«Occorre che la Chiesa ritorni a svolgere, a educare i cristiani alla grandezza e alla novità della fede ed eserciti una funzione in qualche modo educativa nei confronti di tutti gli uomini…»
Carissimo Don Gabriele,
vorrei innanzitutto ringraziarti per l’opportunità che mi dai di fare il punto della situazione di un periodo per me nuovo della mia vita, in cui il venir meno di un impegno puntuale, quotidiano per la cura di una chiesa particolare alla quale ho atteso con grande energia (spero con qualche frutto almeno di fronte a Dio, non di fronte agli uomini!), mi ha consentito e mi consente di sintonizzarmi molto di più sulla vita della chiesa universale, sulle sue esigenze: sui suoi problemi, sulle sue difficoltà, che sarebbe inutile o irresponsabile negare.
Ora però penso che soffermarsi sulle difficoltà non sia utile per la vita della Chiesa, che noi amiamo, e che abbiamo imparato ad amare dai primi anni della nostra esistenza con i genitori e poi nelle grandi esperienze formative che abbiamo fatto (i più rilevanti sono stati sicuramente gli anni del seminario).
Noi l’amiamo più che nostra madre: proprio perché capiamo cos’è nostra madre capiamo che cos’è la Chiesa!
Io penso che sia meglio chiederci che cosa serve realmente alla Chiesa di oggi, o, meglio, come ciascuno di noi può collaborare realmente alla vita della Chiesa di oggi.
Ecco la prima osservazione: la Chiesa è sfidata sulla fede; deve dimostrare a se stessa e al mondo che crede in “Gesù Cristo, unico Redentore dell’uomo e del mondo, centro del cosmo e della storia”, per ripetere le parole che nessun cristiano di ogni tempo potrà mai dimenticare, quelle di San Giovanni Paolo II.
Siamo sfidati sulla fede! la Chiesa rischia invece di guardare da un’altra parte, come dice Papa Francesco, e di disperdersi, di disorientarsi, nel tentativo affannoso di rispondere a tutti i problemi che l’eccezionale e grave momento della storia della società propone.
Che non è soltanto (come tutti dicono, perché la gente quando parla e gli intellettuali, si fermano all’ovvio) il problema vero della povertà materiale.
Il problema è la povertà morale e umana di questa umanità, che non ha più punti di riferimento sostanziali e decisivi per affrontare la propria vita quotidiana.
Non ha criteri per valutare i grandi problemi della propria esistenza, che molte volte si pongono senza che noi vogliamo; che non ha criteri per fare le scelte sostanziali della propria vita: anche le scelte vocazionali, professionali, si fanno secondo l’unico criterio, che è quello dell’interesse immediato.
Quando l’indimenticabile Cardinale Giacomo Biffi parlò di Bologna (cioè di un pezzo enorme della società italiana ) come di una “società sazia e disperata” certamente anticipava la situazione in cui viviamo, con la sola differenza che la sazietà è meno presente di allora, forse è mal distribuita: oggi è una società meno sazia, ma non meno disperata, perché non ha più quei criteri fondamentali della vita che – come dice Paul Claudel nell’indimenticabile “Annunzio a Maria” – sono quei criteri che ti consentono di mangiare in pace il tuo pane e di bere il tuo vino e di affrontare le circostanze dell’esistenza in modo responsabile e dignitoso.
Io credo che la Chiesa, sfidata sulla fede, deve dare coralmente una grande testimonianza di fede: da chi guida la Chiesa per mandato e per autorità Divina, in comunione con quel Collegio Episcopale che è seguito al collegio Apostolico, che è parte essenziale della vita della Chiesa e che non può essere né sottaciuto né relativizzato.
Da colui che guida la Chiesa in comunione con i suoi fratelli Vescovi, ad ogni singolo cristiano; sfidati sulla fede noi diciamo che la fede vale più della vita!
Dobbiamo dire con la nostra esistenza (prima ancora forse che con le nostre parole) che la fede vale più della vita: che il senso del mangiare e del bere, del vegliare del dormire, del vivere e del morire – cioè dell’esistenza, ossia della sua articolata, faticosa e dolorosa esperienza, ma anche del suo lieto muoversi – è la Fede.
Noi non possiamo limitarci a dire che l’umanità ha tanti problemi da risolvere e che noi ci apprestiamo ad aiutare a risolverli, in parte perché non siamo così sprovveduti da pensare che noi potremmo risolvere tutti i problemi materiali, economici e sociali.
Noi dobbiamo dimostrare che la fede, svolgendosi nella nostra vita e diventando testimonianza, è capace, sulla base dell’annuncio di Gesù Cristo, di arrivare a tutte le conseguenze della vita personale, della vita familiare, della vita sociale, della vita nazionale e internazionale.
Stupisce rileggere alcune parti del grande magistero di Benedetto: questa visione significativamente cristologica ed ecclesiologica della vita della persona e della società, fino a ipotizzare con chiarezza che ci può essere un ordine mondiale fondato sulla gratuità. E la Chiesa è chiamata a dare una risposta responsabile, a creare un ordine economico fondato non sull’interesse, sul possesso, ma sulla gratuità; e a dimostrare dunque che la nostra prima preoccupazione è annunziare Cristo, dimostrarlo al mondo di oggi.
Il mondo di oggi non sono soltanto le migliaia di persone che dalle parti più disparate della terra, con le motivazioni più diverse giungono qui – quindi non necessariamente tutte motivazioni adeguate, umane, significative ed oneste: perché gli extracomunitari non sono una terra benedetta dove non c’è né peccato, né orgoglio, né violenza, ecc… –
Il mondo d’oggi è questa gente che ci vive accanto, o che ad ondate viene accolta (per la mitezza e la generosità del nostro popolo) con non pochi sacrifici nelle nostre strutture abitative.
