(l’Espresso) Hai rivelato i segreti ai piccoli e nascosti ai sapienti

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I primi tre mesi di Benedetto XVI. Nuovo papa, nuovo stile

L’intelligencija gli volta le spalle, ma i comuni fedeli no, lo apprezzano più del previsto. I segni iniziali d’un pontificato diverso: nella squadra, nei viaggi, nei rapporti con ebrei e ortodossi

di Sandro Magister ROMA, 15 luglio 2005 – Nei suoi primi tre mesi da papa, Benedetto XVI non è riuscito a conquistare la grande stampa italiana e internazionale, che continua a essergli in larga parte ostile.

Anche tra gli intellettuali cattolici la tregua che il principe dei dissenzienti, Hans Küng, gli aveva concesso dopo l’elezione, pare scaduta.

Dalle spiagge della California il gesuita Thomas Reese – che si dice defenestrato da direttore di “America” per volontà dell’ancora cardinale Joseph Ratzinger – ha liquidato il nuovo papa come irricuperabile nemico della modernità, ispirato dall’agostinismo più cupo. Per vederne le prove, Reese ha raccomandato la lettura di un saggio su “Commonweal” di Joseph A. Komonchak, prete dell’arcidiocesi di New York, professore alla Catholic University of America, Washington, D.C., nonché collaboratore di spicco della “Storia del Concilio Vaticano II” in cinque volumi diretta da Giuseppe Alberigo, la più letta nel mondo, ma oggetto di recenti critiche da parte del cardinale Camillo Ruini, vicario del papa.

E in Italia il professor Achille Ardigò, guru della “scuola” di Bologna fondata da don Giuseppe Dossetti e presieduta da Alberigo, ha detto in un’intervista al quotidiano “la Repubblica”: “Prego ogni giorno lo Spirito Santo affinché induca il papa e il cardinal Ruini a non perseverare nella loro teologia razionalista”, una teologia che – a giudizio anche dello storico Pietro Scoppola in un’intervista ad “Avvenire” – si aggrappa al diritto naturale, butta tutto in politica ed “esclude il ruolo della trascendenza nell’agire umano”.

Alberigo, in un’altra intervista a “la Repubblica”, ha ricordato che nel 1953, nella sua casa di Bologna, un monaco benedettino suo ospite, “pio e assai famoso”, invitava lui e la moglie a pregare per la morte di Pio XII – poi avvenuta nel 1958 – e spiegava: “Ora il Santo Padre è un peso per la Chiesa, preghiamo perché il Signore se lo prenda presto”.

In compenso, però, Benedetto XVI sta catturando le folle.

Le stesse masse di fedeli che di papa Karol Wojtyla applaudivano il gesto o la frase ad effetto, ma trascuravano quasi del tutto l’argomentare, col nuovo papa si comportano in modo opposto. Seguono le omelie pronunciate da Ratzinger parola per parola, dall’inizio alla fine, con un’attenzione che sbalordisce gli esperti. Per verificarlo, basta mescolarsi alle folle che assistono a una messa celebrata dal papa.

Lo stile del nuovo papa è sobrio, a contatto con le masse. La sua espressività simbolica la attinge tutta dalle liturgie, che celebra con grande autorevolezza. Ma al di fuori delle messe, delle catechesi, delle benedizioni, Benedetto XVI è un minimalista. “Il papa non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza alla parola di Dio”, ha detto quando ha preso possesso della cattedrale di Roma, la basilica di San Giovanni in Laterano, il 7 maggio. E a questo criterio si attiene anche nella gestualità pubblica. Di suo fa pochissimo. Vuole che i fedeli guardino all’essenziale, che non è la sua persona ma Gesù Cristo vivo e presente nei sacramenti della Chiesa.

Anche la vacanza la passa a suo modo. Non va per creste e rifugi, come l’atletico suo predecessore. Il 12 luglio s’è portato in montagna a Les Combes, in Valle d’Aosta, il pianoforte e tre valigie piene di libri. Perché le cose che gli stanno a cuore le scrive di suo pugno: le omelie, la prossima enciclica, più qualche discorso cruciale, come quello del 6 giugno a un convegno sulla famiglia che scatenò reazioni in tutto il mondo, in Italia applicato all’imminente referendum sulla procreazione assistita, in Spagna alla legge dei matrimoni gay e negli Stati Uniti alle dispute sull’omosessualità.

