(www.chiesa) Il passato ad occidente il futuro ad oriente?

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Missione Asia. Con la Corea del Sud a far da laboratorio


Dopo il summit sulla Cina, l’udienza al primo ministro del Vietnam: Benedetto XVI vede nell’Estremo Oriente il futuro terreno d’espansione della Chiesa. Un’intervista con l’arcivescovo di Seul

di Sandro Magister

ROMA, 26 gennaio 2007 – Per la seconda volta in pochi giorni Benedetto XVI ha richiamato l’attenzione di tutti sul presente e sul futuro dei cristiani nell’Asia dell’Est.

Giovedì 25 gennaio ha ricevuto (vedi foto) il primo ministro vietnamita Nguyen Tan Dung, primo alto esponente del regime di Ho Chi Minh City a recarsi in Vaticano. Il Vietnam è uno dei paesi asiatici con la più alta percentuale di cattolici, preceduto solo dalle Filippine. E la Chiesa vi è particolarmente viva, nonostante l’assenza di libertà religiosa.

Pochi giorni prima, il 19 e 20 gennaio, Benedetto XVI aveva convocato in Vaticano una riunione sulla Chiesa cattolica in Cina. Il comunicato finale, oltre all’annuncio di una prossima lettera del papa ai cattolici cinesi, ha messo in evidenza l’eroismo di molti fedeli, sacerdoti e vescovi, il loro non cedere a compromessi, l’avvenuto ritorno alla comunione col papa della “quasi totalità” dei vescovi illegittimamente insediati dal regime comunista in contrapposizione a Roma e, infine, la “sorprendente crescita della comunità ecclesiale”.

In Cina vi sarebbero attualmente più di 12 milioni di cattolici. Nel 1949, prima dell’avvento di Mao Zedong, erano 3 milioni. Ogni anno vi si aggiungono circa 150 mila nuovi battezzati, in maggioranza adulti. Molti di questi provengono dai ceti imprenditoriali e dalle università.

Un altro paese dell’Estremo Oriente in cui la Chiesa cattolica è particolarmente fiorente è la Corea del Sud. Negli ultimi dieci anni i fedeli sono quasi raddoppiati e sono attualmente il 10 per cento della popolazione. Qui, a differenza che in Vietnam e in Cina, la libertà religiosa è assicurata, il benessere è diffuso, e le sfide che la Chiesa si trova ad affrontare sono più simili a quelli dell’Occidente.

Nell’intervista riprodotta più sotto, l’arcivescovo di Seul, cardinale Nicholas Cheong Jin-suk, descrive con molta efficacia la situazione della Chiesa cattolica in Corea del Sud, con notizie anche sull’altra Corea, quella dittatoriale del Nord.

Cheong è uno dei tre vescovi dell’Asia dell’Est che Benedetto XVI ha fatto cardinali il 24 marzo 2006. Gli altri due sono quello di Manila, Gaudencio Borbon Rosales, e quello di Hong Kong, Giuseppe Zen Ze-kiun.

Già Giovanni Paolo II aveva additato l’Asia alla Chiesa come “il nostro comune compito per il terzo millennio”. E Benedetto XVI si mostra molto deciso a proseguire su questa strada.

Oggi l’Asia è il continente con il più piccolo numero di cattolici. Ma con l’emergere di grandi nazioni come l’India e la Cina sarà in futuro l’asse del mondo. Alcune delle sue civiltà, ad esempio il Giappone, si sono mostrate quasi impermeabili all’espansione missionaria della Chiesa. Ma per altre immense regioni dell’Asia non sempre è stato così. Fin dalle origini il cristianesimo si è proiettato ad Oriente. Già nei tempi apostolici si registrava una sua presenza in India. Successivamente, dalla Siria, il cristianesimo “nestoriano” si propagò in Asia centrale fino alla Cina.

Oggi, se solo si allargassero gli spazi della libertà religiosa, la Chiesa cattolica potrebbe in effetti tornare ad espandersi in molti paesi dell’Asia. A condizione che sia viva la sua volontà missionaria.

Va inoltre tenuta presente una insidia che è stata messa in luce più volte dal cardinale Camillo Ruini, nelle sue riflessioni di geopolitica religiosa. Se l’islam ha l’effetto di “sollecitare di rimbalzo il risveglio della nostra identità cristiana”, invece l’impatto sui cristiani di altre culture e civiltà asiatiche potrebbe essere opposto:

“Poiché alcune di queste nazioni, ad esempio la Cina, hanno una tradizione culturale in cui la religione, nel senso di fede in un Dio personale, ha da gran tempo un ruolo assai minore che nelle tre religioni monoteistiche, probabilmente tra non molti anni dovremo confrontarci con nazioni e civiltà che non ci stimoleranno in maniera diretta, come l’islam, ad approfondire la nostra identità religiosa, e forse spingeranno piuttosto nel senso di una ulteriore secolarizzazione, intesa come denominatore comune di una civiltà in qualche modo planetaria”.

Anche sotto questo profilo la Corea del Sud è un laboratorio di grande importanza, per il presente e il futuro della Chiesa cattolica in Asia.

