Joseph Ratzinger, Cantate al Signore un canto nuovo. Saggi di cristologia e liturgia, Jaca Book, Milano 2005, pp. 212, € 16
È nota la passione per la liturgia che da sempre anima il cardinale Joseph Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI, e i suoi sforzi – sulla scia, del resto, di importanti pronunciamenti magisteriali dei predecessori, come l’enciclica Ecclesia de Eucharistia, con cui il servo di Dio Giovanni Paolo II (1978-2005) ha idealmente chiuso il suo lungo pontificato – volti alla retta comprensione e alla degna celebrazione della santa messa e dei sacramenti, nonché al recupero della dimensione contemplativa e trascendente dei sacri riti, messa in ombra da storpiature sociologiche in base alle quali la liturgia sarebbe qualcosa da «animare» piuttosto che da ricevere dall’alto. È tuttavia inesatto pensare che dietro tali preoccupazioni ci siano prevalentemente ragioni estetiche o ansie rubriciste. Lex orandi lex credendi: il modo in cui preghiamo chiama in causa direttamente Colui che preghiamo. Ovvero le modalità del culto che rendiamo a Gesù di Nazareth, in parte esprimono l’idea che abbiamo di Lui e rispondono alla Sua stessa domanda: «Voi chi dite che io sia? » (Mt 16,14). Il fondatore dell’ennesima nuova filosofia? Un rivoluzionario? Un simpaticone col quale passare un’ora la domenica? Oppure il Cristo, il Figlio del Dio vivente?
Proprio per questo Joseph Ratzinger pone all’inizio di un libro incentrato sulla liturgia e sulla musica liturgica alcuni scritti la cui impostazione a prima vista avrebbe maggior senso in ambito più strettamente cristologico. Tuttavia il fatto che tale collocazione apparentemente insolita non sia un semplice collage di testi diversi, è chiaro sin dalle parole della Prefazione (pp. 9-10): «[…] nella liturgia si tratta della nostra comprensione di Dio e del mondo, del nostro rapporto a Cristo, alla Chiesa e a noi stessi. Nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa» (p. 9); e, ancor più specificamente: «[…] tutte le domande sui criteri del rinnovamento liturgico ultimamente si riassumono nella domanda: chi ritenete che sia il Figlio dell’uomo? (cfr. Mt 16, 14s)» (p. 10). La sezione «cristologica», intitolata «Gesù Cristo, centro della fede e fondamento della nostra speranza» (pp. 13-69), si compone un unico lungo capitolo, articolato in tre parti. La prima «Gesù Cristo oggi» prende le mosse dal fatto che in ogni epoca si tende a evidenziare alcune caratteristiche di Cristo piuttosto che altre, che costituiscono così il punto di partenza più comune per incontrarlo. «Ma affinché io mi accosti al Cristo totale e non a una parte percepita per caso, devo ascoltare il Cristo di ieri, come si mostra nelle fonti, soprattutto nella Sacra Scrittura» (p. 22). Come nel corso della storia si sono susseguite varie immagini del Cristo «oggi» – dal buon pastore, al Pantocrator, dal Cristo trionfante al Cristo sofferente -, così in epoca contemporanea è molto diffusa la triade: Cristo liberatore, Cristo povero, Cristo che dà la vita. «Ciascuna di queste immagini porta in primo piano cose essenziali della figura di Gesù; ciascuna ci pone questioni fondamentali […]. Intorno a tutte queste domande esiste una forte controversia, la quale come sempre è feconda quando non la si vuole risolvere unicamente dall’oggi, ma lo sguardo resta rivolto, a un tempo, al Cristo ieri e all’eternità» (p. 24). Ratzinger la affronta mediante l’integrazione di questa triade moderna con la triade giovannea che descrive Cristo come via, verità e vita (cfr. Gv 14,6). L’immagine del Cristo liberatore è facilmente accostabile a Cristo come via, come esodo verso la libertà, a partire dalla storia di Israele; nell’episodio della trasfigurazione la parola «esodo» è riferita all’imminente passione di Gesù: «Possiamo dunque dire: l’ “esito” di Gesù in Gerusalemme è l’esodo autentico e definitivo, in cui Cristo percorre la via verso l’aperto e diventa egli stesso per l’umanità la via verso l’aperto. […] La Terra promessa in cui egli entra e a cui conduce è stare “alla destra di Dio” (cfr. Mc 12,36)» (p. 27). L’errore di certa teologia moderna – e della teologia della liberazione in specie – sta quindi nel restringere la liberazione portata da Cristo entro gli schemi dell’Antico Testamento invece di comprendere quest’ultimo alla luce di Cristo. Inoltre questo esodo non può fare a meno della croce, pena, ancora una volta, la riduzione della redenzione cristiana ad utopia terrena – ed è per questo che Pietro viene rimproverato aspramente dal Maestro, che lo definisce addirittura «Satana» (Mt 16,23). L’esodo cristiano conduce, in pratica, dalla croce alla gloria e si identifica, in ultima analisi, con la conversione.
