Lo storico cattolico rilegge "Confini"
di Galli della Loggia e Ruini
E LA CHIESA SI RICONCILIO` CON L`OCCIDENTE MODERNO
di Andrea Riccardi
“Confini” non è un libro intervista, ma un dialogo tra due personalità diverse, anche se dalle preoccupazioni convergenti per certi aspetti. Si può dire, ad onore di Ernesto Galli della Loggia, che il cardinale Ruini, sulla maggioranza dei temi gioca in casa, nell’insieme di una conversazione che si intreccia sui temi della Chiesa, della laicità, della modernità e della scienza, del futuro dell’Italia e del cristianesimo. E’ un libro che rivela l’approccio diverso dei due interlocutori: un intellettuale che si pone domande e – bisogna riconoscerlo – non ama i luoghi comuni consolidati; un uomo che ha passato molti anni nel governo della Chiesa, governando senza paura di decidere, ma anche pensando in prospettiva, mai chiuso in un linguaggio ecclesiastico di maniera. E’ un libro denso, in cui si intrecciano tanti temi, per cui mi soffermerò solo su alcuni aspetti.
L’orizzonte del dibattito è il mondo moderno, un “mondo uscito da Dio” secondo la felice espressione di Emile Poulat: quale lo spazio di Dio, della Chiesa in questo mondo? Galli ne definisce acutamente l’orizzonte antropologico e intellettuale: “L’individualismo, la centralità dell’individuo, che rappresenta una pietra angolare della prospettiva illuministica e poi della modernità, incarnava un’istanza antigerarchica e di autodeterminazione con la quale era, e in parte credo sia tuttora, assai difficile per la Chiesa fare i conti” (p.10). Il cardinale insiste, correggendo l’uso del termine individuo, con persona, che si collega ad una grande tradizione filosofica, ma anche patristica.
Per quasi due secoli, il dogma soggiacente al pensiero sociale o sociologico moderno è stato sul modello di Comte, l’uscita dallo stato teologico e metafisico dell’umanità per entrare finalmente in quello positivo. Questo significava la certezza quasi dogmatica che, dove avanzava la modernità, la religione veniva marginalizzata. E’ il dogma della secolarizzazione inevitabile, che sembra presiedere la storia contemporanea e portare all’annientamento del cristianesimo. Nel 1977, un grande storico come Delumeau, si chiedeva: Le christianisme va-t-il mourir?.
Due secoli di cattolicesimo, ripercorsi dai due autori, sono una lotta per vivere, sopravvivere, crescere, in un orizzonte cambiato, uscito da Dio, fino al Novecento, il secolo più secolarizzato della storia. La scelta della Chiesa è l’ “intransigenza”, che non è una brutta parola, ma la volontà costante di non farsi dettare l’agenda dalla modernità. La parola “intransigenza” non compare in questo libro, ma rappresenta bene la lotta della Chiesa contro la modernità liberale e illuminista, che conosce tregue, accordi, ma che segna la differenza tra cattolicesimo e protestantesimo, Chiesa anglicana. Alla fine di due secoli, l’osservatore deve riconoscere che, pur in un grande travaglio, la Chiesa di Roma è tutt’altro che scomparsa (e anche lo stesso fenomeno religioso). Il dogma della secolarizzazione inevitabile è smentito, anche se la secolarizzazione è stata profonda.
Ma il cattolicesimo è non solo sfidato in questo senso, ma da un altro cristianesimo: l’incredibile sviluppo del neoprotestantesimo che, nel Novecento, è passato da zero fedeli a 500 milioni, frammentato, favorito dalla logica del mercato delle religioni, anche prodotto di un Occidente più americano che europeo. Non va sottovalutata la resistenza dell’ortodossia non solo alla secolarizzazione, ma anche alla durezza delle persecuzione comunista; mentre il protestantesimo, che ha scelto per l’adattamento al mondo moderno, appare più in crisi.