Ecco qui di seguito l’intervista all’arcivescovo di Seul, raccolta da Gianni Cardinale e pubblicata il 22 novembre 2006 sul quotidiano della conferenza episcopale italiana, “Avvenire”:


“A Seul siamo il 14 per cento e…”

Intervista con il cardinale Nicholas Cheong Jin-suk


“Negli ultimi dieci anni la Chiesa cattolica in Corea è passata da meno di tre milioni a oltre cinque milioni di fedeli”, racconta il cardinale Nicholas Cheong Jin-suk, dal 1998 arcivescovo di Seul. “Anche le vocazioni continuano ad essere fiorenti. Ormai siamo il 10 per cento della popolazione, la percentuale più alta in Asia dopo le Filippine e il Vietnam. A Seul siamo il 14 per cento e abbiamo lanciato l’Evangelization Twenty Twenty Movement, con lo scopo di salire al 20 per cento per il 2020. Particolarmente promettente è l’attività missionaria tra i giovani soldati, dove i cattolici nell’ultimo anno hanno raggiunto il 18 per cento”.

D. – Queste le luci della Chiesa coreana. E le ombre?

R. – Tutta la società coreana vive anche situazioni negative. E la Chiesa cattolica non è immune da queste tendenze che sono molto simili a quelle che vivono la società e la Chiesa in Occidente.

D. – In che senso?

R. – In passato le contraddizioni più gravi della nostra società erano di natura politica ed economica. E il mio predecessore, il cardinale Stephen Kim Sou-hwan, era celebre per il suo parlare alto e chiaro contro la dittatura militare e a favore delle classi più sfruttate. Anche oggi la Chiesa continua a stare dalla parte dei più poveri, dei più deboli. Ma è indubbio che è arrivata la democrazia con un certo benessere e quindi le sfide prioritarie sono diventate altre.

D. – Quali?

R. – Penso alla difesa della vita umana fin dal suo concepimento e alla opposizione netta ad ogni tentativo di manipolazione genetica. Purtroppo il nostro paese è diventato famoso nel mondo per le attività di uno pseudoscienziato, che ha manipolato oltre duemila embrioni per ricerche che poi si sono rivelate false. Un’altra sfida che la nostra società e la nostra Chiesa si trovano ad affrontare è quella che riguarda la famiglia. Attualmente un matrimonio su tre finisce con il divorzio dopo soli tre anni. Senza contare il problema della gioventù assediata da una cultura di massa intrisa di sesso e violenza. Rispetto a tutti questi temi la Chiesa cattolica a Seul, ma anche altrove, è in prima linea per la diffusione del Vangelo e per la difesa di quei valori cristiani che sono preziosi per la felicità personale, ma anche per una buona convivenza.

D. – Qual è la situazione religiosa nella Corea del Nord?

R. – Prima del 1949, i cattolici erano 55mila. Quando scattò la persecuzione tanti riuscirono a fuggire, ma molti vennero uccisi. Oggi qualcuno dice che i cattolici siano ancora mille, qualcun altro afferma invece che potrebbero essere tremila. Non si hanno notizie di sacerdoti sopravvissuti, mentre l’Annuario Pontificio continua a segnalare come “disperso” quello che all’epoca era il vescovo di Pyongyang, monsignor Francis Hong Yong-ho, che oggi avrebbe cento anni. La Santa Sede lo fa per segnalare la situazione drammatica che ha vissuto e che continua a vivere la Chiesa nordcoreana.

D. – Eppure a Pyongyang esiste una chiesa.

R. – Più che chiesa sarebbe meglio definirla edificio. È stata infatti costruita in occasione delle Olimpiadi di Seul dal regime comunista per cercare di illudere il mondo che lì i cattolici sono liberi di esercitare la propria fede. Niente di più falso, ovviamente. Tanto è vero che il regime si è sempre opposto alla presenza di un sacerdote residenziale, mentre continua ad appoggiare una sedicente Associazione cattolica guidata da un laico, Jang Jae-yon. È curioso notare poi come a Pyongyang vi siano anche due edifici protestanti e, da poco, un edificio ortodosso, nonostante non risultano esserci né cristiani protestanti, né ortodossi.

D. – Recentemente la Caritas sudcoreana ha ricevuto l’incarico di coordinare tutti gli aiuti diretti verso il Nord. Perché questa decisione?

R. – La Corea del Nord, che patisce la fame per le politiche sciagurate del regime, ha ricevuto e riceve aiuti da molte diocesi e congregazioni religiose. Ma finora mancava un coordinamento tra queste realtà. E questa mancanza di coordinamento a volte poteva venire strumentalizzata dal regime. D’ora in poi invece tutto dovrà passare per la Caritas coreana, che conosce bene la realtà e sa come fare in modo che gli aiuti vadano effettivamente a chi ne ha bisogno.

D. – Come valuta l’esperimento nucleare che alcune settimane fa si sarebbe compiuto in Corea del Nord?

R. – La maggior parte della popolazione ritiene che seppure il regime nordcoreano avesse effettivamente una bomba atomica non la userebbe mai contro di noi. Le persone più avvertite invece hanno il timore che questo possa avvenire. La Chiesa cattolica, come il governo sud coreano, è per il dialogo, per il negoziato e per l’uso di mezzi pacifici. Tuttavia il dialogo, a mio avviso, deve essere molto vigile. E va sempre accompagnato dalla preghiera.

D. – Dalla Corea viene il nuovo segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ex ministro degli esteri di Seul. Lo conosce?

R. – È un’ottima persona. Ha un grande senso religioso, benché non aderisca ad alcuna religione. Tuttavia, ha detto che se dovesse praticarne una, sceglierebbe quella cattolica: forse perché un suo zio paterno, che ebbi come valido collaboratore quando ero vescovo di Cheongju e che manifestava orgoglio per il suo nipotino, era un fervente cattolico.