Architettura, musica, arti sacre. La perla smarrita e ritrovata
La più sconvolgente metamorfosi che la Chiesa ha vissuto nell’ultimo mezzo secolo è avvenuta nella liturgia. Di un tesoro millenario è stata fatta tabula rasa. Ma c’è chi lavora per ridargli splendore
di Sandro Magister
[Da “Vita e Pensiero”, n. 1, gennaio/febbraio 2004]
ROMA – Ha fatto notizia in ottobre a Roma e nel mondo la nuova chiesa dell’architetto ebreo Richard Meier consacrata in località Tor Tre Teste (vedi foto). Con le sue geometrie nitide, bianchissime. Le vele. La luce inondante. “È una barca, la navicella di Pietro, che fende il mare della città”: questo è quanto hanno afferrato i primi visitatori, instradati dal parroco. “Testimonianza di evangelizzazione”, c’è scritto sul foglietto dell’Opera romana per la preservazione della fede. E il soggetto della buona notizia evangelica è lì, alto sul fondo della navata, un crocifisso del Seicento in legno e cartone, recuperato da un’altra chiesa di periferia. Non c’è altra immagine nella Chiesa. Verranno, le immagini, ma non si sa né quando né come. Intanto è comparsa una Madonnina biancoazzurra su una colonnetta di plastica, per sopperire provvisoriamente a quel vuoto.
Eloquente e muta, è l’ossimoro di questa nuova chiesa. Eloquente di trascendenza e spiritualità, ma povera di esplicitazione cristiana. Purissima di linee, di superfici, di materiali, di luci, ma taciturna nel tradurre questo afflato emotivo in realtà e sacramento, in materialità di Chiesa terrena e celeste. C’è tutto il fascino e l’inganno dell’incompiuto in questo che è considerato capolavoro dell’arte sacra contemporanea.
E le chiese dei secoli passati? Anch’esse patiscono questo effetto di tabula rasa. Visitatori e credenti si compiacciono del falso romanico ottenuto raschiando tutta la fioritura architettonica e iconica cresciuta nei secoli successivi. Comunità concelebranti impegnate si stringono attorno a tavoli posticci sullo sfondo di architetture e figure ricchissime ma ammutolite, declassate a spazi neutri, a segni svuotati, a reliquie d’un passato di cristianità da dimenticare. La biblia pauperum degli affreschi sulle navate, le storie visive dell’antico e del nuovo testamento sono ridotte a note a pie’ di pagina del passeggiare turistico. Non c’è più una sola omelia che conduca lo sguardo dei fedeli sull’una o sull’altra delle immagini che li avvolgono, e riporti l’immagine alla realtà che si attualizza all’altare.
La dimenticanza di sé, della propria identità cristiana, che il papa imputa oggi all’Europa, ha nella Chiesa il suo corrispettivo. Ed è l’incapacità a leggere, a capire, a vivere i luoghi materiali nei quali la Chiesa celebra i mysteria salutis.
C’è però un provvido soprassalto a questo stato di cose. Il tesoro di santità e sapienza della Chiesa fatta di uomini impedisce di dilapidare l’incommensurabile patrimonio simbolico delle chiese fatte di pietre, colori e, perché no, musica. Il libro di Giuliano Zanchi “Lo Spirito e le cose”, edito da Vita e Pensiero, è una di queste salutari promesse.
Il libro si offre come una visita guidata ai luoghi della liturgia, là dove le “cose” si fanno riplasmare dallo Spirito. L’autore prende per mano il credente smarrito e lo reintroduce nella chiesa che, passo dopo passo, riacquista per lui il volto della Chiesa con l’iniziale maiuscola. Dal sagrato, alla porta, al pulpito, all’altare. Attraverso le variazioni che ciascuno degli elementi costitutivi delle chiese cristiane ha assunto nei secoli, dalla primitiva domus ecclesiae, alle basiliche paleocristiane, su su fino al rinascimentale e al barocco. Non c’è nulla di nostalgico nella rivisitazione che Zanchi fa dell’antico. L’autore è sostenitore convinto della riforma liturgica disegnata dal Concilio Vaticano II. E non fa velo delle sue insofferenze nei confronti dell’arte barocca e dei secoli successivi, con le relative teologie e prassi controriformistiche, tutte assegnate a una decadenza troppo sbrigativamente descritta e liquidata. Ma anche questo è realismo cristiano, è andare oltre l’estetica astratta. Guidare è anche decidere, l’arte sacra nei secoli è cresciuta anch’essa su decisioni forti, su cancellazioni e ampliamenti e ripristini. Una visita guidata agli spazi liturgici non è come la visita di un museo. Fa interagire il soggetto in misura impensabile altrove. Il lettore diligente una cosa scoprirà alla fine del suo viaggio: che non si dà piena comprensione dell’architettura e delle arti cristiane se non nel sacramento che in esse si celebra, al punto che le stesse sussistono, senza di esso, solo come imago incompiuta.