Si staglia qui, quella che Galli chiama la “missione impossibile” della Chiesa con un’espressione felice. Tante idee avanzate nel libro ruotano attorno a questa missione impossibile. Infatti, soprattutto in questo mondo globalizzato, la Chiesa rappresenta un’eccezione, anche nel mondo delle religioni: parlerei di un’eccezione cattolica in un mondo-mercato, con la crisi delle organizzazioni internazionali. Sì, è un’eccezione, perché radicata nella realtà sociale locale, nazionale, ma anche con una sua internazionalità. Segno di questa eccezione è quella che Galli definisce la figura unica del papa. E’ l’eccezione di un’internazionale religiosa come la Chiesa – mi si passi quest’affermazione – dove la spontaneità della vita religiosa si unisce al governo della pastorale e della vita. Tanto diversa dalla galassia neoprotestante, la Chiesa è al centro delle discussioni tra il cardinale e Galli.
Quest’ultimo avanza qualche perplessità sulla tenuta della Chiesa, che gli appare tanto articolata, divisa in partiti, aggregati di influenza, talvolta a rischio scismatico. Ed allora si chiede, meglio non sarebbe palesare il dibattito, uscire dal mondo riservato. Per altro verso un certo mondo cattolico critica Giovanni Paolo, che avrebbe spento il dibattito interno alla Chiesa. Ma la forza della Chiesa cattolica è nella sua complessità, nella realtà di una complexio oppositorum. E poi la Chiesa non è, non è diventata – è un’interpretazione antistorica del Concilio – una democrazia, pur simpatizzando per la democrazia come miglior regime per il governo dei popoli.
Giovanni Paolo II ha incarnato questa complessità cattolica, dove istituzione, posizioni intellettuali, religiosità popolare, movimenti, parrocchie, religiosi, spiritualità, iniziativa carismatica, tempre e culture diverse, stanno insieme in una comunità che non si riduce a schemi geometrici. Così è sempre stato nel secondo millennio, ma oggi lo è ancora di più nel mondo globalizzato. E’ il genio del cattolicesimo che, nel vissuto, conosce le sue debolezze e incertezze, ma che rappresenta la sua forza storica.
E qui c’è la grande domanda, tutt’altro che scontata, sul rapporto tra Chiesa ed Occidente. Perché la Chiesa non si dice occidentale? Mai ha tenuto a dirsi solo occidentale, come si vede dalla grande cura con cui ha coltivato le Chiese cattoliche d’Oriente. E’ nel genio della Chiesa cattolica appartenere a una civiltà o a una nazione, ma non esclusivamente, fosse quella con cui si è identificato con grande profondità. Questo la differenzia dalle Chiese ortodosse, identificate con la nazione e la civiltà. Ciò non vuole dire una scelta di estraniazione, proprio da quello stesso Occidente che è patria e esilio allo stesso tempo. Il pontificato di Pio XI con la Cina, ma soprattutto quello di Pio XII, all’alba della decolonizzazione, ribadiscono questa “universalità”. Nel quadro della globalizzazione, che è occidentalizzazione pur in una misura limitata, il rapporto con l’Occidente non può che cambiare.
Ricordo che nel 1936 i cattolici francesi tennero un importante convegno sullo scontro di civiltà – sì, fin da allora! – a cui arrivò una lettera del cardinale Pacelli a nome di Pio XI, in cui si affermava che: “Non bisogna perdere di vista che l’obbiettivo della Chiesa è evangelizzare e non civilizzare. Se civilizza, lo fa con l’evangelizzazione”. E Jacques Maritain tenne un’importante relazione in cui sosteneva che il cattolicesimo è agente di cooperazione tra popoli e mondi. Non si tratta di un cristianesimo ridotto all’osso, disincarnato, che passa da una cultura all’altra, quanto di una storia inclusiva, incarnata, con imprestiti che non resta bloccata a una civiltà. Così abbiamo troppo svalutato – diceva Olivier Clément – la grecità del cristianesimo, andando solo alle sue radici ebraiche. Ma la storia non si ferma.
