(l’Espresso) Contro il terrorismo occorre proporre i nostri valori

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Islam più democrazia. La dottrina Lewis fa breccia in Vaticano


Dopo gli Stati Uniti e con molte cautele, anche la Santa Sede abbraccia la tesi dell’islamologo Bernard Lewis: combattere il terrorismo a colpi di democrazia. L’Iraq test della svolta


di Sandro Magister

 ROMA – Accogliendo in piazza San Pietro, il 29 aprile, il corteo con i famigliari degli italiani sequestrati in Iraq, Giovanni Paolo II ha pregato e fatto pregare. Ma ha anche ringraziato “quanti operano per ristabilire in Iraq un clima di riconciliazione e di dialogo in vista del recupero della piena sovranità ed indipendenza del paese, in condizioni di sicurezza per tutta la popolazione”.

In queste brevi parole è sintetizzata l’attuale politica vaticana nel Golfo: niente ritiri né fughe, ma sostegno a forze militari alleate che diano sicurezza alla popolazione e aiutino a costruire un Iraq libero e stabilmente “riconciliato”, democratico.

La parola democrazia è usata con parsimonia dalle autorità vaticane, a proposito dell’Iraq e in genere dei paesi musulmani. V’è ancora, oltre Tevere, chi ritiene che la pretesa di esportare in quei paesi la democrazia sia “particolarmente offensiva per la comunità islamica “ (vedi “La Civiltà Cattolica” dello scorso 2 febbraio). Ma l’opinione prevalente in segreteria di stato è di sostegno a uno sviluppo della democrazia in Iraq e Medio Oriente. Quando necessario anche con l’invio di forze armate in “missione di pace”.

Se è così, si è in presenza di una svolta nella geopolitica vaticana. Conseguente alla svolta avvenuta di recente nella geopolitica degli Stati Uniti.


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Negli Stati Uniti, per circa mezzo secolo fino all’11 settembre 2001, a dominare fu la dottrina Kennan, così chiamata a partire da un celebre articolo di George F. Kennan su “Foreign Affairs” nel 1947. Parola chiave di questa dottrina era il “containment”. Suo obiettivo fondamentale era contenere la superpotenza sovietica entro i confini stabiliti a Yalta.

Nei confronti dei paesi musulmani, la dottrina Kennan incoraggiava le alleanze anche con i governi più ferocemente autoritari, purché stabilmente collocati sul versante antirusso.

La Santa Sede si adattò diligentemente a questa dottrina. Suo interesse preminente, nei paesi a dominio comunista come in quelli musulmani, era quello di proteggere le minime condizioni di vita delle comunità cristiane locali. Ma senza mai incoraggiare il rovesciamento dei rispettivi regimi.

Il distacco da una rigida applicazione della dottrina Kennan avvenne, negli Stati Uniti, con la presidenza di Ronald Reagan e, in Vaticano, con il pontificato di Giovanni Paolo II. Le loro azioni convergenti accelerarono il collasso dell’impero sovietico.

Ma sul versante musulmano le cose continuarono come prima. E la Chiesa ne pagò il prezzo. Negli anni Ottanta e Novanta, ad esempio, la Chiesa perse quello che era l’ultimo “regno cristiano” d’oriente, il Libano. Abbandonate dalle potenze europee, in primo luogo la Francia, le milizie cristiane soccombettero alle forze musulmane. Il Libano cadde sotto il controllo della vicina Siria: svolta sancita nel 1994 da accordi interarabi che ebbero come loro broker l’attuale incaricato dell’Onu per l’Iraq, il sunnita algerino Lakhdar Brahimi.

Nell’estate del 1989 Giovanni Paolo II pronunciò parole durissime contro la Siria. La definì “Caino”, l’accusò di genocidio, si disse pronto ad andare lui stesso in Libano sotto le bombe. Nessuno l’ascoltò.

Nel 1994, siglata la pax siriana, il papa programmò un viaggio in Libano. Ma quando tutto era pronto, una bomba in una chiesa cristiana fece 11 morti e 55 feriti. Il viaggio fu annullato.

Ma intanto la diplomazia vaticana non si discostava dalla politica di buon vicinato con i dittatori arabi, specie se laici e nazionalisti. Nell’Iraq di Saddam Hussein questa politica fruttò per i cristiani caldei condizioni di relativo privilegio.


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Poi arrivò l’11 settembre 2001. E per gli Stati Uniti fu svolta, nei confronti del mondo musulmano.

