(l’Espresso) La potenza dell’Eucaristia

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Sinodo. Sulla salute della Chiesa decide l’eucaristia

Diario dei primi nove giorni di discussione. I due estremi: la perdita di fede e il martirio. Le obiezioni all’ordinazione di uomini sposati. Il caso aperto dei divorziati risposati. Le spinte all’intercomunione con protestanti e ortodossi

di Sandro Magister  ROMA, 12 ottobre 2005 – A metà del suo cammino, il sinodo dei vescovi sull’eucaristia ha fornito della Chiesa mondiale un ritratto ricco di contrasti.

Assumendo l’eucaristia come immagine qualificante della Chiesa – cosa che avveniva anche per la cristianità primitiva, agli occhi degli osservatori pagani – alcuni padri sinodali ne hanno tratto segni positivi, e altri negativi.

Il cardinale Edmund Szoka, ad esempio, è arrivato a denunciare che “alcuni dei nostri sacerdoti, e perfino alcuni vescovi, hanno perso la loro fede nella santa eucaristia e celebrano la santa messa semplicemente come una responsabilità professionale”. Con la conseguenza, lamentata da altri padri sinodali specie d’Europa e d’Occidente, di un calo drammatico della partecipazione alla messa.

Altri invece hanno riferito di un’eucaristia molto vitale, nei rispettivi paesi.

Il cardinale indiano Telesphore Placidus Toppo ha attribuito all’eucaristia, celebrata con grande partecipazione, “una delle storie più belle di successi della missione della Chiesa cattolica. In soli 130 anni la [mia] arcidiocesi di Ranchi ha dato vita a 12 diocesi, ordinando 23 vescovi, centinaia di sacerdoti e migliaia di religiosi”.

L’eucaristia, ha spiegato, ha un effetto straordinariamente liberante:

“I cristiani delle nostre zone tribali hanno piena fiducia, oggi, che la morte salvifica e la risurrezione di Gesù hanno privato della loro forza i principati e le potestà dell’universo e distrutto il loro potere (Col 2, 14-15). In questa esperienza di fede del nostro popolo, l’eucaristia ha operato un cambiamento esemplare allontanandolo dai sacrifici di sangue di un tempo, con cui cercava di placare i cosiddetti spiriti maligni, orientandolo verso la nuova ed eterna alleanza stabilita in Gesù Cristo”.

Un altro cardinale indiano, Varkey Vithayathil, presidente del sinodo della Chiesa siro-malabarese, ha confermato che “le chiese parrocchiali la domenica sono affollate e molti partecipano all’eucaristia anche nei giorni feriali” e che a questa centralità dell’eucaristia si devono la fioritura di vocazioni e il gran numero di sacerdoti e religiosi “che noi inviamo in Africa, in America meridionale e settentrionale, in Europa e in Oceania”.

Un altro vescovo indiano, Dominic Jala, ha aggiunto che alle messe assistono anche molti non cristiani, proprio perché l’eucaristia “ha una grande influenza nell’attirare le persone verso la Chiesa e nell’aiutare le comunità ad essere più missionarie”.

In Vietnam, ha detto il vescovo Pierre Tran Dinh Tu, “la gente che va a messa è circa l’80 per cento la domenica e il 15 per cento nei giorni feriali. Nelle grandi feste come il Natale e la Pasqua questo numero può raggiungere il 96 per cento. Il culto eucaristico ha effetti salutari: il livello della vita religiosa si è innalzato, le attività comunitarie sono più animate, la comunione fraterna è più tangibile e l’aiuto reciproco tra le famiglie è divenuto più spontaneo e diffuso”.

In Messico, ha detto il presidente della conferenza episcopale José Guadalupe Martín Rábago, l’associazione dell’Adorazione Notturna dell’eucaristia conta su oltre quattro milioni di adoratori, “nello spirito delle prime comunità cristiane che tenevano veglie di preghiera alla vigilia delle grandi feste liturgiche”. E il cardinale Jozef Tomko s’è detto impressionato dalla “massiccia manifestazione di fede” del congresso eucaristico internazionale tenuto a Guadalajara nel 2004, con milioni di partecipanti.

