(l’Espresso) La crisi dell’arte sacra ha origini teologiche

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I nuovi iconoclasti hanno la laurea in teologia



Psicologismo, pauperismo, moda dell’icona russa, orrore per il barocco… Pietro De Marco smaschera le trappole in cui la teologia d’oggi cade quando si applica all’arte


di Sandro Magister


ROMA – Il grido d’allarme che si è levato a fine luglio a Firenze per l’incuria e il disprezzo che sviliscono l’arte fuori e dentro le chiese, non è rimasto isolato. I vescovi di Siena, Pisa, Lucca, Arezzo e delle altre diocesi della Toscana – la regione d’Italia e forse del mondo con la più alta densità di capolavori cristiani – hanno annunciato che si riuniranno per prendere iniziative a difesa dell’arte sacra.

Ma prima ancora il loro compito sarà di diagnosticare il male. Monsignor Thimoty Verdon, storico dell’arte e direttore dell’Ufficio per la catechesi attraverso l’arte della diocesi di Firenze, ha già scritto pagine importanti sul tema, l’ultima su “L’Osservatore Romano” del 4-5 agosto 2003, riprodotta anche in questo sito.

Questa che segue è invece una nota inedita di un altro intellettuale cattolico fiorentino, Pietro De Marco, specialista in geopolitica religiosa ma anche studioso di teologia, docente all’università statale di Firenze e alla Facoltà teologica dell’Italia centrale. In essa, De Marco denuncia proprio le colpe della teologia d’oggi, come causa profonda della trascuratezza per l’arte sacra. E lo fa con osservazioni acute e a tratti sorprendenti. Ecco la nota:


Sulle responsabilità della cultura teologica nell’incuria per l’arte sacra

di Pietro De Marco


Sono almeno due, a mio avviso, le ragioni dell’incuria che colpisce l’arte cristiana: l’assenza della dimensione estetica nella cultura religiosa e nella pratica pastorale; e, anche là dove tale dimensione persiste e opera, la sua insufficiente protezione teologica. La seconda ragione è la più profonda ma anche la meno avvertita.

1. Si può applicare alla teologia d’oggi l’analisi che Odo Marquard, in ‘Aesthetica e anaesthetica’, applica alla filosofia: quando l’estetica perde il suo legame con i ‘realia Dei’, con le realtà di Dio, finisce ineluttabilmente col ridursi a filosofia della natura; e la divina Rivelazione importa non per cosa è ma solo per cosa può significare per me. Fa parte di questa deriva anche la diffusa plausibilità di una critica psicoanalitica della Scrittura (Eugen Drewermann). Autentica follia logica ed ermeneutica: una studiata anti-verità adottata come criterio di validazione della verità.

2. Se non è più scienza di realtà soprannaturale, anche una viva teologia dei segni e dei simboli prepara inevitabilmente a un godimento solo estetico dell’arte sacra, e alla sua marginalità. È una deriva che conduce dalla fruizione elitaria del Bello sacro – architettonico, figurativo, musicale – al suo rapido abbandono come parte della liturgia, del dogma, della pastorale, del sapere religioso comune.

3. Analizzare in chiave simbolica il sacramento può rivelarsi una modalità rigorosa di tradurre modernamente la teologia della presenza reale di Cristo; ma se la teoria del simbolo è psicologistica invece che ontologica il risultato ottenuto resta incapace, in ultimo, di salvaguardare il significato dell’icona sacra. Come la situazione contemporanea dimostra. Senza il realismo del sacramento e senza il realismo del corpo mistico, quindi del Cristo glorioso, l’icona è niente, religiosamente e teologicamente. La teologia del Bello è utile cosa, ma se ad essa sfugge che il simbolo iconico è anzitutto parte costitutiva della reciprocità tra Creatore e creatura, si riduce a essere un capitolo del trattato di estetica, eccentrico e persino estraneo alla dogmatica.

4. La mezza cultura, specialmente religiosa, aborrisce l’arte barocca. Visitatori e credenti si compiacciono del falso romanico ottenuto raschiando e distruggendo tutta la vita architettonica e iconica cresciuta nei secoli sull’impianto murario medievale delle nostre pievi. Ma il sacro delle mura spoglie di oggi (mai esistite prima, se non in piccole pievi di assoluta povertà) è solo il ‘frisson’ novecentista per la superficie pura, l’arco puro, la linea pura, i materiali puri. Meno male che in tante chiese restano almeno le tracce antiche e intoccabili di un frammento di affresco o di una pala d’altare, ad aprire un contatto figurativo della creatura col Creatore e con la Sua storia incarnata, e ad incoraggiare il pregare. È necessario uscire da queste trappole estetiche. Gli angeli e i santi che popolano le vele e i cornicioni della superficie esterna dell’edificio sacro gotico, o gli interni delle chiese rinascimentali e barocche, sono intimi agli esseri gloriosi realissimi che essi rendono presenti. E i grandiosi altari esaltano la realtà della transustanziazione che vi accade realmente. Ma anche in tempi più vicini ai nostri la modesta arte devozionale immerge nella certezza del divino corpo e sangue presenti, nella verità dei miracoli, nella certezza dei cieli.