Benedetto XVI ama scrivere a mano, in tedesco, con una calligrafia minuta, che sanno benissimo decifrare e trascrivere le sue due segretarie di concetto, Ingrid Stampa e Birgit Wansing, entrambe tedesche e appartenenti al movimento spirituale di Schönstatt, nato nel 1914 in un piccolo santuario mariano nella valle del Reno e oggi diffuso in ottanta paesi del mondo.

Ingrid Stampa era la sua governante dal 1991, nell’appartamento di trecento metri quadrati che Ratzinger occupava in piazza della Città Leonina, nel Borgo a pochi passi dal Vaticano. Ora fa la spola tra lì e il Palazzo Apostolico, dove – col papa assente per tutta l’estate, prima in Valle d’Aosta e poi a Castel Gandolfo – sono cominciati i veri lavori di sistemazione dell’alloggio pontificio. Benedetto XVI possiede una biblioteca sterminata, ordinata con cura, che riveste le intere pareti dell’appartamento nel Borgo. E lì intende lasciarla, in buona parte.

Anche Birgit Wansing non ha seguito il papa nella sua nuova residenza; continua come prima a lavorare alla congregazione per la dottrina della fede, dove Ratzinger è stato prefetto per 23 anni. Mentre Ingrid Stampa è stata integrata nella sezione tedesca della segreteria di stato.

Nella sua dimora nel Palazzo Apostolico, invece, Benedetto XVI s’è portato Carmela e Loredana, appartenenti alle Memores Domini, il ramo religioso femminile di Comunione e Liberazione. Hanno i voti ma non sono vestite da suora. Curano la cucina, le pulizie, il guardaroba. La seconda ha lavorato in passato con il cardinale Angelo Scola, quando questi era rettore della Pontificia Università del Laterano. Altre due loro consorelle, Emanuela e Cristina, completeranno presto la squadra.

Poi c’è il segretario personale del papa, come lui bavarese, Georg Gaenswein, 48 anni, prete della diocesi di Friburgo in Bresgovia. Insegnava fino a quest’anno alla Pontificia Università della Santa Croce, l’ateneo romano dell’Opus Dei, ed è segretario di Ratzinger da due anni.

Tra lui e il celebre braccio destro di Giovanni Paolo II, Stanislaw Dziwisz, oggi arcivescovo di Cracovia, la diversità è forte. Sulle mille decisioni di governo ordinario della Chiesa che papa Karol Wojtyla trascurava, Dziwisz aveva un’importante voce in capitolo. E non c’era colazione o cena di lavoro del papa alla quale mancasse la presenza ingombrante del suo segretario.

Con Benedetto XVI non è più così. Gaenswein compare meno e pesa di meno. A pranzo e a cena il nuovo papa non invita nessuno, come del resto non usava fare neanche in passato. Con gli ospiti discute a tu per tu, e le decisioni le matura di persona. La prima sorpresa è stata la nomina del suo successore a prefetto della congregazione per la dottrina della fede: l’americano William J. Levada era fuori da tutti i pronostici. Le future nomine in curia, a cominciare da quella del successore del segretario di stato Angelo Sodano, regaleranno probabilmente altre sorprese.

Anche nella sala stampa vaticana è girato il vento. Joaquín Navarro-Valls è stato confermato direttore, ma con Benedetto XVI non ha più il rapporto diretto, osmotico, che aveva con Giovanni Paolo II. Non può più permettersi di modellare e amplificare gesti, frasi, performance del papa. Sa che il nuovo eletto vuole curare e dosare da solo, con molta parsimonia, la propria immagine e il proprio contatto col pubblico.