È apparentemente molto più difficile accostare Cristo povero a Cristo che dice di essere «la verità»; sia per il diffuso rifiuto di una verità oggettiva – «Quid est veritas?» (Gv 18,38) chiede lo scettico Pilato a Cristo, ed è la stessa domanda dell’uomo contemporaneo -, sia per la corrente associazione mentale tra la verità e l’oppressione, il monopolio, il potere. Eppure, in Gesù Cristo, la verità su Dio e sull’uomo si manifesta in tutt’altra forma, mediante il «[…] paradosso della verità divina, che splende come estrema povertà e impotenza proprio nel Crocifisso: egli è l’icona di Dio, perché è l’apparire dell’amore, e perciò la croce è la sua “glorificazione”» (p. 35), svelando tutta la grandezza – e quindi la reale essenza – dell’amore del Padre.
L’ultima immagine moderna infine, coincide con quella giovannea: Cristo stesso si definisce «la vita». Ma, l’apparente identità non nasconde forse una divaricazione tra la sete di vita dell’uomo moderno e la risposta offerta da Gesù Cristo? «Il fanatico desiderio di vita, che incontriamo in tutti i continenti, ha fatto sorgere un’anticultura della morte, che diventa sempre più la fisionomia del nostro tempo» (p. 36): questo desiderio si affida a sesso, droga e armi, generando poi aborto, guerre e malattie. Dall’altra parte si ripongono tutte le speranze nel progredire della ricerca medica, la quale tuttavia non può che posticipare la morte. «Due cose sono dunque all’opera: da una parte il desiderio verso una pienezza, un’infinità che contrasta con i limiti della nostra vita; dall’altra la volontà di avere tutto questo semplicemente senza dolore, senza sforzo» (p. 37). Solo l’essere inseriti in Dio può colmare questo desiderio di pienezza, ma per farlo occorre accettare la dinamica divina del «dare»: «È il voler entrare nell’amore, ed è l’entrare nella verità. E precisamente questo è la vita» (p. 38)
La seconda parte del capitolo cristologico, prende le mosse dal rapporto tra «Gesù Cristo e la Chiesa. Problemi attuali di teologia e conseguenze per la catechesi». Gesù è accettato facilmente, e talvolta diventa anche una moda; la Chiesa invece è oggetto di rifiuto. In realtà «[…] dietro l’ampiamente diffusa contrapposizione tra Gesù e la Chiesa si nasconde ultimamente un problema cristologico. La vera e propria contrapposizione a cui ci dobbiamo opporre non viene espressa dalla formula “Gesù sì, Chiesa no”; dovrebbe piuttosto venir descritta con la frase “Gesù sì, Cristo no”, oppure “Gesù sì, Figlio di Dio no”» (p. 39). Da questa tendenza a dimenticare la divinità di Gesù Cristo deriva necessariamente l’incomprensione della sua opera di redenzione dal peccato e della missione della Chiesa, attraverso la quale ciascuno può accedere alla redenzione; quindi la riduzione dei sacramenti a puro rituale comunitario: «A partire da qui si spiega ancora una volta la fondamentale mutazione nella comprensione di culto e liturgia verificatasi negli ultimi tempi (da lungo preparati): il loro soggetto primo non è Dio, e nemmeno Cristo, ma il “noi” dei celebranti» (p. 42).
