(l’Espresso) La casa di Dio torni ad esser casa di cristiani

  • Categoria dell'articolo:Pubblicazioni

Sharing is caring!

 A Tor Tre Teste è nata una chiesa bellissima. Ma smemorata e muta
Il papa in visita alla nuova chiesa costruita a Roma da Richard Meier. Fatta solo di pareti nude, incapaci di narrare la fede cristiana. Pietro De Marco la mette a confronto col duomo di Monreale e dice come farla rivivere

di Sandro Magister  ROMA, 24 marzo 2006 – La foto qui sopra è di una chiesa nuovissima nella periferia di Roma, in località Tor Tre Teste. L’ha ideata e costruita un architetto dei più rinomati al mondo, l’ebreo americano Richard Meier, in occasione dell’Anno Santo del 2000. È intitolata a Dio Padre Misericordioso.

Domenica 26 marzo Benedetto XVI visiterà questa chiesa e vi celebrerà messa. Sarà la sua seconda visita a una parrocchia romana, da quando è papa.

La nuova chiesa è ritenuta un capolavoro dell’architettura religiosa contemporanea ed è meta di numerosi visitatori e turisti.

A questi viene detto che essa ha la forma di una barca: la barca della Chiesa con al timone il successore di Pietro.

Viene spiegato che le tre vele di cemento levigato e bianchissimo simboleggiano la Trinità, e che la vela più grande indica la protezione di Dio sul suo popolo.

Viene fatto loro notare che un raggio di sole, al tramonto, illumina il crocifisso posto sopra l’altare.

Ma appunto, tutto ciò dev’essere detto e spiegato. Perchè la chiesa è nuda e spoglia e taciturna, sia fuori che dentro. È stata pensata così, in omaggio a quell’assenza di immagini che è il dogma di tanta architettura sacra moderna.

Lo stesso crocifisso che è sopra l’altare – un bel crocifisso del Seicento di legno e cartone – hanno dovuto prenderlo e portarlo lì da un’altra chiesa della periferia romana.

In un altro angolo è stata provvisoriamente collocata una Madonnina biancoazzurra su una colonnetta di plastica.

Piccoli segni – questi ultimi – della volontà di riempire un vuoto avvertito come insostenibile.

C’è infatti qualcosa che stride tra la nudità di queste pareti pur geometricamente incantevoli e la straripante ricchezza di immagini che distingue due millenni di arte cristiana.

È attraverso queste immagini che la fede cristiana ha parlato alle genti e s’è trasmessa di generazione in generazione. L’improvviso mutismo dell’arte religiosa moderna è questione seria che investe anzitutto la Chiesa.

La quale ne è consapevole, nelle sue menti più avvertite.

Ne è consapevole papa Joseph Ratzinger, come risulta da tante sue pagine sull’arte cristiana scritte da teologo e cardinale.

Ne è consapevole la conferenza episcopale italiana, quando promuove – come parte del suo “progetto culturale” – una storia-catechesi dell’arte cristiana in Italia in tre splendidi, illustratissimi volumi curati da Timothy Verdon, di cui il primo è già in libreria, stampato dalle edizioni San Paolo.

C’è un abisso tra le nude pareti della chiesa di Meier e, ad esempio, i più di seimila metri quadrati di mosaici che rivestono la cattedrale di Monreale in Sicilia – capolavoro dell’arte normanna del XII secolo – con le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, gli angeli e i santi, i profeti e gli apostoli, i vescovi e i re, e il Cristo “Pantocrator”, reggitore di tutto, che dall’abside avvolge con la sua luce, il suo sguardo, la sua potenza il popolo cristiano.

Il confronto tra questi due modelli antitetici – il duomo di Monreale e la chiesa di Meier – è un confronto anche tra due teologie e tra due tipi di presenza cristiana nel mondo.

È quanto fa Pietro De Marco nella nota che segue. De Marco è professore di sociologia della religione all’Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.


Per una chiesa abitabile dalla “Civitas Dei

di Pietro De Marco


Ho rivisto il duomo di Monreale. Avviene di trovarsi sgomenti di fronte a un’apparizione così totale e inattesa. L’ho rivisto con occhi nuovi, nell’unità del suo impianto murario e della coltre di mosaici che lo riveste: architettura ed icona, simboli che aprono all’oltre di quelle mura e di quelle immagini, rappresentazione della Città di Dio.

Ciò che appare alla comunità radunata in quel duomo è, infatti, una epifania della “Civitas Dei” quale sussiste nel coro degli angeli, nella sovranità del Risorto, nei santi e contemporaneamente nell’insieme di uomini in cammino di salvezza sulla terra, che si specchiano nella storia sacra che qui invade le pareti: così come nel “De Civitate Dei” di sant’Agostino la storia biblica costituisce l’orditura della drammatica narrazione delle storie del mondo.