Per il cardinale Ruini, c’è un rischio nel far coincidere la Chiesa con l’Occidente. In questo senso sono giuste le riflessioni sull’islam. Se fossi stato presente al dialogo avrei suggerito di dire qualcosa di più sull’Asia. Davvero qui c’è una sfida epocale per il cattolicesimo che viene dalla religiosità indiana tanto inclusiva (e qui Ratzinger e Dossetti erano d’accordo sulla minaccia) e dall’egemonia mercantile e politica della Cina. Possono i singoli paesi europei andatre a questo confronto da soli? Si ripropone il tema dell’Europa, su cui avrei posto qualche questione.
Per il card. Ruini il grande appuntamento di riconciliazione con l’Occidente e i suoi valori è stato il Concilio. La recezione del Vaticano II, troppo filtrata dal ’68, ha spostato la barra in altro senso. Ma Ruini ha ragione: il Concilio ha segnato la fondazione cristiana della svolta antropologica e la ratifica di un patrimonio comune di valori, come la libertà. Per Galli il linguaggio conciliare è decontestualizzato, soggetto ad ambiguità: “una clamorosa operazione fuori tempo”, più che la capacità di leggere i segni dei tempi (p.126). Ma il Concilio non va letto in modo isolato: è stato la riproposizione di una grande tradizione in un quadro nuovo, quello della cultura euro-americana, più che quello di una Chiesa terzomondiale. Che sarebbe stato il cattolicesimo senza il Concilio? E lo stesso Concilio va letto nel pontificato di papa Wojtyla, che è davvero il tempo della sua recezione.
Si parla molto in questo libro del modello americano. L’estraneità cattolica agli Stati Uniti nasce dal fatto che il modello americano viene da una cultura illuministico-protestante, in un quadro ove i cattolici sono minoritari. Ma Roma non dimentica gli Stati Uniti e un fatto decisivo avviene proprio con Pio XII, che viaggia nel paese da cardinale e include gli Stati Uniti, fin da prima della guerra, come interlocutore decisivo per la Chiesa. Sono convinto – e non da oggi, per questo nel 1983 volli a Bari un convegno storico su Pio XII anche fuori dallo spirito del tempo – che il tempo di papa Pacelli rappresenta un tornante decisivo nel secolo cattolico, anche per l’apertura alla modernità, che vuol dire anche gli Stati Uniti (“assumono la funzione dell’impero” – disse il cardinale Ottaviani in un discorso scritto da don De Luca). Lì ci sono alcune radici del Vaticano II. Basterebbe pensare al ruolo dei vescovi americani al Concilio per la libertà religiosa che, come diceva tristemente il cardinale Ruffini, delegittima lo Stato cattolico e la Spagna di Franco. Ma bisogna stare attenti quando si parla in modo idealizzato di modello americano: ricordo sempre l’espressione del cardinale George sul peso di una “mentalità protestante” anche sul cattolicesimo americano.
Il cardinale Ruini e Galli sono interessati nella vicenda italiana, quella di un cattolicesimo così particolare nel novero europeo. Sì, uno Stato nato laico e anticattolico, ma senza una rivoluzione come in Francia. Interessanti sono le osservazioni sulla storia italiana. Ma non mi soffermo, per fare solo un cenno all’Italia della Repubblica, in cui il cardinale è stato, almeno dagli anni Novanta, un protagonista in un modo tutto particolare per un ecclesiastico. Lo fu il Sostituto Montini con la nascita della Dc; lo fu Benelli per alcuni anni. Ma che ha rappresentato Ruini se non l’intersezione tra Chiesa, politica e pubblico dibattito in Italia? Sì, il dialogo con i laici: ma qualcosa di più, direi che ha colto una tendenza a smarcarsi da un dialogo solo cattolici-marxisti, perché il suo ruolo mi appare più profondo e pensato.
