Osservazioni canonistiche sul Rescriptum del 21 febbraio

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Se formalmente il Rescriptum ex Audientia Ss.mi del 21 febbraio 2023 – che è un atto amministrativo col quale un capo dicastero chiede e ottiene (Rescriptum: “scritto due volte”) qualcosa dal Sommo Pontefice (Sanctissimi) al termine di una udienza (ex Audientia) – si prefigge lo scopo di “implementare” il Motu Proprio Traditionis custodes del 16 luglio 2021, da un punto di vista pratico, in realtà, lo altera nella sua struttura sostanziale.

Il Rescritto, infatti, sovverte la base sul quale si fonda proprio Traditionis custodes, le cui prime parole, eco di Lumen gentium n. 23 (la costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II sulla Chiesa) sono destinate ai Vescovi: «Custodi della tradizione – esordisce il preambolo del Motu Proprio di papa Francesco che modifica il m.p. Summorum Pontificum di Benedetto XVI – i vescovi, in comunione con il vescovo di Roma, costituiscono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese particolari».

Ma se Traditionis custodes aveva puntato sui Vescovi diocesani per una regolamentazione dell’uso delle forme liturgiche anteriori alle riforme post-conciliari, il Rescritto del 21 febbraio scorso rovescia quel principio riservando alla Santa Sede (e dunque al Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti) la regolazione di un’intera materia che però, di per sé, sarebbe stata demandata alla discrezionalità dei singoli Ordinari locali dallo stesso provvedimento al quale il Rescritto dice di voler dare “implemento”. Siamo, dunque, davanti a un paradosso kafkiano – logico prima ancora che giuridico – per il quale la stessa Autorità che con un atto normativo dispone una cosa, con un successivo atto revoca, di fatto, il precedente principio, senza però formalizzare tale “inversione di marcia”, e dunque lasciando una contraddizione insolubile.

Se, infatti, Traditionis custodes, all’art. 2, facendo eco al già citato magistero conciliare, afferma indiscutibilmente che «al vescovo diocesano, quale moderatore, promotore e custode di tutta la vita liturgica nella Chiesa particolare a lui affidata, spetta regolare le celebrazioni liturgiche nella propria diocesi» e che «pertanto, è sua esclusiva competenza autorizzare l’uso del Missale Romanum del 1962 nella diocesi, seguendo gli orientamenti dalla Sede Apostolica», col Rescriptum del 21 febbraio si limita quella competenza, nonostante sia stata definita “esclusiva”, affermando esservi una nuova riserva di giurisdizione da parte della Sede Apostolica ai sensi dell’ultima parte del can. 87, §1 del Codice di Diritto Canonico; detto canone, infatti, stabilisce che: «Il Vescovo diocesano può dispensare validamente i fedeli, ogniqualvolta egli giudichi che ciò giovi al loro bene spirituale, dalle leggi disciplinari sia universali sia particolari date dalla suprema autorità della Chiesa per il suo territorio o per i suoi sudditi, tuttavia non dalle leggi processuali o penali, né da quelle la cui dispensa è riservata in modo speciale alla Sede Apostolica o ad un’altra autorità».

A prima vista la questione appare poco chiara: perché mai in un Rescritto che riguarda l’uso della liturgia anteriore alla riforma liturgica del Anni ‘70 si viene a citare il canone che riguarda le dispense, e cioè l’esonero dall’osservanza di una legge puramente ecclesiastica che il Vescovo può concedere in un caso particolare (cf. can. 85)? La risposta è nella prassi che si è invalsa in alcune diocesi all’indomani dell’entrata in vigore del m.p. Traditionis custodes, mediante la quale taluni Ordinari hanno ritenuto opportuno – esercitando quella discrezionalità che lo stesso Motu Proprio riconosceva loro – esimersi dall’osservanza del disposto normativo papale concedendo licenze ai loro sacerdoti diocesani per la celebrazione della S. Messa secondo le rubriche del Messale del 1962, permettendo la stessa celebrazione in chiese parrocchiali, o erigendo cappellanie o parrocchie personali di Rito antico. Ciò ha fatto sì che lo zelante Prefetto del Dicastero del Culto, l’oggi card. Arthur Roche, nonostante vi fossero delle norme ben precise in materia dettate nientemeno dal Papa in persona (cf. Traditionis custodes, artt. 3 e 4) con le quali, in modo dettagliato, si regolava la materia con le quali la Santa Sede si riservava solo di fornire “orientamenti”, sollecitato probabilmente da una imprudente pubblicità dei blog “tradizionalisti”, abbia in più occasioni bacchettato vari vescovi che si sarebbero “permessi” di non aderire pedissequamente al Motu Proprio di papa Francesco, valendosi proprio della possibilità del can. 87, §1 CIC.

Questo, dunque, il presupposto fattuale da cui indubbiamente nasce il Rescritto del 21 febbraio, preceduto da meticolosi Responsa ad dubia con le fanaticissime Note esplicative del 4 dicembre 2021, il cui contenuto andava comunque ben oltre il citato concetto di “orientamento” contenuto nell’art. 2 di Traditionis custodes.