Più preoccupato s’è detto invece il cardinale Cláudio Hummes, di San Paolo del Brasile:

“In Brasile i cattolici diminuiscono in media dell’1 per cento all’anno. Nel 1991 i brasiliani cattolici erano circa l’83 per cento, oggi, secondo nuovi studi, sono appena il 67 per cento. Ci domandiamo con angoscia: fino a quando il Brasile sarà ancora un paese cattolico? In conformità con questa situazione, risulta che in Brasile per ogni sacerdote cattolico ci sono già due pastori protestanti, la maggior parte delle Chiese pentecostali. Molte indicazioni mostrano che lo stesso vale quasi per tutta l’America Latina e anche qui ci domandiamo: fino a quando l’America Latina sarà un continente cattolico? La risposta della Chiesa in Brasile sono, in primo luogo, le missioni, comprese le visite missionarie domiciliari permanenti. Una Chiesa missionaria deve essere profondamente eucaristica, poiché l’eucaristia è la fonte della missione”.

In Africa, viceversa, vi sono paesi in cui i cristiani sono in aumento e la partecipazione alla messa è alta, ma con problemi d’altro tipo. Il vescovo Rosario Pio Ramolo, del Ciad, ha detto che “pochi fanno la comunione durante le celebrazioni eucaristiche a causa della loro situazione matrimoniale: ritardo nel regolarizzare il matrimonio, paura del sacramento del matrimonio, poligamia”.

Più ottimista s’è mostrato il vescovo Gervais Banshimiyubusa, del Burundi, paese cattolico al 60 per cento sconvolto dalle stragi etniche. Lì le messe, ha detto, “sono rimaste i soli luoghi dove le persone di diverse etnie possono incontrarsi per pregare per la loro riconciliazione. Grazie all’Eucaristia, la Chiesa in Burundi ha ritrovato lo splendore della dimensione cristiana del martirio”.

E di un’eucaristia di martiri ha parlato – scuotendo e commuovendo gli astanti – il vescovo Lucian Muresan, presidente della conferenza episcopale romena:

“Nel nostro paese, la Romania, i comunisti hanno cercato di dare all’uomo soltanto il pane materiale, ed hanno voluto cacciare dalla società e dal cuore della persona umana il pane di Dio. Adesso ci rendiamo conto che, mettendo fuori legge la nostra Chiesa greco-cattolica, avevano una grande paura del Dio presente nell’eucaristia.

“Affinché i sacerdoti non potessero più celebrare e parlare di Dio furono messi in carcere per la sola colpa di essere cattolici. La stessa sorte l’hanno avuta i laici che partecipavano alle sante messe celebrate clandestinamente. Nel famoso periodo della ‘rieducazione’ e del ‘lavaggio del cervello’ nelle carceri della Romania, per compromettere i sacerdoti, per ridicolizzare l’eucaristia e per distruggere la dignità umana, i persecutori li hanno obbligati a celebrare con degli escrementi, ma non sono riusciti a togliere loro la fede.

“Invece, quante sante messe celebrate clandestinamente in un cucchiaio a posto del calice e con il vino fatto di qualche chicco d’uva trovato sulla strada; quanti rosari confezionati su un filo con qualche pezzo di pane; quante umiliazioni, quando durante l’inverno a meno 30 gradi erano svestiti a pelle nuda per la perquisizione; quante giornate passate nella famosa ‘stanza nera’, come pena perché furono scoperti nella preghiera. Mai nessuno lo saprà. Questi martiri moderni del XX secolo hanno offerto tutta la loro sofferenza al Signore per la dignità e la libertà umana.

“Viviamo oggi la libertà dei figli di Dio veramente affamati del pane eucaristico. Confermo questa affermazione con la partecipazione alla divina liturgia dell’80 per cento dei nostri fedeli; con le vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa che non mancano; con tanta gente di gran spicco intellettuale che è molto vicina alla Chiesa”.

In un contesto molto diverso, un’altra testimonianza choccante è stata quella del vescovo Berhaneyesus Demerew Souraphiel, presidente del consiglio della Chiesa d’Etiopia. Dopo aver ricordato che nell’intera Somalia, nazione musulmana senza un governo da quattordici anni, “ci sono soltanto quattro religiose che a Mogadiscio tengono l’unico tabernacolo del Signore nascosto”, ha così proseguito:

“Molti cristiani dell’Eritrea e dell’Etiopia lavorano e vivono in Arabia Saudita, nello Yemen, negli stati del Golfo e in altri paesi di maggioranza musulmana. Sono centinaia di migliaia. Prima di andare a lavorare in questi paesi musulmani, essi sono costretti a cambiare il nome cristiano in un nome musulmano e, in particolare, le donne, a vestire secondo i costumi musulmani. Una volta giunti alle loro destinazioni, vengono loro tolti i passaporti e sono fatti oggetto di ogni tipo di abuso e oppressione. In questa situazione, molti sono costretti a farsi musulmani. A loro viene negato il diritto di professare la propria religione: la celebrazione dell’eucaristia e la messa domenicale. È una delle persecuzioni religiose dei tempi moderni”.


