(www.chiesa) La diplomazia deve essere al servizio della missione

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Rapporti diplomatici con la Cina? Forse, ma a una condizione

Il punto che la Santa Sede ritiene irrinunciabile è la piena libertà di nomina e d’azione dei vescovi. “Nessun accordo è meglio che un cattivo accordo”, dice l’esperto di fiducia del cardinale Zen. “E i cattolici di Taiwan sappiano che Roma non li abbandonerà”

di Sandro Magister ROMA, 1 settembre 2006 – A pochi giorni dalla sua entrata in carica in Vaticano come primo collaboratore del papa, il cardinale Tarcisio Bertone ha detto che vorrà essere segretario “di Chiesa” più che di stato.

Ha spiegato:

“Spero di poter accentuare la missione spirituale della Chiesa, che trascende la politica e la diplomazia”.

Ha detto ancora Bertone, nella stessa intervista ad Andrea Tornielli su “il Giornale” del 29 agosto:

“La missione della Chiesa, come ripete il papa, è soltanto una ed è sempre stata quella: annunciare al mondo che la bellezza, la felicità, la risposta alle domande più profonde dell’uomo non è un’idea, un sistema filosofico o una serie di insegnamenti, ma una persona, Gesù Cristo, morto e risorto per la nostra salvezza. È soltanto in forza e alla luce di questa missione che la Santa Sede cerca di agire in favore della pace e della giustizia in ogni angolo del mondo, usando tutti i mezzi disponibili per raggiungere questi nobili obiettivi”.

Più evangelizzazione e meno diplomazia. Un “angolo del mondo” in cui è già fin d’ora evidente questa linea d’azione voluta da Benedetto XVI – anche con la nomina a segretario di stato del non diplomatico Bertone – è la Cina.

Un evidente distacco dalle cautele con cui si era sempre mossa la diplomazia vaticana nei confronti della Cina è stata ad esempio la decisione impolitica di Benedetto XVI di far cardinale il pugnace vescovo di Hong Kong, Giuseppe Zen Zekiun (vedi foto).

Ma di segnali di cambiamento ve ne sono stati anche altri. E altri ne verranno. L’intervista che segue fa il punto complessivo su come il pontificato di Benedetto XVI intende affrontare la questione cinese.

L’intervistato è padre Gianni Criveller, del Pontificio Istituto Missioni Estere. È uno dei maggiori esperti della Cina, vive a Hong Kong ed è testa d’uovo del “Holy Spirit Study Centre”, osservatorio di prim’ordine della Chiesa cinese.

L’intervista è stata raccolta da Gerolamo Fazzini per il numero di agosto-settembre 2006 della rivista del Pontificio Istituto Missioni Estere di Milano, “Mondo e Missione”:


”Prima la libertà, poi la diplomazia”

Intervista con Gianni Criveller


D. – Dal suo osservatorio di Hong Kong, come valuta gli ultimi sviluppi della questione dei rapporti diplomatici tra Pechino e la Santa Sede?

R. – Mi pare che l’enfasi sulla necessità di perseguire e raggiungere i rapporti diplomatici sia eccessiva. Se ne parla così tanto, almeno qui a Hong Kong, che a un non cattolico potrebbe sembrare che tali rapporti siano un elemento indispensabile della vita della Chiesa, qualcosa che essa deve perseguire a tutti i costi. Ma non è affatto così. La Chiesa esiste per l’evangelizzazione, e chiede solo libertà. I rapporti diplomatici hanno senso in funzione della missione evangelizzatrice della Chiesa, la quale non è un’entità politica fra le altre, né cerca affermazioni diplomatiche. La diplomazia non ha un potere magico, da sola non porta alla Chiesa la libertà di compiere pienamente la propria missione. Un’eccessiva fiducia nei risultati diplomatici rischia non soltanto di essere una vera illusione, ma anche un’indebita manipolazione delle priorità della Chiesa. Per il bene dell’evangelizzazione deve rimanere chiaro che la missione della Chiesa è spirituale.

D. – Quale significato attribuisce alla decisione di Benedetto XVI di far cardinale il vescovo Zen? Alcuni l’hanno letta come una mossa politica.