Su questi Responsa, peraltro il Rescritto sembra voler mettere un ulteriore sigillo di “legittimità autentica” sottolineando come essi, dopo l’assenso alla pubblicazione a suo tempo concesso, siano stati ulteriormente “confermati” in occasione dell’ultima udienza di tabella. Tuttavia sul punto va specificato che non si tratta di una «approvazione in forma specifica» del documento richiamato, ma solo di un “assenso” alla pubblicazione, il che non comporta di per sé che l’atto in questione possa essere considerato come avente “paternità pontificia”, e che per ciò stesso sia da considerare come “non impugnabile”, ma solo che esso goda di una certa stabilità, in forza del Superiore Assenso ricevuto alla pubblicazione (come successe di recente il Responsum ad dubium circa la benedizione di coppie omosessuali del 21 febbraio 2021).

Va comunque specificato che tali procedure, nell’attuale prassi curiale, sono alquanto disinvolte, basti pensare a tutti i decreti dei dicasteri “approvati in forma specifica”, contenenti disposizioni personali come le dimissioni dallo stato clericale o dallo stato religioso in esito a dubbi procedimenti amministrativi: di tali atti il Papa, ipso facto, apponendovi la firma in calce, si assume la paternità e dunque, implicitamente, la responsabilità, senza tuttavia che egli probabilmente sia effettivamente e completamente consapevole del contenuto o di quanto è accaduto in quel singolo caso. Una prassi malsana, dunque, e molto pericolosa perché in forza di un meccanismo amministrativo tritacarne, privo di qualsiasi garanzia giuridica perché orbitante nella più assoluta arbitraria discrezionalità, rende il Papa complice dell’amministrazione stessa, e dunque, di fatto, ostaggio di decisioni altrui. Alla luce di ciò – e senza volersi addentrare in un complessissimo quanto sdrucciolevole ginepraio – non solo la conferma dell’assenso, ma anche lo stesso Rescritto perdono in qualche modo valore, tanto giuridico quanto morale, perché se fino a qualche tempo addietro tali procedure speciali (così riconosciute dall’attualmente vigente Regolamento della Curia Romana, cf. art. 126) avevano il senso di rimarcare in modo particolare l’intervento del Pontefice in materie di fede e di costumi, oggi sembrano piuttosto essere l’esibizione di una forzata blindatura che cela una profonda quanto imbarazzante insicurezza: se, infatti, prima vigeva il rassicurante adagio Roma locuta, quaestio soluta, oggi sembra piuttosto che la posizione che Roma assume sia l’origine del caos, dell’incertezza giuridica e dunque della instabilità istituzionale, che assai spesso si traduce in imbarazzanti contraddizioni.

Tornando, comunque, alla materia del Rescritto, appare evidente che la riserva di legge proclamata circa la concessione delle licenze e l’indicazione delle modalità per la celebrazione della Messa secondo il Rito antico sia in aperto contrasto sia con quanto già stabilito dallo stesso Motu Proprio a cui, paradossalmente, si pretenderebbe di dare così “implemento”, ma soprattutto – come ha anche osservato il card. Müller in una recente intervista – confligga con norme di diritto divino che, invece, regolano la potestà dei Vescovi diocesani.

Se oggi un Vescovo non è considerato in grado – perché di ciò si tratta – di discernere se nel territorio della propria diocesi vi possano essere le condizioni per cui si possa estendere la facoltà dell’uso dell’antico Messale senza previo assenso del Dicastero, e addirittura si limita la sua stessa potestà nell’uso dei libri liturgici impedendogli, nelle parrocchie, l’uso del Pontificale, allora si può dire che l’intera teologia sulla costituzione gerarchica della Chiesa, formalizzata da ultimo nel Magistero conciliare sui vescovi, sia di fatto stata nullificata e abbia ceduto il posto ad un’inedita, quanto pericolosa, forma di governo monocratico e autoreferenziale.

Se si legge, infatti, quanto dispone il Rescritto laddove afferma: «Qualora un Vescovo diocesano avesse concesso dispense nelle due fattispecie sopra menzionate è obbligato ad informare il Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti che valuterà i singoli casi» si resta basiti dalla evidente volontà controllante curiale, che non solo infrange un principio di civiltà giuridica per cui la legge dispone per l’avvenire e la retroattività della norma è qualcosa di eccezionale (cf. can. 9), ma anche perché mette in dubbio (tentando di considerarli impropriamente e ingiustamente come provvedimenti che avrebbero quasi perduto valore) le scelte già compiute dai singoli Vescovi, adesso mortificatamente “obbligati” a comunicare alla Sede Apostolica ciò che, invece, hanno deciso nel pieno dell’esercizio delle loro legittime funzioni applicando una norma del diritto universale. D’altra parte è ovvio che quanto già stabilito sia oggettivamente e giuridicamente intangibile.