Infine Ratzinger si sofferma su «La potenza di Dio, nostra speranza». Cristo stesso riceve un potere («in cielo e in terra», Mt 28,18) maggiore di quello che aveva rifiutato dalle mani del diavolo (Mt 4,8-10). La chiave per accedere a questa speranza è il rapporto con Dio stesso, attraverso l’obbedienza alla sua Parola, che deve necessariamente incarnarsi nell’obbedienza alla Chiesa, l’unico luogo dove la Scrittura è viva. «Una giusta interpretazione della Scrittura presuppone che noi la leggiamo là dove essa ha fatto e fa storia, dove essa è non testimonianza del passato ma forza viva del presente: nella Chiesa del Signore e con i suoi occhi, gli occhi della fede» (p. 66). E così nell’accesso ai sacramenti e alla Chiesa occorre vedere, al di là degli aspetti più o meno simpatici della sua pars humana, l’accesso alla stessa potenza di Dio: «Ma quale evento rabbrividente è che un uomo possa pronunciare sulla sua bocca l’io di Dio! Egli lo può solamente a partire da quella piena potestà che il Signore ha dato alla sua Chiesa. Senza questa piena potestà egli è un operatore sociale, e niente più. Ciò è degno di onore, ma noi nella Chiesa cerchiamo di più, cerchiamo una speranza più grande, che proviene da un più grande potere» (p. 68).
La seconda sezione del libro è invece dedicata a «Un culto spirituale (Rm 12,1). Liturgia e cristologia». Il primo capitolo di questa parte è incentrato sul giorno del Signore: «La resurrezione fondamento della liturgia cristiana. L’importanza della domenica per la preghiera e la vita dei cristiani» (pp. 73-96). Innanzitutto la risurrezione di Cristo trascende l’evento puramente storico, per allargarsi ad una dimensione cosmica, riguarda l’intero mondo e la materia, poiché è «[…] la restaurazione della creazione nella sua integralità. Antico e Nuovo Testamento non si lasciano disgiungere, tantomeno nella comprensione del senso della domenica» (p. 81). Così, anche se all’inizio non è possibile trasferire alla domenica la funzione sociale di riposo propria del sabato, essa da subito ne accoglie il significato cultuale e lo approfondisce. Le stesse «contestazioni» di Gesù o di san Paolo sono dirette ad alcuni travisamenti del sabato, ma proprio per difenderne l’originario valore di giorno della libertà, di partecipazione alla libertà di Dio. Risulta dunque arbitrario, secondo Ratzinger, dialettizzare sabato e domenica, come fa Willy Rordorf che ne attribuisce il collegamento alla svolta costantiniana – con senso evidentemente negativo -, oppure Luca Brandolini, il quale parla di una sabatizzazione a partire dal quarto secolo, con conseguente riduzione legalistica del culto che tuttora ostacolerebbe un rinnovamento nella Chiesa.
Circa la questione pratica della crescente impossibilità di avere la santa messa in ogni parrocchia a causa della scarsità di clero, Ratzinger osserva che – a parte i casi di necessità – la prassi della celebrazione domenicale “absente presbytero” con la sola Parola di Dio – piuttosto che accorpare in un’unica chiesa i fedeli di parrocchie limitrofe – si è imposta anche in ossequio ad una mentalità che privilegia la dimensione soggettiva del ritrovarsi nella propria chiesa, con la propria comunità, sulla dimensione oggettiva della partecipazione al sacramento. Tale mentalità si ritrova poi anche nella celebrazione dell’eucaristia e ne spiega la diffusa riduzione sociologica e la conseguente autocelebrazione comunitaria prevalente rispetto all’apertura verso lo Sposo che viene: «Un esempio paradigmatico [che nel caso di specie rivela anche una delle radici della recente critica verso la forma extraordinaria del rito romano, n.d.r.] della preferenza accordata ad aspetti sociologici e psicologici (il raduno, l’attività comune, la conoscenza vicendevole) rispetto a ciò che è specificamente teologico è offerto dall’articolo Domenica […] del Brandolini» (p. 96, nota 20).