R. – L’elevazione al cardinalato del vescovo di Hong Kong, Giuseppe Zen Zekiun, è un fatto eminentemente ecclesiale. Il papa ha dimostrato il suo amore e rispetto per la Chiesa e il popolo cinese includendo almeno un prelato cinese nel collegio dei cardinali non ancora ottantenni. Il vescovo di Hong Kong, la più grande diocesi cinese al mondo, profondo conoscitore della Chiesa di Cina, e universalmente conosciuto per la sua coraggiosa testimonianza, era il naturale candidato per quel compito. Non elevare alla porpora Zen sarebbe stata, questa sì, una mossa politica, e incomprensibile da un punto di vista ecclesiale.

D. – L’attribuzione della porpora a Zen ha suscitato grande attenzione nelle comunità cinesi in tutto il mondo.

R. – Sì, ed è stata, secondo me, un’occasione di evangelizzazione. Molti cinesi, attraverso le suggestive immagini televisive provenienti da Roma, si sono accostati alla bellezza, solennità e universalità della Chiesa cattolica. Ci sono stati molte reazioni positive anche in Cina, dove il cardinale Zen è molto conosciuto nella comunità cattolica. Purtroppo i media della Repubblica Popolare Cinese hanno ignorato l’evento, e le autorità ne hanno impedito ogni celebrazione.

D. – Alcuni hanno detto che la Cina non poteva che reagire negativamente…

R. – E dunque si è sostenuto che le due ordinazioni episcopali illegittime, avvenute in aprile, rappresenterebbero una sorta di inevitabile ritorsione delle autorità cinesi…

D. – Ma sembra essere successo proprio questo! Da sei anni tutte le ordinazioni episcopali in Cina avevano la tacita e informale approvazione sia della Santa Sede che del governo. Perché la svolta negativa dello scorso aprile?

R. – A me pare che si sia ripetuto ciò che accadde tra il 1999 e il 2000. Anche allora si faceva un gran parlare di imminenti relazioni diplomatiche. Fu così che l’Associazione Patriottica dei cattolici cinesi, con l’avallo dei funzionari del Fronte Unito e dell’Ufficio Affari Religiosi, organizzò, il 6 gennaio 2000, l’ordinazione illegittima di cinque vescovi nella cattedrale di Pechino, con il pretesto di provvedere vescovi alle diocesi vacanti. Il vero obiettivo, in realtà, era di sabotare anche i più timidi tentativi di comunicazione tra funzionari di Pechino e della Santa Sede.

D. – Vero è che ci sono tante diocesi senza vescovo…

R. – La motivazione addotta dalle autorità cinesi circa la necessità di supplire alle diocesi vacanti, che pur ha impressionato qualcuno, non è sincera. Esistono già numerosi candidati approvati dalla Santa Sede che attendono il permesso del governo per accedere all’ordinazione. Esistono inoltre decine di vescovi legittimi – attualmente a capo delle comunità non registrate, dette anche “sotterranee” – che sarebbero perfettamente in grado di continuare a governare le loro diocesi, una volta che il governo riconoscesse loro dignità e diritti.

D. – Questa volta la Santa Sede ha reagito con energia alle ordinazioni illegittime. Il dialogo si è interrotto?

R. – La Santa Sede ha reagito in modo opportuno e adeguato con un comunicato diffuso il 4 maggio scorso, notando che un gesto così grave ferisce e addolora tutta la Chiesa, il Santo Padre in modo particolare. Nel comunicato si ricorda con forza che non è permesso manipolare e stravolgere un atto intimamente ecclesiale come l’ordinazione dei vescovi, successori degli apostoli di cui capo è Pietro. Ma il tono molto accorato del comunicato mostra che la Santa Sede crede nel dialogo.

D. – Ma secondo lei le autorità cinesi vogliono questo dialogo?

R. – A me pare che l’attuale leadership del partito e del governo non abbia ancora positivamente messo a tema la questione della libertà religiosa in generale, e delle relazioni con la Santa Sede in particolare. Già da tempo gli osservatori più attenti segnalano non solo la mancanza di progresso nel campo dei diritti dell’uomo, ma addirittura una regressione. Le riforme politiche e civili, auspicate e preconizzate negli anni Novanta, non sembrano arrivare mai. Intanto il regime si rafforza: il controllo e la repressione sono più mirati e sofisticati, ma ugualmente efficaci.

