l’influenza del gesuita John Courtney Murray sul discorso di Kennedy sia "facilmente rintracciabile". Purtroppo padre Murray, per sua ammissione, ebbe una minima influenza sul discorso di Kennedy. In realtà, se Murray avesse giocato il ruolo che Diotallevi gli assegna, ne sarebbe uscito un discorso diverso e molto migliore. È vero che Murray, con John Cogley e altri, fu consultato nella preparazione del testo di Kennedy. Ma come lo stesso Murray fece poi notare, la maggior parte dei suoi consigli furono ignorati. Nelle parole stesse di Murray, Kennedy "era molto più separazionista di quanto fossi io". Chiunque conosca gli scritti di Murray, leggendo il discorso di Kennedy del 1960 capirà perché Murray prese le distanze da quel testo. La visione di Kennedy della religione come materia essenzialmente privata, con poche relazioni con i doveri pubblici di un leader, differisce nettamente dalle convinzioni di Murray circa le relazioni tra Chiesa e stato, tra fede e vita pubblica.

Secondo. Diotallevi sostiene che Kennedy non avrebbe mai predicato una radicale separazione della fede dalla sfera pubblica a una platea di ministri protestanti decisi a che "l’esperienza cristiana si manifestasse in ogni aspetto della vita pubblica". Ma di nuovo, purtroppo, il professore ha letto male il mio testo del 1 marzo. Come lo studioso gesuita Mark Massa nota nel suo saggio (che cito ampiamente nel mio discorso) il discorso di Kennedy del 1960, nel contesto dell’epoca, suonava piuttosto congeniale alle orecchie protestanti poiché neutralizzava i timori circa le radici cattoliche di Kennedy. Ma esso aveva una carica nascosta con forti implicazioni a lunga distanza, aliene dall’esperienza storica americana. Il danno divenne chiaro solo col passare del tempo. Che Kennedy avvertisse o no le forti conseguenze secolariste del suo discorso, è irrilevante. L’importante è che egli impresse alla discussione americana su "fede e vita pubblica" una direzione veramente nuova, e preparò il terreno sul quale due generazioni di leader politici cattolici separarono le loro convinzioni morali religiosamente plasmate dal loro operato politico, in un modo a loro conveniente ma moralmente distruttivo.

Terzo. Mettendo in questione l’uso che faccio della parola "Chiesa" nel mio discorso, purtroppo Diotallevi sembra perdere di vista i passaggi chiavi delle mie osservazioni. Forse si tratta di un problema di traduzione, sta di fatto che io non ho capito le sue preoccupazioni. In realtà ho detto:

“Il cristianesimo non riguarda prevalentemente – o almeno in misura significativa – la politica. Riguarda il vivere e diffondere l’amore di Dio. E l’impegno politico cristiano, quando c’è, non è mai prevalentemente il compito del clero. Questo compito appartiene ai laici credenti che vivono nel modo più pieno nel mondo". Poche righe più avanti, ho notato che “i cristiani come singoli e la Chiesa come comunità credente si impegnano a livello politico come per un comandamento della Parola di Dio".

Contrariamente a quanto il professore sembra dire, non c’è nulla di "tanto complicato" in queste idee. Sono semplici e dirette, sgorganti in modo naturale dal Vangelo. In nessuna parte del discorso io sostengo che la struttura gerarchica della Chiesa è la modalità preferita perché i cattolici interagiscano con l’ordine politico. In realtà, dico proprio l’opposto. Diotallevi sembra scoprire nei miei commenti una specie di cripto-integralismo. Posto un quadro di riferimento europeo, ciò può essere comprensibile. Ma nulla nel testo effettivo delle mie critiche sostiene questa curiosa veduta, e per buone ragioni. Come quasi ogni altro cittadino degli Stati Uniti, incluso lo scomparso John Courtney Murray, io credo fortemente nella separazione di Chiesa e stato, adeguatamente compresa e come i Padri Fondatori la intesero.

E che cosa intendo come comprensione "adeguata" della separazione di Chiesa e stato? Intendo esattamente ciò che i vescovi americani intendevano quando parlarono del patrimonio costituzionale della nostra nazione in quell’eccellente lettera pastorale del 1948 intitolata "I cristiani in azione". Per ragioni di calcolo pragmatico John Kennedy citò selettivamente – ed anche ignorò selettivamente – il contenuto di quella lettera pastorale, nel suo discorso del 1960. Il professor Diotallevi sembra ignorarla. Ma come studioso, potrebbe risultargli utile per completare la sua conoscenza della tradizione politica americana, e del distacco di Kennedy da essa.