Anche il secondo, lungo capitolo della parte liturgica del libro, intitolato «Gloria e glorificazione» (pp. 97-173), inizia all’insegna della continuità tra Antico e Nuovo Testamento. A proposito del tempio, Ratzinger cita la profezia di Natan (cfr 2 Sam 7, 5-11). Davide vuole costruire una casa per il Signore, ma Dio gli manda a dire che sarà Egli stesso a costruirla: la profezia si avvera in Cristo, il cui corpo stesso rende concreto il tempio spirituale, che diventa «[…] realtà comprata a caro prezzo, al prezzo di sangue e carne, realtà la cui forza di vita poteva compenetrare i secoli» (p. 106). Il tempio spirituale però non è affatto in contrasto con l’edificazione di templi materiali – del resto gli Apostoli, e Gesù stesso, frequentavano il tempio di Gerusalemme -, anzi: «[…] poiché la casa vivente, di cui ora si tratta, deve radunare tutti i popoli, crescono ora in tutto il mondo case di raduno, dimore di preghiera» (p. 108), sin dall’inizio, per cui «Ciò che accade sotto Costantino è dunque una ricostruzione, non il passaggio da una religione dello spirito a una religione dei mattoni» (p. 109). Ovviamente deve essere lo Spirito a vivificare le pietre, perché dove ciò non accade più, le chiese sono divenute musei. Ed è sempre Dio ad edificare la sua casa, nel senso che quando pretendiamo di essere autosufficienti, finiamo poi per edificare «[…] un deserto di pragmaticità, in cui il cuore verrebbe a mancare» (p. 115), come risulterebbe l’Europa senza chiese, oppure come molte chiese progettate etsi Deus non daretur – invece la chiesa «Diventa addirittura tanto più vera casa degli uomini, quanto meno essa vuole esserlo, quanto più essa è posta semplicemente a Suo servizio» (ibid.).
Ratzinger prosegue poi accennando alla progressiva divaricazione tra Chiesa e cultura, iniziata con Rinascimento e Riforma protestante e affermatasi pienamente a partire l’Illuminismo. La separazione tra cultura e religione è particolarmente evidente nell’ambito musicale, in cui avviene poi una scissione tra due mondi estremi e non comunicanti tra loro – a sua volta manifestazione di una lacerazione in interiore homine -, tra la musica pop massificata, abbassata al rango di merce, e una musica cerebrale costruita a tavolino e ristretta a pochissimi esperti. «In mezzo, tra i due estremi, ecco la tendenza a rifugiarsi nel passato: ad aggrapparsi a quella musica che preesisteva alla frattura odierna, che parlava all’uomo nella sua interezza e, anche oggi, è pur sempre in grado di toccare in lui le corde più profonde» (p. 119). Ciò non elimina tuttavia la necessità di un dialogo tra la Chiesa e la cultura moderna – che comunque «[…] non può consistere ultimamente in un’auto-subordinazione della Chiesa alla cultura moderna […]» (ibid.). Ratzinger inquadra la complessa questione a partire dal salmo 47 (46), 8: «psallite sapienter», «cantate inni con arte», il cui verbo ebraico «zamir» non indica indistintamente qualsiasi canto, bensì un canto vincolato ad un preciso testo, di senso compiuto, «[…] una musica-che-accoglie-il-logos» (p. 123), ben distinta da un tipo di musica orgiastica mirante a subordinare intelletto e volontà all’estasi sfrenata dei sensi. In specie esso rinvia al canto dei salmi, che costituiscono l’opzione culturale in cui si è incarnata la fede – poiché «Non esiste affatto una fede per così dire totalmente indeterminata sotto il profilo culturale, che poi si lasci inculturare in modo arbitrario e discrezionale» (p. 125) – assumendo così un valore paradigmatico per qualsiasi ulteriore sviluppo: «Con il testo, essa [la Chiesa] recepisce anche la forma del cantare, l’opzione culturale di fondo che era già presente nella prima elaborazione della salmodia. In ciò essa vede la regola alla quale deve guardare anche ogni “nuova” espressione del “canto nuovo”» (p. 128). All’atto pratico, la schizofrenia contemporanea tra musica d’elite e musica di massa – poichè è bene tener presente che «Il “popolo” cui si indirizza la musica pop è la società di massa» (p. 132) – indica gli estremi al di là dei quali non è più possibile «psallere sapienter». Se dunque vanno rifiutati gli estetismi d’élite che finirebbero, in realtà, per celebrare il culto dell’arte fine a sé stessa, allo stesso modo occorre rifiutare qualsiasi pragmatismo pastorale che, col diffuso pretesto di avvicinare la musica al popolo e scambiando la musica pop per musica popolare, si risolva in una standardizzazione e in un abbassamento della musica sacra, degradata in base ai criteri commerciali della società di massa: «È davvero un successo pastorale quando riusciamo ad agganciarci al treno della cultura di massa e ci rendiamo così corresponsabili dell’alienazione che essa riversa sull’uomo?» (p. 134). La musica sacra raggiunge invece il suo scopo quando, al contrario di qualsiasi autocelebrazione, sia pure comunitaria, essa riesce ad elevare gli animi e «[…] libera la via ingombra che conduce ai cuori […]» (p. 133) per facilitare l’incontro con Cristo.