D. – Vede la situazione così male?

R. – A capo della Cina c’è Hu Jintao, il diretto responsabile della sanguinosa repressione in Tibet del marzo 1989. Questo leader non suscita certo speranze per la libertà religiosa, le libertà civili e il rispetto dei diritti dell’uomo. Incredibilmente, a meno di due anni dalle Olimpiadi, ci sono ancora vescovi e sacerdoti di cui non si ha notizia, o che sono in carcere, o confinati. A quando la loro liberazione?

D. – Intanto, però, Pechino pone la questione di Taiwan come un ostacolo all’accordo. E la rappresentanza della Santa Sede rimane a Taipei.

R. – La Santa Sede ha la sua nunziatura non presso Taiwan, ma presso la Repubblica di Cina. La nunziatura si trova a Taipei non per propria volontà, ma perché è stata espulsa dal territorio della Repubblica Popolare Cinese nel 1951. I rapporti diplomatici siglati da Pio XII con la Repubblica di Cina nel 1946 erano, appunto, rapporti con la Cina: la Santa Sede non ha mai scelto Taiwan in quanto tale, come entità separata dalla Cina, ma ha preferito rimanere comunque presente in Cina, nonostante l’espulsione. Ma già nel 1971 Paolo VI aveva ridotto lo status diplomatico del proprio rappresentante: da ben 35 anni a Taipei non vi è più un nunzio, ma un semplice incaricato d’affari. Già questo stato di cose dice che la disponibilità della Santa Sede al dialogo non è da oggi.

D. – Si legge che la Santa Sede sarebbe disposta ad abbandonare Taiwan, pur di risolvere l’annoso contrasto con Pechino.

R. – Invece io mi chiedo se sia giusto per la Santa Sede, dopo 55 anni di presenza, andarsene da Taiwan come hanno fatto quasi tutti gli altri governi. Perché trattare Taiwan come un “retaggio storico”, come un incidente di percorso di cui sbarazzarsi? Certo Taiwan è piccola e la Cina è grande: ma è davvero valido questo argomento? A Taiwan la Chiesa è libera e in pace. Vi si respira libertà e pluralismo. Taiwan è la prima democrazia nella storia della nazione cinese, e molti cercano di denigrare questa significativa conquista civile. L’aver vissuto a Taiwan per alcuni anni certamente mi porta ad essere favorevole a quella popolazione. Ma c’è poca simpatia per Taiwan nel mondo: pochi sembrano interessati a rispettare il parere dei suoi cittadini, a conoscere la loro storia, fatta anche di sofferenze e massacri. Non è giusto considerare Taiwan solo una pedina del grande scacchiere cinese.

D. – Non vede una via d’uscita, dunque?

R. – In realtà il regime cinese potrebbe venire a patti con la Santa Sede proprio allo scopo di isolare ulteriormente Taiwan. La questione taiwanese, infatti, per il governo cinese è una vera priorità. Io credo che la Santa Sede affronterà la questione di Taiwan con senso di responsabilità, e non in termini di opportunità politica, come gli altri governi. Gli abitanti di Taiwan, cattolici e no, non dovranno sentirsi, neanche per un istante, abbandonati dalla Chiesa. Andrebbero evitate, dunque, da parte di uomini di Chiesa, espressioni del tipo “immediata disponibilità a trasferirsi a Pechino” oppure “dolorosa necessità di abbandonare Taiwan”. In una questione tanto delicata e sensibile, anche il linguaggio è importante. Certamente da parte della Santa Sede non ci saranno cambiamenti nelle relazioni con i cattolici di Taiwan. E, credo, la Santa Sede manterrà vivi i contatti umani, culturali, religiosi e sociali con la popolazione e le autorità di Taiwan. In fin dei conti, spetta a Taipei e Pechino trovare le soluzioni ai loro contrasti.