Infine, il professore sembra preoccupato che le mie critiche corrano il rischio di incoraggiare "alcune delle posizioni ‘evangelical’ o neoconservatrici più diffuse nel mondo protestante americano, ma anche in alcune frange del mondo cattolico". Semplicemente rispondo facendo notare che la testimonianza pro-life e pro-family degli "evangelical" americani è ammirevole. Vorrei solo che fosse emulata con più forza da molti di quei cattolici americani che si definiscono essi stessi "liberal" e progressisti. Gli "evangelical" e i cattolici che (assieme ai cristiani ortodossi d’oriente, ai mormoni, a molti ebrei osservanti e ad altri) parlano in difesa della santità della vita e della dignità del matrimonio meritano lode, non derisione. Essi operano nella tradizione degli attivisti per i diritti civili – una causa morale guidata da credenti religiosi – che rifiutarono di "privatizzare" la loro fede. La loro testimonianza può essere dissonante rispetto al discorso di John Kennedy a Houston, ma essi sono pienamente nello spirito delle azioni di Martin Luther King a Selma.

Certo, ogni movimento politico ha i suoi zeloti e si suoi opportunisti. L’impegno politico sarà talvolta segnato da eccessi di entusiasmo e da mancanza di prudenza. E alcuni inevitabilmente cercheranno di piegare il Vangelo e la Chiesa al loro vantaggio personale. Ma i cristiani sono chiamati ad essere i migliori dei buoni cittadini. Abbiamo il dovere di lavorare per la giustizia e per il bene comune. Non possiamo sottrarci a questo obbligo invocando l’insensatezza, l’egoismo o l’ipocrisia di altri, o le umane imperfezioni delle cause politiche che esigono il nostro risoluto sostegno.

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THE KENNEDY LEGACY: A REPLY TO LUCA DIOTALLEVI

by James Hitchcock

Luca Diotallevi’s reply to Archbishop Charles Chaput (“Saving the Catholic Kennedy: A Reply to Archbishop Chaput”, www.chiesa, April 12, 2010) is abstract to a degree that makes it difficult to understand his point fully. As far as I do understand him, this abstractness is heightened by his inattention to actual American history.

The American Constitution intended to foreclose any possibility of an official national church. (Some individual states had such churches as late as the 1830’s.) But throughout American history there was a broad consensus that religion was nonetheless the necessary source of moral wisdom. Political leaders almost routinely stated that, without a citizenry whose values were formed by religion, a democratic society was not possible.

Thus the slavery issue was debated (on both sides) on religious grounds, polygamy was forbidden, Protestants (not Catholics) enacted laws against abortion and contraception, most business was forbidden on Sunday, and at one time the use of alcohol was banned. Few people considered these things a violation of the Constitution.

There was a broad moral consensus in which Catholics shared, but in the public schools, until the 1960’s, Protestantism dominated, through officially authorized prayers and Bible readings.

Beginning in 1947 the Supreme Court began to interpret “separation of church and state” in an entirely new way, based on a faulty historical understanding. This led to a new jurisprudence traceable to the influence of certain secular-minded intellectuals, notably John Dewey, the most influential American philosopher, who did indeed favor something like European "laïcité".

That was the context of Kennedy’s 1960 speech to the Protestant clergy.

Professor Diotallevi is mistaken in suggesting that Father John Courtney Murray wrote the speech. Kennedy consulted Murray, but the speech was written by one of Kennedy’s staff, and Murray considered it highly unsatisfactory, precisely the wrong solution to the issue being posed. Murray believed that the American system rested on an implicit acceptance of natural law, which would, among other things, continue to protect the lives of the unborn.

The challenge Kennedy tried to meet was not the role of religion as such in public life but the role of the Catholic Church specifically. Many of the clergy he addressed still favored prayer and Bible-reading in the public schools, and they were the kind of Protestants who later campaigned against abortion.

At the time of the speech the struggle for the civil rights of blacks was being conducted almost entirely on a religious basis, and clergy who insisted that racial equality was a moral and religious imperative were praised as courageous and prophetic.

Kennedy’s own view is not a mystery. Shortly before his assassination he told a newspaper editor that he favored legalized abortion, and his brother Edward, who served as a senator for many years, consistently favored a wholly secular approach to politics that departed from the mainstream of American history.

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Il testo integrale del discorso tenuto da John F. Kennedy il 12 settembre 1960 alla Greater Houston Ministerial Association:

> "While the so called religious issue…"