(www.chiesa) Sperando che il Signore tocchi il cuore di Obama

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Conflitto e speranza all’università di Notre Dame

di Robert Imbelli

La cerimonia di quest’anno per il conferimento delle lauree all’università di Notre Dame nell’Indiana è stata tra le più controverse nell’illustre storia di questa prestigiosa università cattolica. Il motivo è stato l’invito al nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, a tenere un discorso ai laureati e a ricevere una laurea "honoris causa" in diritto. A provocare un’esplosione di critiche è stato, in particolare, il conferimento di un titolo d’onore a un presidente le cui politiche sostengono il diritto all’aborto e promuovono la ricerca sulle cellule staminali embrionali.

Con un pubblico rimprovero che non ha precedenti, più di settanta vescovi degli Stati Uniti hanno severamente criticato la Notre Dame per aver violato le indicazioni della conferenza episcopale circa il conferimento di titoli d’onore a chi si oppone all’insegnamento cattolico su punti fondamentali. Il vescovo della diocesi in cui sorge la Notre Dame ha boicottato la cerimonia in segno di protesta. Inoltre, Mary Ann Glendon, ex ambasciatore presso la Santa Sede e docente di diritto alla Harvard University, che era stata designata a ricevere la medaglia "Laetare", il più alto riconoscimento della Notre Dame, ha rifiutato il premio a motivo della disobbedienza della Notre Dame alla direttiva dei vescovi.

La polemica è esplosa settimane prima della cerimonia e questo ha fatto sì che ricevesse una vasta copertura nei media sia laici che religiosi. La discussione è poi proseguita sempre molto animata su siti cattolici, giornali e riviste. Io offro qui alcune riflessioni suscitate sia dal discorso del presidente, sia dal discorso per la medaglia "Laetare" pronunciato dal magistrato John Noonan, giudice della corte d’appello degli Stati Uniti, già professore di diritto a Notre Dame, e apprezzato autore di numerosi saggi sullo sviluppo della dottrina morale cattolica.

Come ci si poteva aspettare, il presidente Obama ha pronunciato un discorso ricco di retorica ed efficace. Ha combinato toccanti riferimenti alla propria storia personale con un’appassionata difesa dello spirito civico e del dialogo, specialmente quando dei cittadini sposano differenti credo e posizioni. Ha visto in questo un prerequisito per uno scambio costruttivo in una democrazia e per stabilire un "terreno comune". Ha messo in guardia dalla tentazione di demonizzare coloro con cui si è in disaccordo.

Obama ha detto che, quando era un giovane operatore sociale a Chicago, era stato ispirato dallo scomparso cardinale Joseph Bernardin, che ha definito "uomo gentile, buono e saggio". Ha anche ricordato quanto era rimasto impressionato dalle Chiese cristiane che nell’area di Chicago lavoravano a servizio di bisognosi, poveri ed emarginati. Fu la loro testimonianza che lo portò a diventare membro di Chiesa in una delle parrocchie protestanti.

Anche coloro che hanno criticato l’invito della Notre Dame al presidente e il suo discorso riconoscono che egli ha offerto dei gesti in direzione delle preoccupazioni dei suoi critici. Ha parlato di uno sforzo comune per ridurre il numero degli aborti, per promuovere l’adozione dei neonati e per proteggere l’obiezione di coscienza di medici e infermieri contrari all’aborto. Questi sarebbero passi significativi, se attuati.

Ma i critici insistono sul fatto che l’appello del presidente al dialogo, pur strategicamente accorto, serve a camuffare questioni di considerevole sostanza. Per essi il suo appello alla civile discussione maschera un inflessibile sostegno al diritto di aborto, che colpisce il diritto alla vita delle più vulnerabili delle creature di Dio. E, chiaramente, l’esortazione a proseguire il dialogo può essere un facile espediente, quando in definitiva il potere di decidere e di mettere in esecuzione risiede esclusivamente nelle mani di colui che lancia l’appello: il solo che detiene il grandioso potere della presidenza.

Dove, allora, in questo apparente stallo, si affaccia la speranza? Vorrei richiamare l’attenzione su tre elementi del discorso del presidente, che finora sono stati poco commentati. Anzitutto, egli non ha detto soltanto che, grazie alla testimonianza di cristiani socialmente impegnati, è divenuto membro di una Chiesa. Ha detto una cosa più degna di nota: che grazie alla loro testimonianza "egli è stato portato a Cristo". Andare a Cristo, naturalmente, comporta conseguenze morali. Non solo: oltre che alla moralità muove a un nuovo ordine di rapporti e a una continua conversione.

Secondo: è nella luce di questo andare a Cristo che il presidente Obama ha potuto parlare, in modo quasi agostiniano, di "peccato originale"? Io non ricordo di aver udito uscire il concetto di peccato originale dalla bocca di un precedente presidente americano: certo non con la forza e la convinzione che Obama ha mostrato. Egli ha parlato di "nostro egoismo, nostra alterigia, nostra ostinazione, nostra pretesa di possedere, nostre insicurezze, nostri ego". Queste cose ci affliggono tutti, oscurano il nostro intelletto e diminuiscono il nostro amore.