D. – Torniamo al nodo centrale: la libertà della Chiesa.

R. – È questa la questione fondamentale, ancora irrisolta. Esponenti autorevoli della Chiesa, compreso il cardinale Zen, hanno recentemente ribadito con accresciuta chiarezza che il vero ostacolo con la Cina è la mancanza di libertà religiosa. Su questo punto la Santa Sede non sembra affatto disposta a cedimenti o compromessi tali da umiliare le prerogative della Chiesa stessa.

D. – Ma un qualche accordo andrà trovato, o no?

R. – I miei colleghi del “Holy Spirit Study Centre” di Hong Kong, che conoscono la Chiesa in Cina come pochi altri, condividono in modo forte la seguente convinzione: nessun accordo è meglio che un cattivo accordo. A mio parere, il vero progresso della Chiesa in Cina, il progresso sul campo, assieme al progresso dell’evangelizzazione, viene, più che dalle garanzie di formali rapporti diplomatici, dalla libertà e dall’unità dei vescovi. La priorità dunque sono proprio loro, i vescovi, in quanto essenziali per la vita della Chiesa.

D. – Che cosa possono fare i vescovi?

R. – Recentemente è venuto a mancare l’arcivescovo di Xi’an, Antonio Li Duan. Una persona che ci ha mostrato quanto bene può fare un vescovo buono, zelante, libero, forte, coraggioso, rispettato, in comunione con il Santo Padre e con i suoi fratelli nell’episcopato. È dunque importante che eventuali accordi consentano ai vescovi di salvaguardare, anzi di rafforzare la loro posizione.

D. – Lo considera un punto non negoziabile?

R. – Esattamente! La nomina dei vescovi, che sono pastori della comunità ecclesiale, spetta al Santo Padre. La Santa Sede può certamente auspicare che i vescovi eletti ricevano il consenso delle Chiese locali, e persino delle autorità civili locali. Ma questo non deve assolutamente assurgere a limitazione delle prerogative del papa, o a un diritto di trattativa o di veto sui candidati. Oltre tutto, solo così, solo con questa chiarezza, si può ottenere la riconciliazione delle comunità cattoliche “sotterranee” con quelle registrate dal governo. Un cedimento su questo punto rischia, a mio parere, di allungare i tempi della riconciliazione interna della Chiesa cinese, o di aprire nuove ferite intraecclesiali. I vescovi della Cina devono potersi riunire senza la presenza di estranei; stabilire liberamente l’ordine del giorno della loro riunione; decidere quello che desiderano; comunicare ai fedeli i loro messaggi. Non riesco a immaginare eventuali accordi diplomatici che non garantiscano libertà almeno ai vescovi. Essi dovrebbero poter recarsi a Roma per la visita “ad limina”, come tutti gli altri vescovi del mondo. Non dovrebbe più accadere, come purtroppo è già successo due volte, che il papa inviti vescovi cinesi a un sinodo a Roma ed essi ne siano impediti. Il papa dovrebbe poter comunicare direttamente e liberamente con i vescovi della Cina, nominarne alcuni come membri dei dicasteri romani e anche elevarne alla dignità del cardinalato.

D. – Lei sta alzando non poco il prezzo dell’accordo…

R. – Ma la Chiesa funziona così in tutto il mondo! La libertà dei vescovi dovrebbe essere il minimo. In realtà sono molti di più gli aspetti della vita ecclesiale stravolti dalla politica religiosa del governo cinese. Il più grave è l’abusiva infiltrazione in tutte o quasi le strutture della Chiesa dell’Associazione Patriottica dei cattolici cinesi, che è, in ultima analisi, uno strumento della politica del Fronte Unito del Partito Comunista. Inoltre c’è il controllo sulla vita quotidiana della Chiesa esercitato dai funzionari dell’Amministrazione Statale per gli Affari Religiosi (così si chiama, attualmente, l’Ufficio Affari Religiosi). Ci sono molte restrizioni arbitrarie che colpiscono l’ammissione e l’insegnamento nei seminari, la libera predicazione in chiesa dell’insegnamento morale, il battesimo di bambini nelle famiglie cristiane, il libero associazionismo cattolico… Mi rendo conto, però, che su queste materie è impensabile ottenere garanzie dall’attuale regime.

