Jung Chang e Jon Halliday, Mao la storia sconosciuta,editore TEA, ISBN-13: 978-8850215249, 960 pagine, Euro 12
Sconto su: http:www.theseuslibri.it
Quando i comunisti mangiavano (per davvero) i bambini
La sinistra italiana ha il dispiacere di vedere fatti a pezzi i miti su cui si regge la sua stessa esistenza e i ritratti che continuano a campeggiare su bandiere e magliette che si vedono in ogni sua manifestazione. Prima Fidel Castro, ora Mao Tse-tung (1893-1976). Quarant'anni fa, nell'agosto 1966, cominciava in Cina la rivoluzione culturale, cioè la distruzione sistematica della cultura cinese. Tre milioni d'intellettuali e membri di gruppi sociali "sospetti" furono uccisi, e cento milioni di cinesi incarcerati o deportati. Bastava avere in casa un libro non marxista per rischiare la deportazione o peggio. Il clima è stato rievocato a fosche tinte anche da quotidiani di Centrosinistra. Il crimine di leso Mao Tse-tung è stato subito denunciato sui giornali della sinistra radicale, e l'onorevole Oliviero Diliberto – prendendosi una rara pausa dai suoi impegni di propagandista degli Hezbollah – ha invitato a riconoscere anche quanto di buono fu fatto da Mao in Cina.
A Diliberto si consiglia allora la lettura del capitolo sulla rivoluzione culturale della mirabile biografia Mao la storia sconosciuta (Longanesi, Milano 2006) della grande scrittrice cinese Jung Chang, scritta in collaborazione con Jon Halliday – una lettura obbligatoria nonostante la mole (960 pagine) per chiunque voglia capire il comunismo cinese -, che rimanda a un'opera, purtroppo mai tradotta in italiano, del dissidente cinese Zheng Yi, Scarlet Memorial: Tales of Cannibalism in Modern China, pubblicata nel 1996 negli Stati Uniti dall'autorevole Westview Press.
Dopo la morte di Mao, senza troppa pubblicità, alcune commissioni d'inchiesta indagarono sulle atrocità della rivoluzione culturale. Una lavorò nel 1983 sulla contea di Wuxuan. Lo stesso Zheng Yi, un giornalista comunista che aveva militato nelle Guardie Rosse, fu inviato da un giornale di partito di Pechino con lettere di accreditamento ufficiale che invitavano le autorità locali a mettersi a sua disposizione per un'inchiesta. All'epoca, Deng Xiao Ping (1904-1997), che al tempo della rivoluzione culturale era stato estromesso dalla dirigenza del partito, malmenato e mandato a lavorare in una fabbrica di trattori di provincia, dove era sfuggito per miracolo a un tentativo di assassinio, era diventato il padrone della Cina e aveva interesse sia a screditare la "banda dei quattro" che aveva promosso gli eventi del 1966, sia a far filtrare qualche cauta critica allo stesso Mao Tse-tung che non lo aveva certamente protetto.
Regnante Deng Xiao Ping, s'indaga sugli eccessi della rivoluzione culturale e migliaia di militanti che si sono resi colpevoli di atrocità sono incriminati. Il lavoro dei tribunali sembra serio, e molti vedono una franca indagine su questo orribile passato come il preludio all'inevitabile democratizzazione. Ma la classe dirigente del Partito Comunista Cinese e lo stesso Deng la pensano diversamente. La repressione del movimento degli studenti in Piazza Tiananmen nel 1989 segna la fine della breve primavera di speranze democratiche in Cina.
Dopo Tiananmen, il regime si chiude su se stesso. Su Mao, responsabile secondo Jung Chang di settanta milioni di morti, si applica la "regola delle dieci dita", che sembra usata in Italia anche da Diliberto e compagni: nove dita, insegnano i libri di scuola cinesi, lavoravano per il bene del popolo, una sfuggiva al controllo e deviava. Come ricordano Roderick MacFarquhar e Michael Schoenhals nella loro recente summa storica sulla rivoluzione culturale, Mao's Last Revolution (Harvard University Press, Cambridge [Massachusetts], 'altra opera indispensabile nonostante la mole (oltre 600 pagine) – gli storici cinesi e stranieri che indagano sulle atrocità, fino ad allora incoraggiati dal regime di Deng, improvvisamente trovano ostacoli. Gli archivi, che si erano miracolosamente aperti, si chiudono. Le istruttorie sono concluse frettolosamente e le condanne sono sorprendentemente lievi: meno di cento condanne a morte in tutta la Cina – un Paese che ha il record di pene capitali nel mondo, applicate anche a reati che non implicano la perdita di vite umane – per i massacri di massa della rivoluzione culturale, pene da cinque a quindici anni per i responsabili di autentici eccidi.
