(l’Espresso) L’affresco di Raffaello, manifesto teologico

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C’è un padre sinodale in più: Raffaello


La riproduzione della sua “Disputa del Sacramento” campeggia nell’aula del sinodo sull’eucaristia. Timothy Verdon, chiamato a Roma come esperto da Benedetto XVI, spiega perché

di Sandro Magister

ROMA, 17 ottobre 2005 – Nell’aula vaticana dove dal 2 al 23 ottobre si svolge il sinodo sull’eucaristia, sopra il tavolo della presidenza campeggia un grande schermo. In esso appare un famoso affresco di Raffaello che illustra ai padri sinodali proprio il tema della loro assise: la “Disputa del Sacramento”. Al centro della figura, su un altare circondato da altri padri che – mentre adorano – ragionano e discutono, vi è l’ostia consacrata, esposta in un magnifico ostensorio.

L’originale dell’affresco è poco lontano da lì, è nell’ala del Palazzo Apostolico percorsa ogni giorno da migliaia di visitatori di tutte le nazioni e le fedi, a pochi passi dalla Cappella Sistina. Raffaello lo dipinse nel 1509. Fu papa Giulio II ad affidargli questo compito, in quella che era la biblioteca del suo appartamento di rappresentanza e poi ha preso il nome di Stanza della Segnatura.

La “Disputa”, larga 7 metri quanto la parete su cui si trova e contornata dall’arco della volta, fu il primo affresco dipinto in Vaticano dall’artista di Urbino, che allora aveva 27 anni. Ed è anche quello di più denso contenuto teologico. Sulla parete della stessa biblioteca papale dirimpetto alla “Disputa”, Raffaello dipinse subito dopo un’altro famoso affresco, la “Scuola d’Atene”.

Entrambi gli affreschi e l’intera Stanza forniscono una chiave di lettura primaria della fede cattolica così come vissuta dagli umanisti della corte papale, all’alba dell’era moderna.

Una chiave di lettura tuttora potentemente istruttiva, come mostra Timothy Verdon nel testo riprodotto più sotto.

Verdon è uno dei maggiori specialisti al mondo di arte cristiana. Nato in New Jersey nel 1946, è sacerdote a Firenze. Formatosi come storico dell’arte alla Yale University, vive da trent’anni in Italia e dirige l’ufficio dell’arcidiocesi di Firenze per la catechesi attraverso l’arte. È inoltre consultore della pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, fellow del Center for Renaissance Studies della Harvard University, docente alla Stanford University e alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.

Benedetto XVI l’ha invitato al sinodo sull’eucaristia come esperto.

Parte del testo qui riprodotto è apparsa su “L’Osservatore Romano” del 12 ottobre 2005. E ricomparirà in un libro dello stesso Verdon in corso di stampa presso Mondadori: “La Basilica di San Pietro. I papi e gli artisti”.


La “Disputa del Sacramento”, un manifesto in cui la Chiesa si narra

di Timothy Verdon


Che cosa comunicava ai contemporanei quest’immagine incentrata sull’eucaristia? La movimentata assemblea dipinta nel 1509 da Raffaello, con al centro Cristo in gloria che mostra le piaghe, suscitava anzitutto il ricordo iconografico del giudizio universale: il giorno in cui Cristo verrà “sulle nubi e ognuno lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e tutte le nazioni della terra si batteranno per lui il petto” (Apocalisse 1,7).

Per la sensibilità dell’epoca l’impatto immediato, il primo messaggio dell’affresco, aveva un carattere escatologico. Faceva vedere chiaramente il rapporto tra la Chiesa militante sulla terra e quella trionfante nel cielo.

Nell’apparente confusione della scena, poi, oltre alla strana piattaforma di nuvole che divide la parete in senso orizzontale, lo spettatore avrebbe notato l’asse verticale, definito da: Dio Padre, in alto; Cristo che mostra le ferite, in mezzo; lo Spirito Santo in forma di colomba discendente, in un nimbo di gloria sotto Cristo; e ancora sotto – sull’altare posto su tre gradini al livello del pavimento – l’ostia eucaristica in un ostensorio.

