(www.chiesa) Aiutiamo i cristiani dell'Iraq vittime innocenti

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Ultimo appello: salvate il cristiano d’Iraq

È
l’unico paese dove ancora si celebrano le liturgie in aramaico, la
lingua di Gesù. Ma lì la cristianità rischia di morire. Uccisioni,
aggressioni, sequestri. E ora anche la "jiza", la tassa storicamente
imposta dai musulmani ai sudditi "infedeli", quelli che ancora non sono
fuggiti all’estero

di Sandro Magister ROMA, 28 maggio 2007 – Nella guerra che insanguina l’Iraq, combattuta
principalmente da gruppi musulmani contro altri musulmani e gli
"infedeli", i cristiani iracheni sono gli unici che non utilizzano né
armi né bombe, nemmeno per difendersi. Non esistono in Iraq milizie
cristiane armate. Di fatto essi sono il gruppo più vulnerabile e
perseguitato. Nel 2000 erano più di un milione e mezzo, il 3 per cento
della popolazione. Oggi si stima che siano rimasti in meno di 500 mila.

In un comunicato ufficiale diffuso il 24 maggio, il governo
iracheno ha promesso protezione alle famiglie cristiane minacciate e
cacciate da gruppi terroristici islamici. Anche alcuni esponenti
musulmani hanno espresso solidarietà. Il passo del governo – privo però
di iniziative concrete – fa seguito al drammatico appello lanciato
domenica 6 maggio da Emmanuel III Delly, patriarca dei caldei, la più
cospicua comunità cattolica irachena, nell’omelia della messa celebrata
nella chiesa di Mar Qardagh, ad Erbil, nel Kurdistan.

La regione curda, a settentrione di Baghdad, è la sola in Iraq dove
oggi i cristiani vivono in relativa sicurezza. Ad Erbil è stato
trasferito il seminario caldeo di Baghdad, il Babel College con la
biblioteca, i cui edifici, nella capitale, sono divenuti piazzaforte
delle truppe americane, nonostante le proteste del patriarcato.

Nelle città curde di Erbil, Zahu, Dahuk, Sulaymaniya, Ahmadiya e
nei villaggi cristiani del circondario affluiscono i profughi cristiani
dal centro e dal sud del paese.

Poco più a nord, però, nella regione di Mosul e nella piana di
Ninive, il pericolo si fa di nuovo palpabile. Qui è la culla storica
del cristianesimo in Iraq. Vi sono chiese e monasteri che risalgono ai
primissimi secoli. In alcuni villaggi si parla ancora un dialetto
aramaico chiamato sureth e nelle liturgie si usa l’aramaico, che era la
lingua di Gesù. Sono presenti comunità di vari riti e dottrine: caldei,
siro-cattolici, siro-ortodossi, assiri d’Oriente, armeni cattolici e
ortodossi, greco-melchiti.

I villaggi cristiani sono però circondati da popolazioni musulmane
ostili. E ancor più pericolosa è la vita dei cristiani nella capitale
della regione, Mosul. I sequestri di persona sono frequentissimi. Il
rilascio avviene dopo che i famigliari hanno versato una somma tra i 10
e i 20 mila dollari, oppure hanno accettato di cedere le loro case e
lasciare la città. Ma il sequestro può anche finire nel sangue. Nel
settembre del 2006, dopo il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, un
gruppo denominato "Leoni dell’islam" sequestrò padre Paulos Iskandar,
siro-ortodosso. I rapitori pretesero che trenta fogli di scuse per le
offese arrecate all’islam fossero affissi sulle chiese di Mosul. Poi lo
decapitarono. Lo stesso giorno, a Baghdad, fu ucciso un altro
sacerdote, padre Joseph Petros. Disse una suora all’agenzia vaticana
Fides: "Gli imam nelle moschee predicano che uccidere un cristiano non
è reato. È una caccia all’uomo".

Pascale Warda, una cristiana assira, ministro dell’immigrazione nel
penultimo governo iracheno, crede che sia necessario creare una
provincia autonoma nella piana di Ninive, una specie di area protetta
non solo per i cristiani ma anche per altre minoranze religiose come
gli yazidi, cultori di un’antichissima religione prezoroastriana. Ma
l’intensificarsi delle aggressioni da parte di musulmani che vivono
nella stessa regione rende l’ipotesi impraticabile. Lo scorso aprile,
22 yazidi sono stati fatti scendere da un bus e uccisi su una strada
vicino a Mosul. Nel 2005, un assalto terrorista massacrò i quattro
assiri che scortavano la ministro.

A Mosul gruppi islamici hanno cominciato ad esigere dai cristiani
il pagamento di una tassa, la jiza, il tributo storicamente imposto dai
musulmani ai loro sudditi cristiani, ebrei e sabei che accettavano di
vivere in regime di sottomissione, come "dhimmi".

Ma è soprattutto a Baghdad che la jiza è imposta ai cristiani in
modo sempre più generalizzato. Nel quartiere di Dora, 10 chilometri a
sud-ovest della capitale, ad alta concentrazione di cristiani, gruppi
legati ad al Qaeda hanno instaurato un sedicente "Stato islamico
nell’Iraq" e riscuotono sistematicamente la tassa, fissata tra i 150 e
i 200 dollari l’anno, l’equivalente del costo vita di un mese per una
famiglia di sei persone. L’esazione del tributo si sta estendendo ad
altri quartieri di Baghdad, verso al-Baya’a e al-Thurat.

Ad alcune famiglie cristiane di Dora è stato detto che possono
restare solo se danno in sposa una figlia a un musulmano, in vista di
una progressiva conversione all’islam dell’intera famiglia. Una fatwa
vieta di portare al collo la croce. Quanto alle chiese, avvertimenti a
colpi di granata hanno imposto di togliere le croci dalle cupole e
dalle facciate. A metà maggio, la chiesa assira di San Giorgio è stata
data alle fiamme. Sette sacerdoti sono stati finora sequestrati nella
capitale. L’ultimo, nella seconda metà di maggio, è stato padre Nawzat
Hanna, cattolico caldeo.

Secondo una stima del governo iracheno, la metà dei cristiani hanno
lasciato Baghdad e i tre quarti se ne sono andati via da Bassora e dal
sud. Chi non si ferma nel Kurdistan se ne va all’estero. Si calcola che
in Siria vi siano fino a 700 mila cristiani arrivati dall’Iraq,
altrettanti in Giordania, 80 mila in Egitto, 40 mila in Libano. I più
restano lì bloccati, senza assistenza né diritti, in attesa di un
improbabile visto per l’Europa, l’Australia, le Americhe.

In Iraq i cristiani sono tradizionalmente presenti nelle
professioni. Molti sono medici e ingegneri. Nelle scuole sono – erano –
il 20 per cento degli insegnanti. Sono attivi nei settori informatico,
edilizio, alberghiero, agricolo specializzato. Gestiscono radio e tv.
Fanno i traduttori e gli interpreti, professione particolarmente
vulnerabile che ha già contato trecento vittime.

La costituzione irachena stabilisce per tutte le religioni una
parità di diritti che non ha eguali nelle legislazioni degli altri
paesi arabi e musulmani. Ma la realtà è opposta. Ha scritto la rivista
di geopolitica "Limes" in un servizio sul suo ultimo numero, il terzo
del 2007:

"L’annientamento del piccolo grande popolo cristiano iracheno,
erede della speranza dei profeti, corrisponderebbe alla fine della
possibilità che il nuovo Iraq diventi una nazione libera e
democratica".

E sarebbe una drammatica sconfitta anche per la Chiesa.