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Sullo sfondo di una Chiesa così descritta, numerosi padri sinodali hanno lamentato la scarsità di sacerdoti, che rende impossibile celebrare messe domenicali ovunque necessario.

Che vi sia un calo di sacerdoti, in effetti, è indubitabile. Nel 1978, anno d’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II, nella Chiesa cattolica c’era un sacerdote ogni 1797 fedeli. Nel 2003 uno ogni 2677.

Il calo è più appariscente in Europa e nel Nordamerica. Ma la penuria di preti incide molto di più nei paesi del Sud del mondo. Basta vedere che cosa succede nei quattro paesi con il maggior numero di cattolici: negli Stati Uniti vi sono circa 41000 preti per 66 milioni di fedeli, mentre in Brasile, Messico e Filippine sommati i preti sono 37000 per 340 milioni.

Per sopperire alla carenza di preti, da più parti e in più occasioni s’è suggerito di ordinare uomini sposati anche nella Chiesa di rito latino, come già avviene nelle Chiese cattoliche di rito orientale.

Tuttavia, in questo sinodo, nei primi nove giorni di discussione un solo vescovo ha citato esplicitamente tale ipotesi: il cardinale Angelo Scola, nella relazione introduttiva al sinodo.

Un altro vescovo che ne ha parlato, il neozelandese John A. Dew, l’ha fatto solo riferendosi a un precedente sinodo, quello del 1995 per l’Oceania. Dew, leggendo in aula un rapporto su quel sinodo redatto dal suo predecessore alla diocesi di Wellington, il cardinale Thomas Williams, ha ricordato che in quell’occasione diversi vescovi s’erano pronunciati a favore dell’ordinazione di uomini sposati, ma poi non vollero “fare il giro di boa” avanzando formalmente la proposta.

In ogni caso, nel sinodo d’oggi, il cardinale relatore Scola ha citato l’ipotesi per respingerla:

“Essendo intimamente correlato all’Eucaristia, il sacerdozio ordinato partecipa della sua natura di dono e non può essere oggetto di un diritto. Se è un dono, il sacerdozio ordinato chiede di essere incessantemente domandato (Mt 9, 37-38). E diventa assai difficile stabilire il numero ideale di sacerdoti nella Chiesa, dal momento che essa non è una ‘azienda’ che si debba dotare di una determinata quota di quadri dirigenti”.

Invece di ordinare uomini sposati, Scola ha suggerito “una più adeguata distribuzione del clero nel mondo”.

Nella discussione vari vescovi hanno aderito a questa proposta. Mentre un generico suggerimento di riconsiderare la disciplina del clero celibatario è venuto solo da pochi vescovi della Gran Bretagna e della Nuova Zelanda.

Curiosamente, le maggiori critiche all’ordinazione di uomini sposati sono venute proprio da esponenti delle Chiese di rito orientale, nelle quali i preti sposati sono nella norma.

Il cardinale Nasrallah Pierre Sfeir, patriarca dei maroniti del Libano, ha detto:

“La metà dei nostri sacerdoti diocesani sono sposati. Ma bisogna riconoscere che se il ricorso agli sposati risolve un problema ne crea altri altrettanto gravi. Il sacerdote sposato ha il dovere di occuparsi di sua moglie e dei suoi figli, assicurare loro una buona educazione, inserirli nella società. Inoltre il sacerdozio in Libano si è anche dimostrato un mezzo di promozione sociale. Esiste poi un’altra difficoltà per un prete sposato ed è quella di non avere un buon rapporto con i suoi parrocchiani. Il suo vescovo tuttavia non può cambiarlo per l’impossibilità di trasferire assieme a lui tutta la sua famiglia”.

