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26 Novembre 2008 – piùvoce.net
di Chiara Mantovani
Da medico, non mi sottraggo alla responsabilità
NO AD UNA LEGGE ETICAMENTE DEBOLE

C’è un dibattito acceso tra chi sostiene che idratazione e nutrizione sono terapie mediche e chi le considera atti di presa in carico del malato. C’è chi afferma che persino medicare piaghe da decubito possa costituire accanimento terapeutico. Un’unghia incarnita infetta e non detersa, in un piede proprio, forse basterebbe a far cambiare idea a molti di questi.
Allora mi sembra essenziale precisare qualche termine, in questa Babele non solo di parole, ma soprattutto di pensiero.
Sono persino cautamente disposta ad annettere nutrizione e alimentazione tra gli atti medici, sebbene sia molto più propensa a pensare ad una PEG come al biberon che con tanta gioia offro al mio nipotino. Il biberon: quel felice “accanimento” neonatale dal quale dipende la sopravvivenza di buona parte dell’Occidente e dall`assenza del quale dipende buona parte della scandalosa mortalità neonatale dell’Africa.
Da medico comunque non mi sottraggo alla responsabilità di poter prescrivere ed installare un supporto vitale. Quello che è essenziale è considerare a quale scopo e con quale effetto compio qualsiasi azione o mi astengo da essa: già, proprio con quale intenzione faccio ciò che faccio. Se il mio atto, professionale per competenza, ma essenzialmente umano per natura, raggiunge lo scopo per cui è pensato – e se lo scopo è lecito o addirittura meritorio – allora è doveroso. Forse che non ho studiato giustappunto il modo per occuparmi della persona ammalata? E in quell’occuparmi sono comprese le medicine come le strutture sanitarie, le modalità di rapporto con l’ammalato, il suo vitto e il suo alloggio.
Quando invece il mio atto professionale non fosse più adeguato e proporzionato alla cura del paziente, allora sarebbe delittuoso. E la sospensione di un supporto vitale come dovrei giudicarla? Ancora una volta secondo il criterio del raggiungimento di un obiettivo eticamente buono: sospendo “pane e acqua” perché il mio paziente non ne trae più beneficio o perché voglio togliergli la vita con questo mezzo? In questo ultimo caso ecco fatta la definizione di eutanasia: la morte scelta come migliore della vita, ottenuta facendo (attiva, si dice) oppure smettendo di fare (passiva, si dice). Ma sempre di morte al posto della vita si tratta. Morte di un innocente, di uno colpevole solo di essere ammalato.
Terrò conto di ciò che mi dice il paziente, in quella relazione interpersonale particolarissima in cui un bisogno (quello dell’uomo sofferente) incontra una competente responsabilità (quella del medico)? Certamente sì, per tutto ciò che concerne la sua vita, ma non certo per causare la sua morte: un esecutore testamentario, un venditore di caldaie, un pizzicagnolo obbediranno al cliente – con il quale hanno concordati rapporti di prestazione d’opera -, ma nemmeno loro sono autorizzati né moralmente né legalmente ad installare caldaie difettose o a procurare cibo avvelenato all’aspirante suicida.
C’è davvero qualcuno che pensa di poter imporre ai medici di obbedire supinamente al paziente? O di poter giocare con i “contentini”, rabbonendo gli irriducibili ippocratici con la gentile concessione dell`obiezione di coscienza (“se tu non lo vuoi fare, perché impedirlo ad altri”)? Le leggi che prevedono l’obiezione di coscienza ammettono implicitamente di non poter valere per tutti, di essere leggi eticamente deboli, di non potersi riferire ad un bene comune universalmente riconosciuto: è prevedibile l’obiezione di coscienza per il furto? O per lo stupro? O per la vendetta?
Non è una legge eticamente debole quella di cui abbiamo bisogno dopo il drammatico sviluppo della vicenda di Eluana.
I legislatori saranno anche persone preparatissime nel loro mestiere, ma la medicina è arte complessa; il vivere e il morire ancor di più. Meglio dir loro poche cose, ma chiare. E chiediamo loro di dirci poche cose, ma chiare: per esempio che hanno mantenuto la percezione che il bene della vita è più importante dei beni patrimoniali, che continuano a difendere i più deboli, che hanno fiducia in altre scienze oltre alla loro. Non si perdano nei meandri di casistiche possibili: lascerebbero comunque fuori troppe eventualità. Non aspirino a riscrivere la realtà ancor prima di incontrarla. Non educhino alla deresponsabilizzazione (“lo dice la legge, che cosa mi interrogo a fare?”), ma sappiano spronare alla fatica dell’etica.
Se così non fosse, altro che obiezione di coscienza occorrerebbe alla nostra (in)civiltà.

Chiara Mantovani