Così, sulla prima impressione, genericamente escatologica, l’osservatore attento avrebbe innestato riflessioni più specificamente teologiche, persino dogmatiche: una struttura trinitaria centrale e il sacramento come estensione visibile della vita delle tre persone divine, oggetto dell’attenzione dei personaggi disposti attorno all’altare in basso.

La colonna portante dell’affresco, dal gruppo trinitario giù fino all’ostia, sembra echeggiare le conclusioni del concilio ecumenico celebrato a Firenze settant’anni prima, il cui decreto “Laetentur Caeli” esalta la reale presenza del corpo di Cristo nell’ostia consacrata subito dopo aver definita “ragionevole e lecita” l’aggiunta del “Filioque” nel Credo: e Raffaello in effetti fa vedere lo Spirito che procede dal Padre “e dal Figlio”.

L’attualità di questi riferimenti come anche l’inclusione di ritratti di personaggi dell’epoca tra quelli alla base dell’affresco s’inseriscono tuttavia in un contesto che sottolinea il legame col passato.

I personaggi dell’epoca raffigurati – ad esempio Sisto IV, lo zio di Giulio II, a destra dell’altare, in piedi – si mescolano con padri e dottori della Chiesa primitiva e medievale, senza soluzione di continuità.

E la collocazione dello Spirito Santo sotto Cristo e direttamente sopra l’ostia e l’altare evoca non solo l’affermazione del Concilio fiorentino, ma anche l’antica formula dell’epiclesi eucaristica in cui il sacerdote supplica Dio Padre di inviare lo Spirito santificatore affinché le offerte diventino il corpo e il sangue di Cristo.

Inoltre, i quattro Vangeli che emanano dalle ali dello Spirito posto sopra l’ostensorio alludono all’inscindibile rapporto tra la parola e il pane eucaristico, come nella messa stessa, dove le letture ci orientano verso la pienezza delle Scritture: Cristo incarnato e realmente presente nel sacramento dell’altare.

Per un visitatore dell’età del Rinascimento, quindi, la “Disputa” doveva suggerire una situazione escatologica preannunziata dalla liturgia.

Anche la brillante costruzione prospettica, che nella Roma del primo Cinquecento doveva destare ammirazione, porta l’occhio all’altare situato in uno spazio delimitato dall’emiciclo di nubi su cui siedono Cristo e le altre figure del primo ripiano. Questo spazio semicircolare sembra l’abside di una chiesa spirituale, senza mura né tetto, in cui due assemblee, i cui membri hanno uguali dimensioni e pari dignità, contemplano Cristo. L’assemblea terrena lo vede nel mistero eucaristico, su cui essa ragiona, essendo ancora alla ricerca del senso pieno del mistero. Quella celeste lo vede non più in segno ma com’è ora nella gloria, assieme al Padre e allo Spirito.

Di fondamentale importanza è anche lo schema nascosto con il quale Raffaello ha composto l’immagine: la grande croce costituita dalla linea orizzontale dei santi, profeti e patriarchi sulle nubi, e da quella verticale del Padre, Figlio, Spirito Santo, più l’eucaristia. Questa croce strutturante la visione di gloria, sopra gli armadi di libri, suggeriva che “mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso […] potenza di Dio e sapienza di Dio” (l Corinzi 1, 22-24).

Ma c’è di più. La “Disputa” è la prima immagine che uno vede entrando nella Stanza della Segnatura, ma non è l’unica. Alle spalle del visitatore che varca la soglia per la porta all’angolo Nord-Est , nel senso originario del percorso, vi è la “Scuola d’Atene”, dipinta sulla parete della stanza dirimpetto alla “Disputa”.

