A Roma c’è un cardinale che sogna l’America
È il vicario del papa, Ruini. Nel rapporto tra religione e società tipico degli Stati Uniti vede un modello anche per l’Europa. L’analisi di un grande sociologo delle religioni, Peter L. Berger
di Sandro Magister
L’ha fatto presentando a Roma, a un folto pubblico, il primo libro pubblicato da Joseph Ratzinger dopo l’elezione a papa: “L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture”, edizioni Cantagalli.
In precedenza, Ruini aveva richiamato l’attenzione sul modello americano sia in un passo del suo libro pubblicato lo scorso aprile: “Nuovi segni dei tempi. Le sorti della fede nell’età dei mutamenti”, sia nella conferenza letta l’11 febbraio 2005 a un convegno dell’Opera Romana Pellegrinaggi: “Quale spazio per il cristianesimo nella nuova Europa”.
In “Nuovi segni dei tempi”, aveva sostenuto:
“Quelle tensioni e contrapposizioni di tipo etico e anche religioso che sembrano caratterizzare in maniera crescente gli Stati Uniti d’America potrebbero rivelarsi non semplicemente dei residui delle peculiari origini di tale nazione, ma piuttosto l’anticipazione di un futuro che bussa già alle porte dell’Italia come degli altri paesi europei”.
E nella conferenza aveva detto:
“Negli Stati Uniti la situazione è diversa [rispetto all’Europa]: alla loro origine vi sono infatti le ‘Chiese libere’, con una rigida separazione istituzionale rispetto allo stato, ma con una notevole vitalità religiosa capace di esercitare un forte influsso pubblico. È questa la cosiddetta ‘religione civile’ americana, di carattere non confessionale, anche se con una chiara impronta cristiana-protestante: con l’incremento della percentuale della popolazione cattolica, in questa ‘religione civile’ stanno crescendo però il contributo e l’influenza cattolica.
“Un tale modello sembra meglio in grado di garantire, nell’attuale società libera e democratica, i fondamenti morali della convivenza e in ultima analisi una comune visione del mondo, cosicché la promozione della democrazia (in concreto della libertà e della socialità) appaia un imperativo morale in sintonia con la fede religiosa, come già affermato da Alexis de Tocqueville. […] Ma un tale contributo è realmente possibile ed efficace soltanto sulla base di una fede autenticamente vissuta oggi, e non semplicemente in virtù dell’eredità culturale del nostro passato cristiano che, se non alimentata dalla fede vissuta, tende fatalmente ad affievolirsi”.
Che fondamento ha la visione di Ruini? Sul confronto tra i modelli americano ed europeo nel rapporto tra cristianesimo e società è riportato qui sotto il punto di vista di un sociologo della religione di grande fama, Peter L. Berger, di fede luterana, docente di sociologia e teologia alla Boston University e direttore dell’Institute on Culture, Religion and World Affairs.
Berger ha in corso una ricerca sulla secolarizzazione in Europa assieme alla sociologa francese Danièle Hervieu-Léger.
Questo suo commento è parte di una nota apparsa la prima volta sul n. 27, 2004 di “Transit”, la rivista dell’Institut für die Wissenschaften vom Menschen, di Vienna, Verlag Neue Kritik, Francoforte sul Meno.
L’istituto viennese, diretto da Krzysztof Michalski, aveva ricevuto dalla Commissione Europea presieduta all’epoca da Romano Prodi l’incarico di studiare “la dimensione spirituale e culturale dell’Europa”. E ne è uscito un’insieme di riflessioni tra cui quella di Berger.
Nel giugno 2005 quei saggi sono stati pubblicati anche in Italia a cura del professor Michalski e di Nina zu Fürstenberg della rivista “Reset”, nel volume edito da Marsilio: “Europa laica e puzzle religioso. Dieci risposte su quel che tiene insieme l’Unione”, con una postfazione di Romano Prodi.
Ecco dunque i passi salienti della nota di Berger sulla questione richiamata dal cardinale Ruini:
Religione e integrazione europea: osservazioni dall’America
di Peter L. Berger
[…] Il confronto tra Europa e Stati Uniti è, in linea teorica, assolutamente strategico per la sociologia della religione. La secolarizzazione – ovvero il declino nella fede e nella pratica religiosa – è comunemente considerata un’inesorabile conseguenza della modernità. Eppure l’America, che difficilmente può essere definita meno moderna dell’Europa occidentale, è ardentemente religiosa se paragonata al Vecchio Continente. Spesso si fa riferimento a una “eccezione americana” (a volte in senso positivo, altre in senso negativo). L’America è senza ombra di dubbio un paese eccezionale per parecchi versi, ma non per quanto concerne la religione: la maggior parte del mondo è religiosa, come lo è l’America. L’eccezione qui è l’Europa: come dice il titolo di un recente libro della sociologa inglese Grace Davie. Ed è a questa eccezione che bisogna cercare una spiegazione.