A Navarro resta il rapporto con la segreteria di stato, dalla quale dipende per statuto. Ma in tre mesi ha già infilato due infortuni: il primo legato all’apparente smentita di una pre-indagine vaticana su accuse di abusi sessuali a carico del fondatore dei Legionari di Cristo, Marcial Maciel; il secondo relativo all’aggettivo “anticristiano” prima applicato all’atto terroristico di Londra del 7 luglio e poi cancellato. Nell’uno e nell’altro caso né l’ufficio stampa vaticano né la segreteria di stato hanno brillato per chiarezza comunicativa.

Navarro era il factotum dei libri pubblicati da Karol Wojtyla quand’era papa. Con Benedetto XVI non è più così. Per dare alle stampe in Italia il suo primo libro da papa, “L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture”, Ratzinger ha fatto tutto da sé. Ha scelto lui personalmente l’editore, David Cantagalli, di Siena. Di un suo precedente libro presso lo stesso editore, “Fede, verità, tolleranza”, si è fatto stampare cento copie numerate, su carta di qualità, che ha regalato personalmente una per una.

Meno fortunato Ratzinger è stato con l’editrice San Paolo, alla quale ha dato i diritti di stampare in Italia il nuovo “Compendio” del catechismo della Chiesa cattolica. Ne è uscito un volume d’aspetto mediocre, sia nei testi sia nelle figure. Eppure proprio le immagini, quattordici capolavori dell’arte sacra d’Occidente e d’Oriente, erano state volute e scelte personalmente da Ratzinger come parte integrante del catechismo medesimo.

La valorizzazione della grande arte cristiana, del canto gregoriano e della musica sacra polifonica è un’altro elemento che distingue il nuovo papa dal predecessore. L’arcivescovo Piero Marini, il regista delle telecerimonie modernizzanti care a Giovanni Paolo II, è in attesa di essere trasferito ad altro incarico.

Benedetto XVI ha già dato un taglio anche al numero altissimo di santi e beati proclamati da papa Wojtyla. I beati non li proclama più lui, ma li lascia in affido alle rispettive chiese locali, e sui nuovi santi ha tirato il freno.

Un altro taglio drastico interessa i viaggi. I suoi saranno pochi e mirati. Un esempio l’ha dato con la prima sortita a Bari il 29 maggio: andata e ritorno in una mattina, solo per celebrare la messa. A Colonia, a metà agosto, si fermerà un poco di più. Ha in programma la visita alla sinagoga ebraica, la seconda di un papa dopo quella storica del 1986 di Giovanni Paolo II nella sinagoga di Roma. La cura del rapporto tra Chiesa ed ebraismo è un altro dato caratterizzante del nuovo papa, in piena continuità, su questo punto, col predecessore.

Non meno deciso appare Benedetto XVI nel voler far pace con le Chiese ortodosse d’Oriente. Ha in comune con esse la centralità data alla liturgia eucaristica e il rispetto per la grande tradizione. Ma gli ostacoli sono grossi.

Il 30 novembre, festa di sant’Andrea, Benedetto XVI andrebbe volentieri a Istanbul a incontrare il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, che l’ha invitato. Ma ha bisogno anche dell’invito della Turchia, che sa della contrarietà del nuovo papa a un suo ingresso nell’Unione Europea.

Quanto a Mosca, ai ferri corti col precedente papa, Benedetto XVI ha mandato là in avanscoperta il cardinale Walter Kasper. Che tuttavia non è nemmeno riuscito a incontrare il patriarca Alessio II. Il punto più critico è l’Ucraina. Forte di oltre cinque milioni di fedeli, la Chiesa greco-cattolica ucraina vuole trasferire entro l’anno il suo quartier generale da Leopoli alla capitale Kiev, dove consacrerà in ottobre una nuova cattedrale metropolitana con autorità su quasi tutto il paese. Il patriarcato ortodosso di Mosca – che ha nell’Ucraina il suo maggior serbatoio di fedeli, di vocazioni e di soldi – vede in ciò un affronto intollerabile ed esige che Benedetto XVI lo impedisca.