Infine, il presidente Obama si è richiamato alla "legge che tiene insieme popoli di tutte le fedi e di nessuna fede… Essa è di certo la regola d’oro: l’appello a trattare l’altro come noi vogliamo essere trattati, l’appello all’amore. L’appello a servire". Anche se non ha usato il termine, è ciò che dice la tradizione cattolica quando parla della legge naturale scritta nei cuori degli uomini dal loro Creatore.

Quindi, se a un primo livello il presidente è parso concentrarsi primariamente su un dialogo rispettoso e su "parole ben disposte", a un livello più profondo è sembrato essere in cerca di principi unificanti che possano essere anche dissimili dalle sue posizioni prefissate. In effetti questi principi, se ricevessero piena libertà d’azione, potrebbero anche portare il presidente – non senza costi personali – a riconsiderare alcune delle pratiche che attualmente sostiene.

In un generoso tributo d’omaggio, il presidente Obama ha definito la Notre Dame "un faro che si eleva distinto, illuminando con la sapienza della tradizione cattolica". Un buon rappresentante di questa sapienza cattolica è il giudice John Noonan, che ha tenuto il discorso "Laetare" al posto dell’ambasciatore Glendon. Dispiace che il suo equilibrato discorso non abbia ricevuto quasi nessuna menzione nelle cronache dei media, ossessionati dalle celebrità e dalle polemiche. Ma le sue osservazioni, concise e rispettose eppure acute, meritano un’attenzione ravvicinata. La sua è stata una voce misurata e gentile, come un sussurro di coscienza.

Il giudice Noonan ha fatto riferimento allo sviluppo della sensibilità morale umana, che ha portato il mondo civilizzato a denunciare il genocidio, la tortura, la schiavitù come ingiustificabili mali morali. Egli tuttavia ha messo in chiaro che questa nettezza morale è discesa da secoli di conflitti, di esperienze, di sofferte intuizioni e "dalla luce irradiata dal Vangelo". E ha insistito sul fatto che, sebbene la "coscienza" sia sempre da rispettare e mai da reprimere, non ogni coscienza è ugualmente informata moralmente e nel giusto.

Significativamente, Noonan ha scelto un esempio impressionante per illustrare la sua tesi: la disputa tra il presidente Abraham Lincoln e l’ex schiavo Frederick Douglass. Furono la chiarezza morale e le convinzioni di Douglass che aiutarono a guidare la visione morale di Lincoln al punto dal quale uscì il "Proclama di emancipazione", che diede la libertà agli schiavi negli Stati secessionisti. L’implicazione, portata avanti sottilmente ma inequivocabilmente, è che anche il presidente Obama, come Lincoln da lui così venerato, può arrivare a una maggiore chiarezza riguardo la pressante questione morale dell’aborto.

Un’ulteriore dimensione del discorso del giudice Noonan, sfuggita anche a chi aveva preso la  briga di andare ad ascoltarlo, è stato il tacito richiamo a John Henry Newman. In un passaggio che fa eco a Newman sia nella sostanza che nel fraseggio, Noonan ha detto: "Con la coscienza noi comprendiamo ciò che Dio chiede da noi… Questa guida misteriosa, impalpabile, imprescrittibile, indistruttibile e indispensabile governa la nostra vita morale". Sia per Newman che per Noonan la coscienza è non un impulso atavico, non una spinta emotiva, non una creatura dell’uomo, ma la voce di Dio. È una coscienza così concepita che, nelle parole folgoranti di Newman, è "il vicario aborigeno di Cristo". Come Newman scrisse nella sua celebre lettera al duca di Norfolk: "La coscienza ha dei diritti poiché ha dei doveri; ma in quest’epoca, per una larga porzione di gente, il diritto e la libertà di coscienza sono proprio ciò che dispensa dalla coscienza, ignora il Legislatore e Giudice, fa essere indipendenti dalle obbligazioni non viste".

La questione in gioco nello scontro concernente l’aborto, negli Stati Uniti e altrove, è su quale nozione di coscienza prevarrà: la coscienza come volontà di Dio o come volontà propria? La speranza che sostiene coloro che sono formati nella tradizione della sapienza cattolica è la speranza scritta nella stessa medaglia "Laetare", che il giudice Noonan ha citato a conclusione del suo discorso: "Magna est Veritas et praevalebit", grande è la Verità e prevarrà.

Ma c’è un’ulteriore speranza, quasi impercettibilmente intrecciata nel tessuto delle toghe accademiche dalla Notre Dame, compresa quella indossata dal presidente Obama nel ricevere la sua laurea onoraria. Tre parole latine: Vita, Dulcedo, Spes. Esse vengono, naturalmente, da quell’antica preghiera alla Madonna che è la "Salve Regina". Maria è vita, dolcezza e speranza. E tutte queste tre realtà sono incarnate nel frutto del suo ventre e del ventre di ogni madre: "benedictum fructum ventris". Possa la Madre di Dio, Sede della Sapienza, guidare e ispirare la sua università così che la Verità del Vangelo possa, davvero, prevalere".

(fonte: www.chiesa)