La distinzione convenzionale è tra “America religiosa” ed “Europa laica”. Ma le cose sono molto più complicate. Da un punto di vista americano, le discussioni a proposito del riferimento alle fondamenta religiose – “giudaico-cristiane” o “giudaico-cristiano-islamiche” – dei cosiddetti “valori europei” nella costituzione dell’Unione sono abbastanza paradossali. Nella costituzione degli Stati Uniti l’unico riferimento alla religione è contenuto nel Primo Emendamento, che garantisce il libero esercizio della fede e allo stesso tempo ne proibisce l’imposizione da parte del governo. Nessun accenno a fondamenti religiosi dei “valori americani” (la Dichiarazione di Indipendenza, che in alcuni passaggi usa un linguaggio di questo genere, non fa infatti parte della costituzione). Eppure tale omissione e non è stata di alcun ostacolo a un esuberante sviluppo della religiosità. Potrebbe essere che proprio tale vaghezza abbia in realtà addirittura agevolato un’evoluzione in questo senso? Alexis de Tocqueville ne era convinto. Forse l’Europa ha una lezione da imparare?
In ogni caso, per quel che concerne la religione esistono tra i due continenti differenze ma anche analogie. (Per la precisione, il confronto si riferisce all’Europa centrale ed occidentale, fulcro del suddetto secolarismo. Via via che ci si sposta verso est e verso sud-est, infatti, la situazione che si trova è molto diversa).
Quali sono le differenze?
Qualsiasi indice oggettivo di atteggiamento religioso è più elevato in America, in termini sia di frequenza in chiesa, sia di appartenenza al clero, sia di supporto materiale alle istituzioni religiose. In Europa c’è sempre stato un alto livello di “de-istituzionalizzazione” della religione. Le Chiese sia cattolica che protestanti versano pressoché ovunque in uno stato di grave crisi istituzionale, con poche oasi relativamente isolate e circoscritte di “parrocchialità” tradizionale.
Al contrario, la vita di Chiesa, in America, continua vigorosamente. C’è stato un calo di partecipazione nelle Chiese protestanti cosiddette “mainline”, molto meno in quella cattolica. Senza contare che negli Stati Uniti esiste un fenomeno pressoché assente in Europa: la presenza esuberante del protestantesimo evangelico, con circa 40 milioni di Americani che si autodefiniscono “cristiani rinati”. La stessa differenza si nota anche negli indici soggettivi, ovvero nell’espressione della propria fede in Dio, in Gesù Cristo Salvatore, nella vita dopo la morte e in generale nella dottrina cristiana tradizionale.
Se Danièle Hervieu-Léger ha ragione nel suo ultimo libro “Catholicisme, la fin d’un monde”, in Europa si è verificato anche un declino di quello che la studiosa definisce il ruolo “civilizzatore” della religione, ovvero del modo in cui intere culture sono state plasmate dai valori cattolici o protestanti, a prescindere dal destino incontrato dalle loro Chiese. Pertanto, l’America può essere ancora considerata una civiltà protestante mentre la Scandinavia, tanto per dire, no.
Ma quali sono le analogie?
La più importante è l’individualizzazione. Il che vuol dire che la religione non è più radicata nella cultura in modo scontato, ma piuttosto diventa oggetto di scelte individuali. La Hervieu-Léger ha definito questo fenomeno “bricolage” (termine che suggerisce l’armeggiare con dei Lego). Robert Wuthnow, a proposito dell’America, ha invece usato il termine “patchwork religion” per definire lo stesso fenomeno. In entrambi i continenti ciò include anche chi si definisce non religioso ma “spirituale”. Molti di loro sono impegnati in una perpetua ricerca (la Hervieu-Léger li chiama “pellegrini”) più che dimostrarsi risoluti sostenitori di questa o quella fede. In Europa questa gente esprime la propria religiosità nei modi più disparati, generalmente al di fuori delle Chiese. In America, invece, non di rado fondano delle Chiese. Il prototipo americano di questo genere è la cosiddetta Chiesa Unitariana-Universalista, che si autodefinisce ufficialmente come comunità di cercatori (da qui una battuta popolare: come inizia la versione unitariana del Padre Nostro? “To whom it may concerne”, per chi fosse eventualmente interessato…). Questo gruppo, partito in sordina, sta significativamente prosperando.