È questo il cuore della questione. Il riprendere consapevolezza dei tesori dell’arte sacra è inscindibile da un rinnovarsi della Chiesa nei suoi elementi fondanti, liturgici, di “culmen et fons”. E qui di nuovo soccorre il libro di Zanchi nella persona del suo stesso autore, che si definisce semplicemente, nel risvolto di copertina, “prete della diocesi di Bergamo”. Il libro ha una genesi importante. Ha preso le mosse da un gruppo di preti e di laici che da più di cinque anni riflettono su tre aspetti della pastorale liturgica: la comprensione del rito; i risvolti antropologici ad esso sottesi; i luoghi del celebrare. La convinzione comune di questo gruppo è che la pratica liturgica, che pure continua a essere frequentata e generosamente animata, è condannata alla mediocrità, se non sorretta da una forte e illuminata ripresa d’impegno sui tre punti enunciati. E la liturgia è inscindibilmente connessa all’evangelizzazione, che l’episcopato italiano ha individuato come compito primario per l’inizio del terzo millennio.
In Italia e nel mondo. I luoghi e le forme liturgiche sono anche l’immagine più diretta che la Chiesa dà di sé sulla scena pubblica. La più sconvolgente metamorfosi che la Chiesa ha vissuto nell’ultimo mezzo secolo è precisamente avvenuta nella liturgia. Non c’è modifica conciliare che abbia inciso più vistosamente di questa, e il passaggio dal latino al volgare ne è stato solo un elemento, neppure centrale. Ma anche di questo c’è scarsa consapevolezza. E così la Chiesa si propaga nei continenti extraeuropei trapiantando anche là lo smarrimento di sé di cui oggi soffre nelle terre d’antica cristianità. La poderosa immagine pubblica di papa Giovanni Paolo II in missione fino ai confini della terra è assunta da molti come lasciapassare per liturgie modernizzanti, tributarie di stili e regie televisive, oltre che di azzardate contaminazioni esotiche. Dalle messe cantate in latino nelle cattedrali ai grandi meeting religiosi e interreligiosi en plein air: è questa la traiettoria che s’è imposta di fatto per descrivere il mutamento d’immagine della Chiesa cattolica da prima del Concilio a oggi.
E in questo passaggio l’eredità architettonica e artistica è stata la grande dimenticata. E con essa la musica liturgica fatta di gregoriano, di polifonia e di organo, la triade classica della quale la costituzione “Sacrosanctum Concilium” ha riconfermato il primato, peraltro clamorosamente disatteso nei fatti. Per la grande musica sacra vale la stessa dinamica dell’architettura e delle arti figurative: non c’è capolavoro di musica liturgica che regga al di fuori della celebrazione. L’Exultet della veglia pasquale non è nulla se cantato in un’aula da concerto, anche dal più bravo tenore del mondo. La forma della liturgia d’occidente è vissuta per secoli di suoi stili musicali continuamente ricreati. Annientare questi ultimi in blocco e sostituirli con improvvisazioni di stupefacente pochezza è intaccare la figura stessa della Chiesa in tutta la sua potenza sacramentale e simbolica. Pochi avvertono che anche il percorso ecumenico è invalidato da questi strappi violenti. Immaginiamo per assurdo una Chiesa ortodossa d’oriente che d’un colpo abbatta le iconostasi, porti l’altare in mezzo ai fedeli e in più ammutolisca il canto delle liturgie di San Giovanni Crisostomo. Per assurdo, appunto.
Per risalire la china, la formazione del clero è un passaggio decisivo. Acume teologico, competenza storica, sensibilità artistica, esperienza pastorale: è questo il combinato che la Chiesa dovrebbe esigere dai suoi preti nel nuovo millennio. Per dar corpo alla riforma cattolica il Concilio di Trento ha prodotto il clero, appunto, tridentino. Dal Concilio Vaticano II dovrebbe nascere una figura di prete capace di immettere nella modernità tutta la ricchezza dei tesori della tradizione, nei suoi momenti più alti.
Il gruppo di Bergamo da cui è nato il libro di Giuliano Zanchi fa bene sperare. Nel resto d’Italia, una diocesi in cui è viva la sensibilità per l’arte cristiana come luogo teologico e scuola di fede è Firenze. Nel 1997 i vescovi della Toscana hanno pubblicato una nota pastorale che nel suo genere è una prima assoluta: il primo documento della Chiesa dedicato alla funzione spirituale, pastorale e catechetica dell’arte sacra. E a Firenze è nato un Ufficio diocesano espressamente finalizzato alla catechesi attraverso l’arte, il cui animatore è Timothy Verdon, americano, storico dell’arte, dal 1994 prete nel capoluogo toscano. Verdon, già autore del magnifico libro “L’arte sacra in Italia” edito da Mondadori, lavora a un “Manuale di storia dell’arte cristiana” per la formazione dei preti, suggerito fin dal 1992 dalla pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa in una lettera ai vescovi di tutto il mondo. Il progetto prevede un testo base con varie edizioni nazionali, combinato con un Cd-Rom, più un portale web multimediale con possibilità di studio a distanza.
L’idea guida è che l’Europa cristiana invocata da Giovanni Paolo II può avere il suo rinascimento proprio da qui: da una riscoperta di quel formidabile strumento di educazione alla fede costituito dall’architettura e dall’arte sacra, di cui l’Italia e l’Europa sono incomparabilmente ricche. E da una preparazione dei preti all’altezza di questa sfida.
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Il link alla rivista dell’Università Cattolica di Milano su cui è uscito l’articolo sopra riprodotto:
> Vita e Pensiero
Espressonline 11-3-2004