Successivamente Ratzinger osserva che l’abbandono della musica sacra in balia della creatività incontrollata di questo o quel gruppo, è un problema che investe l’intero modo di concepire la liturgia ed ha le sue radici in una falsa interpretazione del Concilio Vaticano II: «Ancorché sia fuori dubbio che essi non si possono appoggiare a nessun testo del Vaticano II, in alcuni uffici e organi liturgici si è consolidata l’opinione che lo spirito del concilio orienta in tale direzione. Un’opinione fin troppo diffusa suggerisce oggi le concezioni or ora esposte: che, cioè, le categorie proprie della comprensione conciliare della liturgia siano appunto la cosiddetta creatività, l’agire di tutti i presenti e il riferimento a un gruppo di persone che si conoscono e si interpellano a vicenda. Non solo giovani preti, ma talvolta anche vescovi hanno la sensazione di non essere fedeli al concilio, se pregano esattamente come nel Messale. Devono infilarci almeno una formula “creativa”, per banale che sia» (p. 141). Questo atteggiamento diffuso rivela, più o meno consapevolmente, una dialettizzazione tra il gruppetto che pretende di inventare da sé la liturgia, e la Chiesa universale, vista prevalentemente come un’istituzione cui contrapporsi piuttosto che inserirsi in essa. Al contrario, «[…] il vero soggetto della liturgia è la Chiesa e, più precisamente, la “communio sanctorum” di tutti i luoghi e di tutti i tempi» (p. 144). Di qui l’indisponibilità della musica liturgica – e della liturgia in genere – all’arbitrio del gruppo, poiché essa ha il compito di porsi al servizio del Logos. Di qui, anche, la necessaria esclusione dalle chiese della musica rock e pop, che cerca una liberazione mediante l’estraniamento da sé, e di altri generi quali, ad esempio, una musica leggera insulsa, il cui unico scopo è rompere il silenzio, oppure di una musica razionale, costruita a tavolino, in cui non avviene compenetrazione di spirito e sensi. «La musica invece adeguata alla liturgia di Colui che si è incarnato ed è stato elevato sulla croce, vive in forza di un’altra sintesi molto più grande e ampia di spirito, intuizione e suono» (p. 150). Ratzinger invita a tener presenti, come indicazioni per qualsiasi vera musica liturgica, i testi dell’ordinario della Messa – Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei – e le opere del gregoriano e di Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525-1594), con valore non certo esclusivo, bensì paradigmatico, cioè come orientamento per i nuovi testi e le nuove composizioni, che come quei modelli di riferimento dovranno operare una sintesi di sensi e spirito in grado di aprirsi verso l’alto. «La vera liturgia si riconosce dal fatto che è cosmica, non su misura di un gruppo. Essa canta con gli angeli» (p. 154).
Proprio in unione al canto degli angeli va intesa e vissuta la liturgia, come indica il versetto 1 del salmo 137(138), ripreso dal cap. XIX della Regola di san Benedetto da Norcia (480-547): «in conspectu angelorum psallam tibi», «di fronte agli angeli voglio cantarti»: «Dunque le cose non stanno così, che l’uomo si inventa qualcosa e poi lo canta, bensì che il canto gli proviene dagli angeli, ed egli deve innalzare il suo cuore affinché stia in armonia con questa tonalità che gli giunge dall’alto» (p. 156). Tuttavia la quotidianità degli ultimi decenni è ben diversa, bloccata in una sterile e falsa contrapposizione a cielo chiuso tra vecchio e nuovo, tra sacerdote e comunità, e in ultima analisi tra Chiesa preconciliare e postconciliare, o tra la riforma di san Pio X (1903-1914) e quella del Vaticano II. «Chi crede di poter scegliere solo tra vecchio e nuovo si è già posto in una strada priva di sbocco. La questione è piuttosto: che cos’è la liturgia in base alla sua essenza?» (p. 159). Né il prete, né la comunità infatti possono fare da sé la liturgia, come se gli attori principali fossero loro, poichè «La liturgia, come abbiamo visto, presuppone il cielo aperto; solo se questo è vero, c’è allora liturgia. Se il cielo non è aperto, ciò che era liturgia si rimpicciolisce, si riduce ad un gioco di ruoli, ad una ricerca (ultimamente priva di interesse) di auto-conferma comunitaria, in cui in fondo non accade nulla» (p. 161). In base alla riforma di san Pio X «La musica di chiesa non doveva essere più uno spettacolo connesso alla liturgia, ma doveva divenire essa stessa liturgia, cioè un entrare a cantare nel coro degli angeli e dei santi» (p. 163) e nella stessa direzione si muove il Concilio Vaticano II: «Nella liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste, che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme […]» (Sacrosantum Concilium, n. 8 – cit. a p. 164). In quest’ottica, a cielo aperto, viene meno anche la contrapposizione tra coro e assemblea, che non sono più, rispettivamente, esecutore attivo e spettatore passivo, poiché «Il coro agisce per gli altri e li include nella sua propria azione. Attraverso il suo canto tutti possono venir condotti in quella grande liturgia della comunione dei santi e così in quella preghiera interiore che strappa il nostro cuore verso l’alto e al di là di tutte le realizzazioni terrene ci fa entrare nella Gerusalemme celeste» (p. 167).