A mio avviso questo fenomeno, e non il secolarismo, è il vero prodotto della modernità, che pluralizza l’esistenza individuale e rende difficile le certezze date per scontate, nella religione come in qualsiasi altro ambito. Tale pluralizzazione è determinata da una molteplicità di sviluppi connessi alla modernità: urbanizzazione, immigrazione di massa, alfabetizzazione, mezzi di comunicazione di massa. Tutti questi fattori mettono l’individuo a confronto con un’infinita varietà di visioni del mondo, sistemi di valori e stili di vita, costringendolo a una scelta (il concetto elaborato da Jean-Paul Sartre di “condanna alla libertà” è dubbio che descriva appieno la condizione generale umana, ma ben si applica alla condizione moderna). La modernità può caratterizzare diversi regimi politici e stati di diritto, ma la pluralizzazione da essa prodotta risulta certamente potenziata da sistemi democratici che garantiscono la libertà religiosa. Quando le Chiese non possono più fare affidamento sulle forze di polizia per riempire i banchi sono costrette a competere fra loro per conquistare la fedeltà ai propri servizi da parte di liberi consumatori. Funziona così anche in paesi come la Francia o la Svezia in cui ufficialmente una confessione tradizionale viene professata dalla maggioranza della popolazione. Anche in mancanza di altre confessioni immediatamente disponibili, l’individuo è libero di non aderire a nessuna e/o di comporre autonomamente un proprio “patchwork” religioso-morale.
Perché questa diversità?
Come già detto in precedenza, fin dai tempi di Tocqueville la classica spiegazione della particolare vitalità della religione americana è sempre stata la separazione tra stato e Chiesa. Questa è quasi certamente una spiegazione valida. La mancanza di un supporto statale ha costretto le Chiese americane a confrontarsi tra loro, e la competizione rende più vitali le istituzioni. (Lo si è potuto vedere molto prima della recente introduzione della teoria economica nella sociologia della religione da parte di Rodney Stark e altri, se ha senso pensare a un mercato religioso nel quale accadono dei processi economici).Un fattore altrettanto importante, inoltre, è costituito dal fatto che le Chiese che non si identificano con la struttura statale non sono soggette al risentimento che prima o poi finisce sempre per colpire le istituzioni pubbliche .
Ma la faccenda non si esaurisce qui. Se così fosse, non sarebbe possibile che la separazione tra stato e Chiesa in Francia, più rigida che in America, in oltre un secolo non abbia prodotto in alcun modo nelle istituzioni religiose del paese un incremento di vitalità. In realtà, appena in un paese viene introdotta un’effettiva libertà di culto, anche in presenza di un establishment religioso ufficiale, de facto si attua una separazione tra stato e Chiesa. È accaduto più volte nelle democrazie dell’Europa occidentale, senza mai portare a un significativo aumento della vitalità delle Chiese interessate. Alla base della differenza, pertanto, devono esserci altri fattori. Di questi possibili fattori, ne segnalo tre.
Il primo riguarda la tempistica e l’intensità dell’affermazione del pluralismo religioso in America: tale processo ha avuto luogo fin dal primo insediamento europeo in America, con l’alto numero di confessioni protestanti che si diffusero tra le colonie, nessuna abbastanza forte da soppiantare le altre. I tentativi di instaurare una costituzione statal-religiosa, operati nel New England dai congregazionalisti e in Virginia dagli anglicani, sono ben presto falliti proprio a causa di tale pluralismo. La costituzione dell’Unione si è poi limitata a ratificare un pluralismo già esistente. Come ha sottolineato Richard Niebuhr, l’America ha prodotto una nuova tipologia di istituzione religiosa, la “denominazione”, vale a dire una Chiesa che riconosce alle altre confessioni il diritto di esistere. Anche le Chiese teologicamente ostili a una tale capacità di riconoscimento in America sono state costrette ad adegguarvisi. Un caso emblematico è quello della Chiesa cattolica romana.
In secondo luogo, e ancora una volta per motivi storicamente spiegabili, gli americani hanno sviluppato un talento particolare per la creazione di associazioni volontaristiche. Abbandonate tre americani su un’isola deserta, e in breve vi daranno vita a quattro organizzazioni di vicinat. (È opinione comune che la cultura americana sia connotata da un radicale individualismo. A mio avviso è un errore. Gli americani sono molto meno individualisti di altri popoli occidentali, come per esempio i francesi. Piuttosto, sono profondamente associazionisti, che è tutt’altra cosa). Il pluralismo religioso americano ha tratto notevoli vantaggi da questo tratto culturale.
Terzo fattore: lo status attribuito agli intellettuali nei due continenti è molto diverso. Raymond Aron una volta ha definito la Francia il paradiso degli intellettuali e l’America il loro inferno. Forse è un’esagerazione, ma che nasconde una valida intuizione. Fin dall’inizio, l’America si è creata una cultura ad alta connotazione commerciale, e gli uomini d’affari tendono ad avere scarsa stima nei confronti degli intellettuali. Questa differenza ha acquisito particolare rilevanza per quanto concerne il ruolo della religione in entrambi i continenti via via che l’istruzione primaria diveniva universale e obbligatoria. In molti paesi europei, l’istruzione è sempre stata una funzione dello stato centrale. I docenti provenivano dai gradini più bassi di un’intellettualità che tendeva ad essere più secolarizzata rispetto al resto della popolazione.