D. – E dunque?

R. – Non propongo un libro dei sogni: ribadisco che la libertà dei vescovi sarebbe una ottima conquista per un accordo. Infatti se i vescovi sono davvero liberi, uniti tra loro e con il papa, avranno l’autonomia, la saggezza e la forza per governare la Chiesa e per migliorare tutti gli ambiti della vita ecclesiale. Questa è, mi pare, una delle più preziose eredità dell’arcivescovo Li Duan.

D. – La priorità rimane insomma la libertà d’evangelizzazione?

R. – Sono convinto che l’evangelizzazione sia il grande compito della Chiesa oggi in Cina. Li Duan, uomo di grande ottimismo e speranza, riteneva questo un periodo di grande opportunità per evangelizzare. Ma neppure lui si nascondeva la gravità delle sfide: la secolarizzazione con il conseguente affievolimento della fede tradizionale; lo scarso annuncio cattolico ai non cristiani, a fronte di una grande crescita di gruppi evangelici; l’abbandono di giovani preti; il calo di vocazioni, già grave nelle aree metropolitane. La Chiesa di Cina deve poter essere in grado di affrontare le nuove sfide, deve poter disporre dei mezzi per poterlo fare con efficacia. A questo proposito, mi si lasci ricordare che il diritto all’evangelizzazione include la possibilità che i missionari collaborino con la Chiesa cinese. La Chiesa cattolica è universale, ha molti carismi e servizi, e lo deve essere anche in Cina. I missionari sono presenti in gran numero a Hong Kong, e così numerose congregazioni religiose e uno straordinario servizio sociale, quello della Caritas. Perché mai ciò che è permesso a Hong Kong, che è parte della Cina, è impensabile nella Cina continentale? La libera attività missionaria non è un privilegio ma un diritto: solo così la Chiesa è veramente se stessa.

D. – Un’ultima domanda. L’accordo diplomatico comporterebbe che Roma in qualche misura riconosca anche il regime cinese, questo regime?

R. – È chiaro che la Santa Sede non è responsabile dei regimi o dei governi che sono a capo delle nazioni. Ma l’esperienza storica ci mostra che i rapporti diplomatici sono sempre stati, inevitabilmente, gravidi di implicazioni di lunghissima durata. C’è chi considera l’instaurazione di relazioni diplomatiche con un certo regime come anche una specie di riconoscimento dello stesso, o persino di compromesso. È chiaro che la Santa Sede non vuole ora, né ha voluto in passato, assolvere regimi dittatoriali. Ma il problema c’è, e porta inevitabilmente a interpretazioni discordi sulle conseguenze delle relazioni diplomatiche. Gli storici si chiedono: i rapporti con certi regimi fascisti – per esempio nel passato in Italia, in Germania, in Cile – o con regimi comunisti – nell’Est europeo come a Cuba – rafforzano la tenuta di tali regimi? Oggi tendiamo a giudicare negativamente i compromessi della Chiesa con i poteri oppressivi. Li inquadriamo nei contesti storici, ma non ne siamo orgogliosi.

D. – E con la Cina, allora?

R. – Io sono interiormente persuaso che il giudizio della storia sul regime comunista cinese, e non solo del periodo maoista, sarà complessivamente molto negativo. Anche da parte della maggioranza del popolo cinese. Non mi metterò ora, come sarei tentato di fare, a elencare i crimini compiuti dal maoismo e quelli dell’attuale regime. Verrà un giorno in cui il comunismo, anche in Cina, diverrà cosa del passato, e sarà giudicato assai severamente, anzi con vergogna. La Chiesa cattolica è stata ed è vittima del regime comunista cinese. Per comprensibile prudenza, la Chiesa non ha ancora adeguatamente onorato i numerosi martiri e confessori cinesi, vittime dei crimini comunisti. C’è stata pure qualche eccezione, come quella dell’elevazione a cardinale nel 1988 dell’eroico arcivescovo di Shanghai, Ignazio Kung Pinmei. Ma la drammatica testimonianza dei cattolici della Cina deve essere conosciuta più chiaramente dalla Chiesa universale, con o senza un accordo diplomatico col regime cinese.