Rieducare i rei. Mangiandoli
Un dramma nel dramma è quello costituito da una forma di cannibalismo che un sociologo non può non chiamare rituale, dove i "nemici del popolo" sono mangiati in adunate di massa, un fatto che in questa forma non ha precedenti neppure nella storia del comunismo. Gli archivi non sono più aperti ma molti documenti esistono ancora. A Zheng Yi dopo Tiananmen è vietato di pubblicare il suo libro in Cina. Ma riesce a farlo pubblicare a Taiwan prima di fuggire, ormai da ex-comunista, negli Stati Uniti. Scarlet Memorial resta così un monumento alle vittime di una delle peggiori atrocità del secolo XX, anche se l'indagine riguarda solo alcune prefetture, in particolare quella di Wuxuan, nella provincia sud-occidentale di Guangxi. Come riassume Jung Chang, a Wuxuan (e non solo lì) "nelle adunate di denuncia, il pezzo forte del regime maoista, veniva praticato il cannibalismo. Le vittime venivano macellate e alcune parti scelte dei loro corpi, il cuore, il fegato e talvolta il pene asportate, spesso prima che i poveretti fossero morti, cucinate sul posto e mangiate in quelli che all'epoca erano chiamati ‘banchetti di carne umana'". Nel solo Guangxi, Zheng Yi calcola in almeno 10mila il numero dei "cannibalizzati".
Il caso del Guangxi è particolarmente clamoroso – e ha suscitato dopo la rivoluzione culturale il maggiore interesse a Pechino, con inchieste e processi – ma è certo che, forse non sulla stessa scala, il cannibalismo rituale comunista abbia celebrato i suoi orrendi fasti anche in altre province della Cina. L'aspetto straordinario delle vicende del Guangxi nasce però dal fatto che tutto è documentato non da una propaganda anticomunista, ma da inchieste e processi promossi all'epoca di Deng dallo stesso Partito Comunista Cinese.
Ove leggesse questi testi, Diliberto potrebbe ripensare alla sua reazione indignata quando in campagna elettorale Silvio Berlusconi parlò di cannibalismo nella Cina di Mao. Romano Prodi chiese scusa alla Cina, e anche qualche pavido alleato parlò di esagerazioni. La stessa difesa dei sostenitori di Berlusconi su qualche giornale era incompleta: si riferiva ai casi di cannibalismo nell'epoca precedente del Grande Balzo in Avanti, dovuti alla fame, non all'ideologia, anche se la fame era stata provocata dalle dissennate riforme di Mao. L'unicità – anche rispetto ai casi della Russia staliniana descritti nel recente volume L'île aux cannibales dello storico Nicolas Werth (Perrin, Parigi 2006), dove certo erano le guardie a mangiare i detenuti e non viceversa, ma non è che avessero molto altro da mangiare – degli episodi documentati da Zheng Yi e Yung Chang sta nel fatto che nella Cina della rivoluzione culturale nessuno moriva più di fame come negli anni 1950. I "banchetti di carne umana" non miravano a placare la fame, ma erano definiti "dimostrazioni esemplari di eliminazione", il cui scopo era terrorizzare ogni potenziale dissidente e infliggere al "nemico", cioè a chiunque la pensasse diversamente da Mao, e ai suoi figli, un trattamento che mostrasse a tutti che il regime non li considerava persone umane.
L'idea di "nemico" era molto ampia. Non erano "cannibalizzati" solo quanti erano stati iscritti a partiti diversi da quello comunista o erano discendenti di proprietari terrieri. Le stesse Guardie Rosse si erano divise in una "grande fazione" e in una "piccola fazione", e Mao stesso giocava sullo scontro per controllare meglio il movimento. Quando Mao si schiera decisamente con la "grande fazione" centinaia di membri delle Guardie Rosse, fedelissimi del "Grande Timoniere", sono a loro volta cannibalizzati. Zheng Yi considera l'aspetto allucinante della sua inchiesta non il fatto che bambini (la cui carne è considerata più tenera e gustosa) siano mangiati di fronte ai genitori (e viceversa) e donne orrendamente torturate prima di finire sul tavolo dei "banchetti di carne umana", né che il cuore e il fegato dei "cannibalizzati" siano conservati per anni sotto sale per essere consumati più tardi quali prelibatezze dotate anche di presunti poteri curativi. No: quello che lo sconvolge è che – quando si trattava di Guardie Rosse della "piccola fazione" – queste si facessero macellare o strappare brandelli di carne mentre erano ancora vive gridando "Viva il Partito" o "Viva Mao", convinte che il Grande Timoniere ignorasse o disapprovasse le atrocità. E invece – sul punto il libro di MacFarquhar e Schoenhals è implacabile quanto quello di Jung Chang – Mao non solo sapeva ma organizzava il terrore fino ai suoi limiti più estremi, nell'ambito di una complessa manovra per conservare un potere assoluto che gli sembrava minacciato.
Ci sono stati altri casi di cannibalismo – come si è accennato, nei GULag siberiani e nella stessa Cina delle grandi carestie – nella storia di morte del comunismo. Ma quello della rivoluzione culturale è l'unico dove la fame non c'entra, non può essere invocata per fornire una qualunque difficile giustificazione. No: si mangiavano i bambini – e gli adulti, le donne, i vecchi – non per necessità alimentare, ma per celebrare un rito politico con toni a loro modo "religiosi". Gli unici precedenti – ma su scala numerica assai più ristretta – li troviamo nel cannibalismo ai danni dei rivoltosi cattolici vandeani praticato dalle più fanatiche truppe della Rivoluzione francese e documentato dallo storico francese Reynald Secher. È difficile immaginare che Diliberto chieda scusa a Berlusconi. Ma, appurato che i comunisti mangiavano per davvero i "nemici di classe", bambini compresi, speriamo che non si indigni più quando Mao è dipinto per quello che era: il maggiore assassino della storia, responsabile di 70 milioni di morti. E non si stupisca se "comunista" resterà, per molti e per sempre, una parola che odora di tortura, di strage e di sangue.
di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 5, n. 38, 23 settembre 2006)