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Il saggio di p. Joseph A. Komonchak su “Commonweal”, raccomandato dal gesuita Thomas Reese, ex direttore di “America”, come la critica più acuta della “visione teologica che guiderà il pontificato di Benedetto XVI”:

> “The Church in Crisis: Pope Benedict’s Theological Vision”

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E un’analisi di Pietro De Marco – professore di sociologia della religione all’Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale – sui perché dell’opposizione a Benedetto XVI da parte dell’intelligencija cattolica “conciliare”:


Ardigò, Zagrebelsky, la Chiesa e gli “atei devoti”

di Pietro De Marco


È un vero e proprio dibattito sullo stato della società civile e del sistema politico italiano quello che da diversi mesi si alimenta di tre fenomeni di spicco: la presenza attiva della Chiesa (come gerarchia, come istituzioni e ufficialità cattoliche); l’esistenza di una cultura laica che “non può non dirsi cattolica” (fenomeno non raro nella cultura italiana del Novecento, ma quasi assente nella seconda metà del secolo); e un’opinione pubblica che (secolarizzata quanto si voglia: ma quanto, in realtà, ci sfugge) riserva un rispetto nuovo al paradigma cattolico anche in sede civile.

Questi dati, con la loro singolare sporgenza nella sfera pubblica italiana, hanno indotto un coro, sostanzialmente monocorde, di diagnosi.

In negativo, tali diagnosi si concentrano anzitutto sulla invasività della Chiesa-istituzione e sulla pretesa egemonia di alcune figure ecclesiastiche, ma anche sulla “restaurazione” di una ragione e di una disciplina cattolica entro la Chiesa. Il tutto, si dice, nella latitanza del laicato cattolico. La querelle sulla “Storia del Concilio Vaticano II” contro e in difesa di Giuseppe Alberigo rientra in questo quadro.

La reazione ad evidenze sociali nuove, e certamente impreviste, ha un obiettivo principale, che è politico: contrapporre qualcosa, fosse solo un allarme martellante, alla capacità e qualità di decisione della gerarchia cattolica, temute sia in sede pubblica (si pensi ai richiami allarmati al Concordato) sia in sede religiosa e propriamente intraecclesiale.

Ma meritano egualmente attenzione gli argomenti messi in mostra. Ho di fronte gli interventi di maestri e colleghi, da Achille Ardigò a Pietro Scoppola a Gustavo Zagrebelsky, ma anche le argomentazioni “religiose” con cui su “la Repubblica” altri anticipano o tallonano gli opinionisti più rappresentativi.

Va detto subito: che si possa usare il termine “razionalismo”, come ha fatto ad esempio Achille Ardigò (e stupisce, in una intelligenza tanto rigorosa e “razionale”) di fronte alla evocazione del diritto naturale cristiano e al riaffiorare esplicito della teologia nel magistero cattolico (ora, nell’insegnamento di Benedetto XVI, quasi non fosse stata teologica gran parte della predicazione di papa Karol Wojtyla!), fa temere che in adulti di estrazione cristiana si sia smarrita persino la memoria della propria formazione. E se, come purtroppo avviene, si arriva ad agitare la retorica del Concilio per giustificare questa cancellazione, è giusto parlare non solo di un Concilio tradito, ma di un funzionamento oggettivamente perverso di “momenti” dell’eredità conciliare.

Chiunque, in virtù dell’età e dell’appartenenza cattolica, abbia potuto fare esperienza della formazione intellettuale e religiosa classica degli anni Cinquanta e Sessanta (su cui il Concilio, ed altri fenomeni, avrebbero profondamente inciso, ma più tardi), formazione ancora coerente ed esplicita sul terreno dogmatico, aperta quindi alla ragione, giudicherà la discussione in corso da mesi come l’effetto di una vera e propria opera di dissoluzione operatasi in questi ultimi decenni nell’intelletto cattolico.

Dobbiamo ricordare al maestro Ardigò che né la nostra formazione né l’apporto conciliare furono “mistici”? O all’intelligenza di Zagrebelsky che la fede cristiana non ci fu trasmessa come “grido”, per evocare il titolo di un celebre libro? Questo ricorso all’emozione, alla tensione, alla “mistica”, ancora negli anni Sessanta, sapeva di irrazionalismo e di tarda eredità modernistica: eredità che, ben oltre Pio X, la scienza teologica cristiana del Novecento aveva negato costruttivamente.