È con quest’altro affresco che si coglie la logica globale del programma suggerito a Raffaello.

Le due pareti principali sono infatti legate. “Scuola” e “Disputa” costituiscono un’unica grande immagine in cui il visitatore stesso si muove.

Chi si colloca in mezzo alla Stanza vede avanzare, dalla profondità di un’aula vastissima ancora in costruzione – nella “Scuola d’Atene” – figure nobili tra cui si riconoscono i maggiori filosofi dell’antichità: al centro Platone, che con la destra indica il cielo e porta nella mano sinistra il “Timeo”, e Aristotele, che fa un gesto verso terra e porta la “Etica Nicomachea”. E poi Socrate, Pitagora, Eraclito, Diogene, Euclide, Zoroastro, Tolomeo. Alcuni si sono messi in gruppo e discutono animatamente, altri restano soli, sprofondati nei loro pensieri. L’intera assemblea sembra avanzare verso lo spettatore: un’impressione, questa, generata da poche figure ma rafforzata dall’imponente architettura prospettica.

Nella “Disputa” invece, dall’altra parte della Stanza, Raffaello ha creato l’impressione opposta: i personaggi al piano terra sembrano allontanarsi dallo spettatore, volgendosi all’altare nella profondità dello spazio liturgico definito dall’emiciclo di nubi.

Chi si trova in mezzo alla Stanza ha quindi la sensazione di far parte di un movimento collettivo che inizia nella “Scuola d’Atene” e termina all’altare della “Disputa”.

La magnifica aula della “Scuola” ha poi un carattere architettonico specifico: sembra la navata di una grande chiesa. Ha infatti le forme della nuova Basilica di San Pietro disegnata dall’amico di Raffaello, Donato Bramante, e iniziata tre anni prima dell’affrescatura della Stanza, nel 1506. Un visitatore del periodo familiare con la vita della corte pontificia doveva già conoscere il progetto bramantesco, e sarebbe stato perciò capace di identificare lo spazio architettonico della “Scuola” con la progettata Basilica.

Ponendosi tra i due principali affreschi della Stanza della Segnatura, il visitatore rinascimentale doveva quindi sentirsi come nel transetto dell’erigenda chiesa emblematica della Chiesa universale, lungo la cui navata grandi pensatori del mondo antico avanzano verso l’altare collocato nell’abside definito dalle nubi. Un cultore dell’Umanesimo poteva sentirsi partecipe del millenario progresso dello spirito umano: dal paganesimo greco-romano, attraverso il presente, verso l’eternità di Cristo già intravista, per la fede, nel mirabile segno tenuto davanti all’uomo nella Chiesa, l’eucaristia.

Per il visitatore del primo Cinquecento – come anche per i cattolici credenti di oggi – quel piccolo tondo bianco che Raffaello isola al centro dell’altare era dunque la chiave di tutti i misteri della fede.

L’umanista cristiano vedeva nel pane di Dio non lo statico oggetto di devozione che l’eucaristia era divenuta nel pietismo tardo medievale, ma una dinamica realtà di vita di quell’unità di più membri che è la Chiesa. Donato Acciaiuoli, in un sermone sull’eucaristia pronunciato nel 1468, elenca infatti come primo beneficio del sacramento la comunione ecclesiale. Ma insiste anche sul fascino intellettuale che il mistero ha sempre esercitato e continua ad esercitare sugli uomini. Nella “Disputa” di Raffaello vediamo infatti non solo l’adorazione eucaristica – un atto puramente religioso – ma una movimentata “scuola” di pensatori raggruppati attorno all’altare, i quali si sforzano di penetrare il senso del mistero. Questi dottori cristiani sono altrettanto animati nella ricerca della verità che i loro predecessori pagani, nella “Scuola d’Atene” di fronte.