5. Non si possono nascondere i guasti del corto circuito tra esegesi scientifica e predicazione. Sono guasti che rendono impraticabile anche un rinnovamento della funzione di ‘biblia pauperum’ dell’arte sacra (funzione assolta oggi, piuttosto, dai film di soggetto biblico e religioso, che la pastorale sente estranei, non riuscendo quindi a intervenire sulla loro qualità). Se il migliore dei parroci può affermare nell’omelia che non sappiamo se l’episodio evangelico della liturgia domenicale sia effettivamente avvenuto, ma che la sua effettività non è importante ai fini della fede, nessuna arte figurativa potrà più far parlare ed agire credibilmente quell’episodio.

6. La moda occidentale delle icone russe, cui tutti o quasi soccombiamo, è sintomatica. Essa si accompagna alla decadenza teologica nei singoli e nelle comunità che se ne adornano. Si pretende di compensare la iconofobia riservata all’universo del visibile cattolico (vedi l’eliminazione delle immagini devozionali e la quasi riduzione a museo della grande arte nelle chiese) con l’emozione ‘pura’ del sacro iconico. Ma questa è un’emozione tutta novecentista, assolutamente distante dalla teologia sacramentale e dalla ‘religio’ delle icone nel mondo ortodosso, che semmai è molto più vicino alla nostra devozione realistica per statue e immagini mariane o del Sacro Cuore o dei santi. Dico novecentista perché il contrapporre l’icona greca o russa all’arte sacra rinascimentale italiana è un frutto tipicamente occidentale dell’ostilità primitivista e antirinascimentale delle avanguardie, oltre che di un uso polemico delle teorie burkhardtiane sul carattere anticristiano della modernità.

7. Non basta un’educazione al Bello di clero e laici (già diffusamente tentati di scaricare il “peso” del patrimonio artistico della cristianità su stati e università, per compiti di conservazione e studio e divulgazione). Non basta nemmeno l’idea che la forma intima della bellezza sia quella del dono (PierAngelo Sequeri). Essa può motivare artisti cristiani, ma non produrrà artisti capaci di dar forma e ‘pulchritudo’ ai canali della grazia, a spazi e tempi sacri, ad azioni sacre: poiché proprio questa dimensione si è come polverizzata nel comune sentire della teologia contemporanea. Il problema dell’arte sacra, musica inclusa, consegnataci dalla tradizione, non è quello dell’odierna assenza di artisti religiosi, per cui l’arte antica sarebbe l’unica religiosamente valida e quindi da conservare. Il problema è che l’arte religiosa contemporanea è raramente arte di realtà ma è quasi sempre arte di emozioni, religiosamente pre-teologica, pre-cultuale, pre-teologicopolitica. Troppo facile effigiare un “papa buono”; si provi un artista a produrre con la stessa potenza iconica l’equivalente contemporaneo del Bonifacio VIII di Arnolfo di Cambio [vedi foto in alto]; l’unica intuizione che si è avvicinata a una simile lettura moderna è il Karol Wojtyla abbattuto ma non schiacciato, tantomeno vinto, da un meteorite, esposto da Maurizio Cattelan alla Biennale di Venezia del 2001


8. Non sorprende, infine, che l’iconofobia contemporanea di clero e popolo cristiano medio si allei a un estetismo della povertà, di eredità otto-novecentesca, da Victor Hugo a Léon Bloy e oltre, forse di matrice roussoviana, senza dubbio dotato di una sua grandezza, ma inconsistente nella dimensione teologica e con impliciti, perversi, effetti iconoclastici. Un realismo pauperistico della Rivelazione, sociologicamente insensato e teologicamente sovradimensionato, surroga il realismo delle proposizioni del ‘Credo’.


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La Facoltà teologica dell’Italia centrale, con sede centrale a Firenze, nella quale Pietro De Marco insegna, ha dedicato all’intreccio tra teologia e arte un convegno e un numero speciale della sua rivista “Vivens Homo”. Ecco l’indice e i testi:

> “Ratio Imaginis”. Esperienza teologica, esperienza artistica