Alla dottrina Kennan si sostituì la dottrina Lewis.

Bernard Lewis (vedi foto), nato a Londra nel 1916, professore di studi mediorientali alla Princeton University, è il più famoso islamologo al mondo. Otto giorni dopo l’attacco alle Twin Towers espose la sua dottrina all’U.S. Defense Policy Boards e suggerì di attaccare l’Iraq. E successivamente incontrò e convinse il vicepresidente Dick Cheney e la consulente di Bush per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice.

La tesi di Lewis è che nei paesi musulmani va promossa dall’occidente non la stabilità a ogni costo – con i soliti tiranni – ma la democrazia, se necessario anche con la forza.

Questo infatti è l’unico modo – a suo avviso – per strappare il mondo musulmano dall’umiliazione verso se stesso e dall’odio verso l’occidente cristiano accumulati a partire dalla fallita conquista di Vienna nel 1683, e poi col declino e il crollo dell’impero ottomano, il fallimento del nazionalismo arabo, l’attuale arretratezza.

E questa è anche l’unica via – sempre a suo parere – per sconfiggere il terrorismo islamista.

In un suo libro del 1990 intitolato “Modern Jihad and the Roots of Muslim Rage” Lewis anticipò le tesi di Samuel Huntington, definendo lo scontro tra islam e occidente in termini di scontro di culture. L’ultimo suo libro, uscito nel 2004 anche in Italia, sviluppa la stessa tesi. Il titolo è “La crisi dell’islam. Le radici dell’odio verso l’occidente”.

Lewis non ritiene affatto la cultura e la religione musulmane incompatibili con la democrazia. Ritiene sbagliata l’idea – largamente condivisa in occidente – secondo cui solo classi dirigenti laicizzate potranno governare democraticamente un paese musulmano. Ha piena fiducia che la democrazia può trovar casa nell’islam delle moschee e piantare radici nella stessa fede coranica.

Il suo test è la Turchia, della quale è da molto tempo consulente ascoltato. In Turchia, il laicismo di Kemal Ataturk e dei suoi seguaci non ha affatto sradicato il sentimento religioso nella popolazione. Anzi, il partito attualmente al governo, l’AKP di Tayyip Erdogan, è nato proprio dalle moschee. E coniuga islam politico, liberismo economico e politica estera pro occidente e Israele.


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E il Vaticano? Della dottrina Lewis certamente respinge il ricorso alla forza militare come leva per esportare la democrazia.

Ma che la promozione della democrazia nei paesi musulmani sia un obiettivo sempre più voluto dai vertici della Santa Sede è la novità di questi ultimi mesi.

La Santa Sede antepone e propone chiaramente il “soft power” come mezzo per propagare la democrazia in quei paesi: ossia una sua diffusione pacifica, per conquista di consenso a diritti e regole di convivenza mostrati buoni e attraenti in se stessi. In questo la Chiesa attinge alla sua esperienza bimillenaria di annunciatrice del Vangelo.

Ma nello stesso tempo non esclude che la forza militare possa intervenire anch’essa come “missionaria di pace”, quando necessario. L’Iraq di oggi è uno di questi casi di necessità, a giudizio dei dirigenti vaticani.

È una svolta non da poco, questa in corso. Essa implica anche una revisione dei percorsi di dialogo interculturale e interreligioso in atto tra la Chiesa e il mondo musulmano. La svolta impone di dare molta più attenzione – e sostegno – a un altro islam rispetto a quello abitualmente avvicinato: l’islam delle correnti di pensiero non teocratiche, l’islam “quietista” del grande ayatollah sciita Sistani, l’islam modernista degli ismailiti di Karim Aga Khan, l’islam, in Europa, di pensatori come l’algerino Khaled Fouad Allam o il siriano Bassam Tibi e, nei paesi arabi e persiani, quello underground e dei samizdat, tanto originale e fecondo quanto perseguitato, anche per colpa di chi lo lascia solo.

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Tre libri utili:

Bernard Lewis, “La crisi dell’Islam. Le radici dell’odio verso l’occidente”, Mondadori, Milano, 2004, pp. 172, euro 16,50.

Khaled Fouad Allam, “L’islam globale”, Rizzoli, Milano, 2002, pp. 210, euro 16,00.

Bassam Tibi, “Euro-Islam. L’integrazione mancata”, Marsilio, Venezia, 2003, pp. 188, euro 9,90.