Per Giorgio Vasari, il primo commentatore della “Disputa” nel Cinquecento, questa intensa attività intellettuale dipinta da Raffaello rappresenta un processo: stanno “scrivendo la messa”, dice, “e sull’ostia che è sull’altare discutono”. La messa, che ri-presenta in maniera incruenta il sacrificio di Cristo in croce, è l’azione liturgica in cui, per opera dello Spirito Santo, la comunità ecclesiale vive la sua piena configurazione a Cristo. “Scrivere” la messa implica l’instancabile e secolare sforzo di capire, approfondire, vivere meglio il mistero di comunione tra cielo e terra, tra Dio e uomo, affidato alla Chiesa.

Anche fuori della azione liturgica vera e propria l’ostia eucaristica rivelava agli umanisti il corpo di Cristo: non solo come reliquia della passione ma anche e prima di tutto come comunione, amicizia, Chiesa. Nell’affresco di Raffaello e nel commento fattone dal Vasari assistiamo al riappropriarsi rinascimentale della visione eucaristica antica: la visione della “Didaché” e di scrittori quale Gaudenzio di Brescia, per il quale il pane “risulta da molti grani di frumento, e così anche il corpo mistico di Cristo è unico, ma è formato da tutta la moltitudine del genere umano, portata alla sua condizione perfetta mediante il fuoco dello Spirito”, e così anche per il sangue: molti acini d’uva che diventano l’unico calice. Questo scrittore antico spiega infine come l’unità eucaristico-ecclesiale viene compiuta: “Segue poi la pigiatura sul torchio della croce. C’è quindi la fermentazione, che avviene, per virtù propria, negli ampi spazi del cuore pieno di fede di coloro che l’assumono”.

Scorrendo nella “Disputa” con lo sguardo verso l’alto – dall’Eucaristia a Cristo e al Padre – appare chiaro che l’unità della Chiesa in terra col suo Capo in cielo, di cui l’eucaristia è segno, scaturisce proprio dal “torchio” della grande croce nascosta che struttura l’intera composizione, e sul cui asse verticale contempliamo la Trinità, mentre quello orizzontale ci rivela il nostro futuro in cielo con Maria e tutti i santi.

Al punto d’incrocio, tenendo uniti gli uomini con Dio, vediamo Gesù Cristo, l’Uomo-Dio, che troneggia sopra le due “Scuole”, quella dei santi dottori e quell’altra di Atene, parte pure essa dell’assemblea cosmica.

Vediamo Cristo sull’invisibile croce della storia, come san Tommaso d’Aquino l’aveva caratterizzata: “Crux non solum fuit patibulum patientis, sed et cathedra docentis”. Una croce che, più che patibolo, diventa qui cattedra.

In questa prospettiva, la Stanza della Segnatura si presenta come un manifesto in cui, all’alba dell’era moderna, la Chiesa si narra: una Chiesa veramente cattolica, veramente universale.

Per il mistero della volontà divina, infatti, anche i pagani fanno parte della Chiesa, inconsapevoli compagni del suo pellegrinaggio verso Dio. Nella loro ricerca di una sapienza spirituale, e nel desiderio di risolvere la straziante divisione tra esperienza individuale e destino comunitario dell’uomo, i pensatori antichi della “Scuola d’Atene” gettarono fondamenta concettuali su cui la Chiesa avrebbe successivamente costruito. Pur nell’inconsapevolezza, essi spinsero la storia verso colui che l’umanista Marsilio Ficino chiama “libro vivente”, Cristo che insegna dalla croce.

Come i patriarchi e profeti d’Israele, anche i filosofi pagani sono pertanto antenati nella fede. Nel transetto di questa chiesa che comprende tutta la storia, con gli antichi nella navata e, davanti, nell’abside, la gloria futura, l’umanista credente del Cinquecento avrebbe forse ricordato parole indirizzate ai pagani di Efeso agli albori della Chiesa:

“In Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo […]. Non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Gesù Cristo. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi, insieme con gli altri, venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito” (Efesini 2, 13-15. 19-22).