Per il fedele, volgere i passi verso la cattedrale è accedere al monte di Sion. Dice la Lettera agli Ebrei, 12, 22-24: “Voi vi siete accostati al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti portati alla perfezione, al Mediatore della Nuova Alleanza e al sangue dell’aspersione dalla voce più eloquente di quella di Abele”.

Lo stare nella cattedrale è autentica contemplazione della Gerusalemme del cielo, è partecipazione per immagine alla Città di Dio. Il concreto spazio dell’edificio e l’immane mosaico in cui si dispiega la notizia del sapere salutare sono la presenza ammaestrante del mistero. E sono ad un tempo, in quel popolo radunato, l’evidenza delle “duae civitates”: protesa al cielo o già celeste la Città di Dio; non aperta al cielo la città “carnale” che a Dio si oppone.


* * *

Rimuginando queste cose, mi è parso di capire meglio una mia tenace diffidenza per la purezza aniconica, priva di immagini, degli interni delle chiese contemporanee, di alta o di modestissima architettura, cattoliche e non cattoliche o di uso misto, come avviene frequentemente nel nord d’Europa.

La parete bianca, in uno spazio sacro, agisce come uno specchio vuoto, oppure come uno schermo bianco per i fantasmi e le passioni dell’anima. Le storie, le immagini che vi si proiettano sono ad arbitrio le storie della propria singolarissima vita. Certo, qualcosa di simile avviene anche di fronte all’immagine sacra, alla statua del Sacro Cuore, alle lacrime di Maria, eppure in modalità tutt’affatto diverse. L’immagine sacra accoglie e assorbe il moto, l’irraggiamento della nostra anima; vi si sostituisce e viene incontro all’anima come l’Altro salutare, come mondo sacro e ricco di senso che spezza il circolo solipsistico.

Immersa, invece, nel biancore aniconico l’anima non esce veramente da sé, se non nella eventuale forma di una quiete da saturazione estatica, pericolosamente ai limiti dell’irreligione. Quelle pareti che sembrano veicolo di trascendenza, perché così illusoriamente prossime all’indicibilità di Dio, sono invece impenetrabili alla trascendenza proprio perché vuote e prive di forme. Al Dio delle grandi fedi ci si approssima solo percorrendo le tracce, i segni, i saperi che ci sono stati da lui rivelati e donati, e senza i quali la fede si smarrisce.

Ma vi è nel complesso figurale di Monreale, dominato dal gesto ammaestrante del Cristo “Pantocrator”, reggitore di tutto, qualcosa che mi preme di più sottolineare. Senza icona della storia salvifica e della Gerusalemme celeste lo spazio della chiesa, di ogni chiesa cristiana, non perde solo e genericamente sacralità. Perde la sua abitabilità da parte del popolo cristiano.

Anche in chi sia inconsapevole di tale cittadinanza viene trasferito un sapere effettivo, in certo modo sperimentale, per il solo fatto di immergersi nella vertigine architettonico-figurale di una chiesa. Vertigine dell’intero, del cielo e della terra.

L’arcivescovo di Monreale, Cataldo Naro, ha ricordato in una sua recente lettera pastorale la visita del grande teologo tedesco Romano Guardini in quel duomo, nella Settimana Santa del 1929. Abbiamo perso – notava Guardini pensando al cristianesimo nordico – un modo essenziale della partecipazione orante, quello che “si svolge guardando”, un modo che invece “lì ancora c’era” nei fedeli raccolti per la liturgia del Sabato Santo: “la capacità di vivere-nello-sguardo, di stare nella visione, di accogliere il sacro dalla forma e dall’evento, contemplando”.

Non, dunque, salto nel buio, disperata e non biblica metafora della fede. Ma salto nella luce, e memoria e via alla Luce. Orante tra altri uomini, preso nell’azione liturgica e nel divino congegno delle immagini per cui mi sono presenti il primo Adamo e il secondo, Cristo, i martiri e i beati, mi scopro membro della “Civitas Dei” tutta, mi so già e non ancora uomo, anzi cittadino, celeste.

La verità stessa della vita ultraterrena – che non è certo il nostro ricongiungimento con l’anima del mondo – riceve una particolare luminosità nel vederla contigua con le forme dell’esistenza dei pellegrini sulla terra. Il relativo declino, nell’ultimo secolo, di questa apertura dell’anima alla “civitas” degli angeli e dei beati non deve far dimenticare che tale corpo terreno-celeste della chiesa è un orizzonte vitale della spiritualità e devozione cattolica. L’arte delle chiese – che in questo ha raggiunto il suo grado eccelso nell’età barocca – esprime la vertiginosa continuità dell’unica “civitas” ove morti e viventi, santi e peccatori, coesistono nell’armonia tra il tempo che ci divora e l’eternità beata.