Nei teologi del Concilio non vi è traccia di opposizione tra fede e ragione, tra teologia e mistica, tra mistica e Chiesa. D’altronde, poiché si cita sempre don Giuseppe Dossetti, giova ricordare che una lettura di base per i giovani che entravano al dossettiano Centro di Documentazione di Bologna era “Le Thomisme” di Étienne Gilson, e che la disciplina formativa era teologica e storica, di storia della Chiesa. Dunque “filosofia cristiana” e saperi positivi, razionali, centrati su istituzione e dottrina.

Le riduzioni equivocamente “mistiche” del positivo cristiano sono posteriori. Anche per la cultura cattolica hanno il loro “Sitz im Leben”, la loro posizione vitale, nel trauma culturale della secolarizzazione e dell’egemonia subita, negli erramenti utopici (sono essi che chiedono alla fede il sacrificio dell’intelletto), nell’illusione di conservare un “centro” abbandonando tutto il “resto”.

Eppure, nell’esperienza e giudizio di molti, il primato della spiritualità (riscoperto negli anni Cinquanta contro la “milizia pubblica” della Chiesa di Pio XII) era già insufficiente alla fine degli anni Sessanta. Chi non ebbe allora che “spiritualità”, e magari un esile orizzonte personalista-cristiano, non resse alle crisi iper-mobilitanti degli anni Settanta. Passò alla politica radicale, all’ideologia, o al neomodernismo di comunità e movimenti, o si “invisibilizzò”.

Coloro che ressero, lo fecero nella consapevolezza di un’autoconsistenza cattolica, nei principi, negli obiettivi, nei linguaggi; e furono aiutati dal persistere, sia pure accerchiato, della dottrina e quindi del Logos, nella Chiesa. E, in questo orizzonte, ebbero ancora un ruolo l’idea cristiana della politica, la concezione cristiana dello stato, il diritto naturale cristiano. La cultura cattolica dei meno giovani lo sa, e può solo fingere, oggi, di non ricordare.

Non lo dimentica, invece, la coscienza storica di molti non credenti. Gli “atei devoti” sono un magistrale promemoria per la coscienza cattolica e talora sono stati maestri per i maestri del cattolicesimo. Integrano di fronte al mondo comune, ad extra, la mancanza di una grande apologetica, il vuoto drammatico di quel nostro volerci “mistici”, l’incapacità di certa fede di dare intellettualmente conto di sé e della propria rilevanza per l’uomo storico. Questo oggettivo supplire che viene da intelligenze che, senza il dono della fede, pure si vogliono ad alta voce “cattoliche”, dovrebbe generare negli uomini di fede una tempesta autocritica. Sembra produrre, almeno a livello pubblico, solo cieche polemiche e deprecazione spiritualistica.

È vero: di quella che grandi intelligenze chiamavano l’essenza del cattolicesimo abbiamo cancellato le tracce, sentite come ostacolo alle nostre libertà politiche, etiche, spirituali. Ma abbiamo solo ottenuto nella Chiesa, per un lungo periodo, dei laicati tanto gelosi della loro auto-determinazione ecclesiale, quanto (troppo spesso) ideologicamente eterodipendenti, e indifesi di fronte al progresso della propria irrilevanza.

Non stupisce insomma che Joseph Ratzinger, in quanto teologo, sembri “razionalista” agli involontari protagonisti di quel disfacimento, come io lo giudico. Ma come si può pensare, anche, che quei modelli e quelle soluzioni appaiano ora affidabili?

Simmetricamente, va affermato con forza che la diagnosi dell’attuale carenza di cultura e azione laicale è tanto interessata quanto erronea. I suoi criteri di giudizio appartengono a quel paradigma (indipendenza, invisibilità, irrilevanza) non più praticabile, neppure da chi non riesce a liberarsene. In realtà la costellazione attuale di laicati cristiani ha da tempo il suo mandato, come la sua vitalità e visibilità, nella visibilità stessa della gerarchia, che non eserciterebbe l’attuale decisione e limpidezza d’iniziativa se non si sentisse confermata, a sua volta, da una nuova volontà di realizzazione cattolica, quella che io chiamo un nuova “politicità”.