Potrebbe sorprendere tale maniacale ipercontrollo del Dicastero del Culto, insieme a questa forma ossessiva di normativizzazione nell’attuale epoca profondamente antigiuridica ed anzi apertamente nemica delle “regole” e aperta piuttosto a modelli fluidi; potrebbe sorprendere che in un’epoca in cui avvengono quotidianamente sacrilegi e profanazioni, molto spesso sotto il silenzio e la complice cecità delle istituzioni, si sia così minuziosi nel definire i margini del consentito a un vescovo nella propria diocesi, impedendo financo che un sacerdote possa binare la celebrazione in rito antico quando nessuno si cura delle quattro messe che in media un buon parroco celebra ogni domenica nel territorio della parrocchia, ormai spesso senza più preti; sembrerebbe assurdo immaginare che nell’epoca delle “liturgie creative” dove sugli altari consacrati si espongono simboli pagani e si compiano gesti di evidente sconcertante stile sacrilego, dove i sacerdoti si mascherano, dove si celebrano le messe sui materassini in mezzo al mare, la Santa Sede senta così forte il bisogno di affermare chirurgicamente che, sebbene sia tollerato l’uso del Messale, non è altrettanto concesso nelle parrocchie l’uso del Pontificale, e dunque… è lecito privare i fedeli che fruiscono di quella forma rituale della possibilità di ricevere, ad esempio, la cresima in Rito antico; potrebbe sorprendere l’ossessione con la quale, da anni a questa parte, l’unico problema della disciplina ecclesiastica sembri essere la repressione delle “tendenze tradizionaliste” mentre, d’altra parte, le chiese, i seminari, i monasteri, i conventi si svuotano, la dottrina morale cede il passo a psicologismi di dubbia entità e, di fatto, si vive un clima di polizia ideologica per cui tutti possono fare ciò che vogliono mentre è impedito fare ciò che si è sempre fatto.

In realtà è evidente che ciò sia indice del grado di profonda paura e insicurezza che i novatori hanno nel portare avanti le rivoluzioni: se, infatti, la Tradizione ha la solidità e la robustezza dei propri princìpi e dunque non teme un confronto con la diversità, con la quale anzi si intreccia e si sviluppa, consolidandosi ancora di più e proiettandosi verso il futuro, non così la Rivoluzione che non può far altro che imporre la sua “visione” mediante la stessa forza che ha contestato e, a suo modo, crede di aver destituito: l’auctoritas. Tuttavia, nei sistemi di civiltà giuridica, “veritas non auctoritas facit legem”: non è l’arbitrio, né il mero esercizio del potere a integrare il fondamento della norma da considerare vincolante – come al contrario sostenne Hobbes – bensì i principi indisponibili e non negoziabili del diritto divino e del diritto naturale. L’imposizione con la forza di una legge non ha mai prodotto nulla di buono, e d’altronde le stesse azioni rivoluzionarie – com’è noto – si sono sempre risolte, presto o tardi, in un pasto saturniano.

Quella che si prospetta – e che è già in corso da diverso tempo – è una battaglia senza precedenti nella storia della Chiesa, che vede fronteggiarsi due fronti ugualmente accaniti ma impari, l’uno rispetto ai numeri, l’altro rispetto alla ‘forza istituzionale’; tuttavia la battaglia di oggi non è la stessa dell’immediato post-concilio, perché da allora ad oggi le fila di coloro i quali sono stati rapiti dalla bellezza della Tradizione sono ben più folte rispetto a prima: a quei tempi vi era una società diversa, una obbedienza diversa… eppure lo stesso Paolo VI, pur promulgando il nuovo Messale, non ebbe l’ardire di dichiarare abrogato il precedente, probabilmente consapevole dell’anatema di S. Pio V della Bolla Quo primum tempore. D’altronde, con buona pace dei soloni del Dicastero del Culto, la liturgia tradizionale ha un complesso strutturale talmente tanto vasto che sarebbe davvero follia ritenere possibile “normare” ogni cosa, sicché si troveranno sempre delle escamotages che consentiranno, come hanno consentito, all’antica Liturgia di sopravvivere. E se anche voci di corridoio si fanno sempre più pressanti sul fatto che questo ultimo documento sia solo la punta dell’iceberg d’una reviviscente guerra, e se oggi si bacchettano i vescovi, domani si bacchetteranno coloro i quali sono a tutt’oggi esenti dall’osservanza di Traditionis custodes (cioè i cosiddetti “istituti Ecclesia Dei”), sul punto va precisato che un’azione restrittiva e punitiva nei loro confronti comporterebbe inevitabilmente una frattura immensa all’unità della Chiesa, poiché sarebbe davvero scellerato escluderli ipso facto dalla comunione ove non si uniformassero all’unico rito riformato; e d’altra parte, per come stanno le cose e per il grado di qualità che ha l’obbedienza in una Chiesa in piena crisi del principio di autorità, sarebbe impensabile una repressione di massa, che sortirebbe piuttosto l’effetto contrario.

Niccolò Tedeschi per https://www.corrispondenzaromana.it/osservazioni-canonistiche-sul-rescriptum-del-21-febbraio/

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