* * *

Questo sapere della divina cittadinanza è essenziale al sapersi cristiani. Di tale sapere, però, se l’impuro iconico delle chiese cattoliche e ortodosse è veicolo e conferma vivente, il puro aniconico è negazione.

Perciò dovremmo diffidare degli spogli spazi di preghiera comune e di culto, in cui appare magari solo una croce e senza l’immagine del Figlio. L’anima non riposa in se stessa. L’annuncio cristiano dice cosa diversa: “Cor quiescit in Te”, il cuore riposa in Dio, scrive Agostino; un Dio di parole e atti, di forme e figure, che edifica un popolo e traccia visibili percorsi di grazia. La parete bianca svuota i saperi della fede, mentre sono in realtà iconici, e non vuoti, gli stessi segni religiosi non figurativi dell’ebraismo e dell’islam.

La visita alla prestigiosa chiesa del Padre Misericordioso costruita dall’architetto Richard Meier a Roma Tor Tre Teste impone una riflessione critica sull’intelligencija ecclesiastica e laica, non solo italiana, che alimenta il gusto dominante per l’impoverimento iconico degli spazi e sacri.

Appartiene alla stessa deriva intellettuale l’evidenza che la chiesa di Meier è tenuta come un qualsiasi spazio chiesastico bello, destinato a cultori e turisti, tendenzialmente desacralizzato fino alla celebrazione liturgica, come se prima e dopo la celebrazione esso fosse uno spazio neutro.

Non è, comunque, la qualità architettonica che fa problema, anche se legittima è la polemica di grandi architetti contro la mediocre follia di tanta contemporanea architettura di chiesa. La chiesa di Meier è formalmente bella. Ma questa condizione non è né necessaria né sufficiente per una chiesa abitabile dalla “Civitas Dei”.

Insisto: a sancire la trasparenza dell’oggetto architettonico alla celeste Gerusalemme e ad aprire il luogo alla fiducia del credente sono i segni visibili dell’uso sacro, catechetico e rituale. Decisiva, per la fruibilità sacra di uno spazio, non è la struttura muraria, ma lo sono l’arredo decorativo e iconografico – di cui Monreale è paradigma – e il corredo funzionale: vasi sacri, vesti, ogni altro oggetto dedicato al rito.

Questi segni, nella chiesa di Meier e in altre chiese moderne, così come in molta architettura romanica “ripulita” dai restauri del Novecento, sono troppo assenti o rimossi. Nella chiesa del Padre Misericordioso l’altare non appare come altare, se non analogo a tanti altri elementi sconsacrati, poiché è un monolite di travertino senza segni qualificanti, né una croce, una tovaglia, un leggío, insomma senza traccia della sua destinazione: un oggetto disponibile. Mentre è la sua gelosa delimitazione che rende l’oggetto sacro non più disponibile ad altro.

Ogni chiesa siffatta tornerà ad essere spazio sacro se la “plebs sancta”, il popolo dei fedeli, prenderà il coraggio di rompere l’incanto perverso dell’interno bianco, vuoto, spiritualistico più che spirituale, reintroducendo eversivamente “brutte” statue del Sacro Cuore, una grotta di Lourdes, una grande immagine di padre Pio, una teca con un corpo di cera di un Santo, degli ex voto, le candele e una Via Crucis; insomma quello che c’è in ogni chiesa che non sia stata denudata dal purismo di parroco e parrocchiani, o di qualche ufficio di curia.

Il sacro iconico, meglio se realizzato in modi alti da mani di artista, deve poter essere sfiorato, toccato, se si ardisce di farlo. Solo se la chiesa di Meier reggerà all’irruzione del sacro iconico ordinario, per cui io lì possa parlare, intimamente e spudoratamente, con la presenza anche artisticamente inelegante del Dio con noi, solo allora sarà una chiesa in cui potrà sostare non spaesata la “Civitas Dei” terrena.

Sottolineo il “non spaesata”. Contro la tesi dei teologi aniconici per cui lo spaesamento è in sé itinerario di fede.

__________


Un più ampio intervento di Pietro De Marco su questi temi, con un dibattito a più voci sulla architettura religiosa contemporanea, magnificamente illustrato, è in questa pagina della Newsletter “Il Covile”, ideata e curata da Stefano Borselli:

> Speciale architettura religiosa

__________


Un altro scritto di Pietro De Marco su questo tema, in questo sito:

> I nuovi iconoclasti hanno la laurea in teologia (28.8.2003)

__________


Il primo dei tre volumi sopra citati sull’arte cristiana in Italia, promossi dalla conferenza episcopale italiana come parte del suo “progetto culturale” di dialogo con la società moderna:

Timothy Verdon, “L’arte cristiana in Italia. Origini e Medioevo”, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2005, pp. 400, con 455 illustrazioni.

Il secondo volume sarà in libreria entro quest’anno e il terzo nel 2007.