Nell’ultimo capitolo, «Aspetti integrativi» (pp. 175-209), Ratzinger risponde ad alcune domande di Franz Greiner su conversione, penitenza e rinnovamento, evidenziando come «[…] il mondo cristiano soffra oggi di un difetto di disponibilità alla conversione» (p. 177), per cui si continua a cercare il conforto della religione rifiutandone però i relativi impegni e «[…] ci si meraviglia poi che dall’opzione per un cristianesimo non obbligante e lasciato all’arbitrio del singolo non provenga alcuna energia in grado di sostenere la vita personale e quella comunitaria» (p. 178). Il difetto di conversione è strettamente legato ad un difetto nella percezione del peccato personale, mediante un capovolgimento dei termini che tace completamente dei peccati dei cristiani, dei «miei» peccati, per parlare esclusivamente dei peccati della Chiesa, la quale di conseguenza deve sempre essere rinnovata e riformata – senza che le modalità siano poi ben chiare, una volta esclusa la conversione del singolo che passa, in ultima analisi, per il confessionale. Si finisce così per confondere il rinnovamento della Chiesa con un attivismo puramente terreno, per cui l’unica cosa che si rinnova è la burocrazia ecclesiale; tuttavia «[…] ciò che è importante non è il darsi da fare il più possibile nella Chiesa, bensì proprio l’opposto: fare in modo che ciò che è “nostro” possa scomparire nella massima misura possibile, affinché la Sua Chiesa, la Chiesa autentica possa risplendere davanti a tutti. Ma ciò avviene in proporzione alla nostra “fede”. Non è il “fare”, ma è il “credere” che rinnova la Chiesa – e noi» (p. 181).
Infine, nel successivo – e conclusivo – scritto sulla preparazione al ministero sacerdotale, Ratzinger constata anche in quest’ambito un analogo fraintendimento della nozione di rinnovamento e riforma, soprattutto negli anni dell’immediato e caotico postconcilio quando il logico risultato di una generale confusione tra il rinnovamento e le proprie ansie rivoluzionarie, fu l’abbandono di molte tonache – in senso sia letterale, sia metaforico. Diventa dunque indispensabile definire i termini della questione, definendo chi sia il sacerdote – prima di qualsiasi ulteriore riflessione. Egli è inviato di Cristo, e in funzione di ciò deve avvenire la sua formazione, che si configura inevitabilmente come ascesi, anche intellettuale: «Per il sacerdote del Nuovo Testamento è essenziale che egli non porti avanti una qualche privata filosofia di vita che si è andato a pensare o a leggere […]» (p. 201). Inoltre il sacerdote deve essere preparato a stare al cospetto di Dio come Mosè davanti al roveto ardente: «[…] chi si espone alla radiazione radioattiva della Parola di Dio, anzi viene continuamente a suo contatto a causa della sua professione, deve essere preparato a vivere in tale vicinanza, altrimenti viene bruciato» (p. 206). Soprattutto, anzi prima di ogni altra funzione, il sacerdote è colui che celebra la liturgia, dalla quale trae nutrimento per sé e per gli altri: «La liturgia è venire a contatto con la bellezza stessa, con l’eterno amore. Da essa deve irradiare nella casa la gioia, in essa la fatica del giorno può venir trasformata e superata. Dove la liturgia diventa il centro vitale, siamo nello spazio indicato dall’Apostolo: “Rallegratevi, ve lo ripeto ancora: rallegratevi… Il Signore è vicino” (Fil 4,4)» (p. 209)
Stefano Chiappalone