A questa gente che cosa dobbiamo dire come Chiesa? “Arrangiatevi, rifocillatevi e andate in pace?”
Dobbiamo dire che c’è Gesù Cristo che li attende e li aspetta! Di cui sono bisognosi anche se non lo sanno e perciò la nostra prima preoccupazione, il respiro ampio della nostra vita è annunciare Cristo.
Io sono rimasto scandalizzato dalla sottolineatura della necessità dell’accoglienza che non facesse mai riferimento al fatto che quella accoglienza doveva essere motivata in noi e animata da una volontà missionaria, da una volontà di comunicazione di Cristo.
La demagogia del “tutti dentro” o del “tutti fuori” è stata pur rivista e corretta, mettendoci di fronte a dei compiti e delle responsabilità.
Un ministro non cattolico, altamente dignitoso e serio, come l’onorevole Minniti, ha detto “stiamo attenti a far bene i conti dell’accettazione incondizionata, perché poi restano scardinate le strutture democratiche della nostra società”.
Ma in ogni caso, in queste successive correzioni, da parte cattolica non dico che sia consapevolmente mancata, ma c’è stato troppo silenzio sulla priorità dell’evangelizzazione; tutto quello che facciamo è a partire dall’evangelizzazione e per attuarla, è per renderla viva nella vita dei nostri fratelli uomini.
Perché noi abbiamo la precisa convinzione, guardando noi stessi e partendo da noi stessi, che la vita umana non è vita se non c’è la presenza di Cristo.
Come ricorda s. Giovanni Paolo II nella Redemptor Hominis al n. 10: «L’uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo – non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere – deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve «appropriarsi» ed assimilare tutta la realtà dell’Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di se stesso».
Questo ci rende lieti di fronte ad ogni uomo perché ci mette in sintonia con la profondità del suo cuore.
Dopo l’annunzio la responsabilità più grande che l’uomo è chiamato a svolgere è quella dell’educazione: la Chiesa è “Mater et Magistra”.
Occorre che la Chiesa ritorni a svolgere, a educare i cristiani alla grandezza e alla novità della fede ed eserciti una funzione in qualche modo educativa nei confronti di tutti gli uomini, perché vengano aiutati a recuperare la grandezza della propria esperienza umana, “Il mestiere duro d’esser uomo” come faceva riferimento un grande della letteratura, Pavese.
Se sarà chiara una strategia, un ordine ideale e pratico della nostra vita, che va dall’evangelizzazione alla volontà di condivisione puntuale ed appassionata degli uomini con cui condividiamo la nostra esistenza, allora la Chiesa potrà rimanere come punto di riferimento insostituibile; e si potranno maturare le conseguenze sociali ed etiche senza segnare rovinosi scontri.
Credo che la Chiesa, di fronte a queste sfide, debba interiorizzarle adeguatamente, debba viverle con totale umiltà ma in modo inesorabile; se non saremo inesorabili a seguire la vocazione, il mandato che Dio ci ha dato, difficilmente l’ultimo giorno potremo sostenere lo sguardo del nostro Popolo, come mi ricordava molto spesso il Cardinal Biffi: il popolo sarà alla destra del Signore che giudica, perché alla destra del Signore non ci saranno né i guru della cultura laicista né i direttori delle grandi testate nazionali, né i direttori delle Reti televisive.
Accanto al Signore che ci giudica ci sarà il nostro popolo, che ci giudica. E questo (dopo il giudizio di Dio) è quello che bisogna temere di più.
La Chiesa con il suo episcopato deve riaffermare quanto ha detto la Madonna a Fatima: che l’attacco alla Chiesa è attacco alla famiglia, attacco alla vita e alla sua misteriosità, alla sua intangibilità, al suo non essere a disposizione se non di Dio, e quindi meno che mai della scienza.
È fondamentale non essere assenti dalle grandi questioni che caratterizzano la vita della nostra società, mentre il mondo dà la sua preferenza a quelli sicuramente silenziosi, oppure a coloro che, quando parlano, parlano in linea col pensiero unico dominante.
La paternità che noi esercitiamo nei confronti di tutto il popolo cristiano è un riverbero, una attuazione della grande e unica paternità di Dio: e la paternità si esprime come amore all’uomo e alla sua verità; noi non possiamo non amare la verità degli uomini che vivono accanto a noi.
E dobbiamo amarla questa verità anche quando non sembra che sia la preoccupazione dei nostri interlocutori uomini; io non credo che dobbiamo avere nell’occhio della nostra coscienza quel che il mondo dice di noi: dovremmo avere nell’occhio della nostra coscienza quello che Cristo ci chiede e che il popolo ha il diritto di aspettarsi da noi: l’educazione alla verità, alla libertà, alla responsabilità e alla missione.
Un vescovo deve fare questo! educare alla verità, alla libertà, alla responsabilità e alla missione.
Se temperamentalmente è più cordiale di altri meglio per lui; se invece è un po’ sobrio e riservato va bene; un vescovo non definito dal come esercita l’autorità, ma se esercita o no l’autorità.
Sostanzialmente agli uomini di chiesa tocca la responsabilità di una presenza paterna, fatta di amore alla verità ed educazione del popolo.
Per vivere in modo meno inadeguato questo compito occorre l’aiuto di Maria alla quale ci affidiamo con fiducia totale. “Totus tuus”.
+Luigi Negri, Arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio
[Abbiamo chiesto a Mons. Luigi Negri, Arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio, alcune sue riflessioni sul momento attuale. Ecco le sue parole]