Ruini – ricordo un suo intervento al convegno ecclesiale del 1976 – aveva un’idea del futuro della Dc, fiducioso nella sua radice degasperiana: avrebbe dovuto produrre un partito laico, ancorato alla tradizione cattolica. In fondo la Dc avrebbe potuto evolversi verso quella laicità aperta, di cui ha parlato Benedetto XVI. In realtà egli vive l’eclissi di questo partito e nota la “rassegnazione” dei primi anni Novanta. E’ un caso interessante: perché muore un partito ancora forte nel Paese? Il cardinale lotta contro questa eutanasia. Secondo me, questa rassegnazione è anche un fatto culturale, perché rappresenta l’introiezione dell’idea gramsciana di suicidio del movimento cattolico: «Il cattolicesimo democratico fa quello che il socialismo non potrebbe fare: amalgama, ordina, vivifica e si suicida…».
Il cardinale Ruini si schiera tra chi non crede che il futuro italiano venga dalla tradizione che fa riferimento al Pci e alla sinistra. Non è un caso che abbia vissuto lunghi anni in una terra di confronto come Reggio Emilia. Direi che c’è un grande spartiacque, non solo italiano, ma anche ecclesiale: un punto decisivo per il cattolicesimo italiano e per la DC: il comunismo poteva essere battuto? Nel 1951 – mi sia permesso raccontare questo episodio – Dossetti andò a Firenze per parlare con La Pira, che era malato: gli disse la sua scelta di diventare prete, perché era impossibile riformare il capitalismo e il comunismo avrebbe vinto (e qui presentò dati e documenti sulla forza dell’Urss). Discussero sei ore. La Pira controbatteva, e queste idee emergono dalle sue lettere: il comunismo sovietico e italiano era già vinto. E alla fine dichiarò: “Il comunismo è morto perché ateo”.
Questa è per me la grande discriminante, più che progressisti-conservatori o altro, che poi si scambiano i ruoli: il giudizio sul ruolo del comunismo nel futuro italiano, europeo, mondiale. Per molti cattolici, era una fase che ineluttabilmente il mondo e la Chiesa dovevano passare. Qui Dossetti ha altro sentire rispetto a Ruini. Ricordo Giovanni Paolo II: aveva la convinzione granitica che il comunismo era morto alle radici, qualcosa molto di simile a La Pira.
La storia non è ineluttabile. E soprattutto la fiducia che il cristianesimo possa forgiare questo destino. Per questo il cardinale ha sentito, con intima partecipazione, la figura di Giovanni Paolo II nel mondo e in Italia. Cita, per esempio, il discorso di Loreto: un cristianesimo italiano che ritrovi la sua forza trainante nella società. In questo messaggio, come quello all’Unesco, egli identifica la sua presidenza Cei.
Ma c’è qui un atteggiamento di fondo con cui il cardinale pensa e governa, per lui capitale: la lotta contro il pessimismo e il catastrofismo. Una figura come lui, considerata un realista, politico, è un uomo della speranza, che si nutre di fede, ma anche di fiducia nel buon senso della gente. Ed è qualcosa che lo caratterizza e anche lo smarca dal pessimismo di tanto cattolicesimo di fronte alla modernità: “per un atteggiamento del cristianesimo maggiormente positivo e fiducioso riguardo alla storia contemporanea è importante… il rilancio di una teologia della creazione che ne sottolinei la sostanziale positività” (p.39).
Ma questo cattolicesimo, dopo il Vaticano II, non ha ridimensionato le sue pretese, quella veritativa, ma anche quella di fare la storia, mettendo in soffitta grandi disegni, ritirandosi in nuove sacrestie, meno barocche, ma ugualmente recessi? Galli della Loggia riassume tutto questo in un’osservazione da prendere in seria considerazione: “la difficoltà derivi – per la Chiesa e l’Occidente – dalla perdita di sentimento di superiorità”. Mi tornano in mente le parole di un nuovo martire, che il cardinale Ruini cita, Andrea Santoro, espressione di quella “follia” cattolica e missionaria di andare sulle frontiere, il quale accettava la sfida della superiorità e affermava: “la via più alta della superiorità è quella dell’amore…”. Difficile da vivere. Moralismo? Parole vuote? Non credo. Mi pare la missione impossibile di una realtà, la Chiesa, che non è e non vuole essere solo una forza storico-culturale-politica.