Al contrario, in America, fino a pochissimo tempo fa, l’istruzione era totalmente gestita dalle comunità locali. Le conseguenze sono ovvie: in Europa, a meno che non ci fosse una scuola religiosa nelle vicinanze, i bambini erano soggetti a un indottrinamento laico, a prescindere dalla volontà dei genitori; in America, invece, i genitori avevano la possibilità di licenziare i docenti di cui non condividevano le modalità di insegnamento. Si potrebbe anche aggiungere che l’Illuminismo americano e l’intellettualità da esso prodotta erano molto meno anticlericali dei loro parenti europei, il che, ancora una volta, va messo in relazione al fatto che in America non esisteva uno strapotere del clero contro cui gli spiriti colti potessero rivolgere le proprie critiche (parafrasando Voltaire, non c’era nessuna infamia da combattere).
Pertanto l’America è davvero diversa dall’Europa, ma presenta con essa alcune significative analogie. […] L’America ha fatto parte di un’asse “borghese protestante” Amsterdam-Londra-Boston che ha sviluppato fin dall’inizio una tradizione di relativa tolleranza. Con lo spostarsi di quest’asse verso Occidente, e via via che la sua tradizione di tolleranza abbracciava una cerchia sempre maggiore di gruppi religiosi – prima le varie confessioni protestanti, poi i cattolici e gli ebrei, e raggiungendo nel tempo praticamente tutte le comunità ad eccezione di quelle che praticano il cannibalismo rituale – il principio dell’associazione volontaria si è intensificato
In cosa consiste il potere di integrazione dell’Europa?
[…] Per capire in che modo la religione può legarsi all’integrazione europea, bisogna considerare il suo ruolo nella sfera pubblica di una società. Nella maggior parte dell’Europa occidentale si può riscontrare il fenomeno descritto da Grace Davie come “credere senza appartenere”. Come accennato prima, gli individui compongono da sé (“bricoler”) una sorta di propria visione religiosa, ma senza aderire attivamente ad una Chiesa. Ma si assiste anche al fenomeno contrario, quello dell’“appartenere senza credere”. È in questo senso che Davie parla di una “religione vicaria”. Molti non partecipano alle Chiese, ma vogliono averle lì, giusto in caso di necessità o semplicemente come presenza simbolica che non si vuole perdere. A mio avviso, Davie ha ragione a ritenere tale fenomeno di vicariato importante. Prendete il caso della Germania. Lo stato raccoglie un’imposta ad hoc e la devolve alle Chiese. Questo “Kirchensteuer” corrisponde a circa l’otto per cento di un’imposta individuale sul reddito, una cifra abbastanza considerevole. Tale tassa, al contrario di altre, non è obbligatoria. Per esserne esentati, basta dichiarare di non aderire a nessuna confessione religiosa (“Konfessionslos”). Non sorprende che molti abbiano sfruttato questa possibilità per incrementare la propria di sponibilità di reddito. Ma quel che più stupisce è che la maggior parte dei tedeschi non lo abbia fatto, compresi molti che non hanno mai messo piede in una chiesa. Le motivazioni addotte sono spesso molto vaghe, ma in fin dei conti chiare. Questa gente vuole che la Chiesa stia lì in quanto presenza simbolica, come una sorta di autorità morale, anche se al momento, nella loro vita, non ne ha bisogno. Ma il bisogno di questa presenza simbolica può all’improvviso manifestarsi nello spazio pubblico nei momenti di crisi[…]. Considerare la religione vicaria non equivale a ritenerla irrilevante. È pertanto ipotizzabile che se l’Europa si trovasse colpita da una crisi di lunga durata il ruolo pubblico delle Chiese tornerebbe in primo piano. […]
[Traduzione dall’originale inglese di Chiara Rizzo]
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Il libro uscito in Italia con il saggio integrale di Peter L. Berger:
“Europa laica e puzzle religioso. Dieci risposte su quel che tiene insieme l’Unione”, a cura di Krzysztof Michalski e Nina zu Fürstenberg, Marsilio, Venezia, 2005, pp. 200, euro 9,90.
La rivista dell’Institut für die Wissenschaften vom Menschen, di Vienna, su cui è uscita la versione tedesca dello stesso saggio:
> “Transit. Europäische Revue”, n. 27, 2004
Di Berger uscirà prossimamente la versione italiana del suo libro del 2003 “Questions of Faith: A Sceptical Affirmation of Christianity”:
Peter L. Berger, “Questioni di fede. Una professione scettica del cristianesimo”, il Mulino, Bologna, 2005, pp. 300, euro 15,00.