Se questo è stato l’andamento della discussione nel sinodo, è improbabile che ne scaturisca una decisione che modifichi la disciplina del clero celibatario in vigore nella Chiesa d’Occidente.


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È invece possibile che qualcosa cambi su un’altra questione affiorata nella discussione sinodale: la comunione per i cattolici divorziati e risposati.

In alcuni paesi, l’impedimento alla comunione riguarda un alto numero di fedeli. Negli Stati Uniti, ad esempio, si calcola che i cattolici divorziati e risposati siano tra i 6 e gli 8 milioni. Di questi, circa il 10 per cento hanno avuto il primo matrimonio riconosciuto nullo. E quindi quelli in posizione irregolare, ai quali è negata la comunione, sarebbero tra i 5 e i 7 milioni.

Lo scorso 25 luglio, parlando ai preti della diocesi di Aosta, Benedetto XVI disse di voler riconsiderare il caso di chi si è sposato in chiesa senza crederci, e poi, separatosi e risposatosi, è arrivato alla fede.

Se fosse riconosciuto invalido il primo matrimonio, disse il papa, la posizione di costoro cesserebbe di essere irregolare e quindi non sarebbe più di impedimento alla comunione.

Ebbene, in sinodo, la “soluzione Ratzinger” è stata rilanciata nella relazione introduttiva dal cardinale Scola, che ha auspicato da parte dei tribunali ecclesiastici “procedure giuridiche semplificate, più efficienti nel rispondere alla cura pastorale”.


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Un’altra questione discussa in sinodo è stata quella della “intercomunione”, ossia dell’eucaristia condivisa tra cristiani cattolici e di altre denominazioni, generalmente non ammessa tranne casi eccezionali.

Il cardinale Walter Kasper, presidente del pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, dopo aver contestato come “ambiguo e in se stesso contraddittorio” il termine stesso di intercomunione, ha detto che in proposito “il Concilio Vaticano II parla di due principi: l’unità della Chiesa e la partecipazione ai mezzi della grazia, affermando che l’unità della Chiesa per lo più vieta l’ammissione di un non cattolico all’ eucaristia, ma la partecipazione ai mezzi della grazia talvolta la raccomanda”.

E in più, ha ricordato Kasper, ci sono i quattro criteri elencati nel Catechismo della Chiesa Cattolica (nn. 1398-1401) e nel relativo Compendio (n. 293), che raccomandano la comunione a un non cattolico: “un grave motivo, la richiesta spontanea, la buona disposizione e la manifestazione della fede cattolica circa il sacramento. Personalmente sono convinto che con questi criteri i problemi veramente pastorali possono essere risolti in senso positivo”.

Oltre a Kasper, a sollecitare un allargamento della prassi, specie per il coniuge protestante in un matrimonio misto, sono stati i vescovi Amédée Grab, svizzero, e John A. Dew, neozelandese. Ma le pressioni più forti sono venute da alcuni vescovi di rito orientale, in riferimento alle Chiese ortodosse con le quali convivono. Ha detto Sofron Stefan Mudry, vescovo emerito di Stanislav degli Ucraini:

“L’eucaristia non solo esprime l’unità della Chiesa, ma la produce. Facendo partecipare i non cattolici ortodossi alla comunione, rendiamo reale l’unità fra noi”.

E il cardinale Lubomyr Husar, arcivescovo maggiore di Lviv degli Ucraini:

“Se la divina liturgia celebrata dalle Chiese orientali in comunione con la sede di Roma e dalle Chiese ortodosse o apostoliche è identica per entrambe; se è reciproco il riconoscimento della successione apostolica dei vescovi e, conseguentemente, dei sacerdoti che la celebrano, allora la mia domanda è: cosa occorre di più per l’unità? Esiste forse un’altra ‘fons’ o un altro ‘culmen’ superiore all’eucarestia? E se non esiste, perché non si permette la concelebrazione?”.

Concludendo il suo intervento, Husar ha proposto che “il prossimo sinodo sia proprio dedicato alle Chiese orientali”.

Non è escluso che la sua proposta venga accolta, vista la centralità che l’eucaristia ha nel pontificato di Benedetto XVI, anche come strada maestra per una maggiore unità tra Roma e le Chiese d’Oriente.

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Giorno per giorno, la documentazione ufficiale del sinodo dei vescovi sull’eucaristia, 2-23 ottobre 2005:

> Synodus Episcoporum – Bollettino