(l’Espresso) Chi si converte dall’Islam rischia la vita

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Morte o libertà per gli apostati? La contro-fatwa dei musulmani liberali

È sempre più accesa tra i musulmani la discussione su come agire nei confronti di chi abbandona la fede in Allah. L’islamologo gesuita Samir Khalil Samir analizza le posizioni in campo. In un libro sui convertiti al cristianesimo

di Sandro Magister ROMA, 30 novembre 2005 – Per i musulmani che si convertono alla fede cristiana la vita non è per niente facile. Anzi, è la loro vita stessa che può essere in pericolo. Nei paesi islamici sono giudicati apostati dalla “migliore comunità che Dio abbia dato agli uomini” e fatti segno di interdetto sociale, che in talune situazioni può tradursi in condanna giudiziaria, fino alla pena di morte.

Anche in Occidente rischiano molto. Per la gran parte di loro la clandestinità è la regola. Da un lato devono occultarsi rispetto alla comunità d’origine. Dall’altro lato non sempre trovano nella Chiesa cattolica quel sostegno che si aspetterebbero. C’è nella Chiesa una tendenza diffusa a non incoraggiare le conversioni dall’islam al cristianesimo: a parole per ragioni di “dialogo”, nei fatti per paura delle reazioni.

Eppure in più occasioni si sono alzate invocazioni d’aiuto, da parte di convertiti dall’islam che dopo il battesimo si sono sentiti “abbandonati”. In un’intervista di due anni fa alla tv italiana di stato, l’allora cardinale Joseph Ratzinger disse: “Lo so e mi addolora molto. È il dramma della nostra coscienza cristiana che è insicura di sè. Naturalmente dobbiamo rispettare gli stati islamici, la loro religione, ma anche chiedere la libertà di coscienza di quanti vogliono farsi cristiani e con coraggio assistere queste persone, se proprio siamo convinti che hanno trovato la risposta vera. Non dobbiamo lasciarli soli. Si deve fare tutto il possibile perché possano in libertà e con pace vivere quanto hanno trovato nella religione cristiana”.

A sollevare il velo sulla vita di questi neoconvertiti è arrivato nei giorni scorsi un libro edito da Piemme: “I cristiani venuti dall’islam”. Gli autori sono Giorgio Paolucci, caporedattore di “Avvenire”, il quotidiano della conferenza episcopale italiana, e Camille Eid, libanese, specialista del mondo arabo e islamico, fresco autore – tra l’altro – di una inchiesta sui cristiani in Iran pubblicata dalla rivista “Oasis” del patriarcato di Venezia e rilanciata lo scorso 11 novembre da www.chiesa.

Il libro – per la prima volta – racconta numerose storie di musulmani residenti in Italia i quali hanno incontrato nei modi più diversi il cristianesimo e, convertitisi, hanno ricevuto il battesimo.

In appendice, i due autori passano anche in rassegna i paesi musulmani, fornendo per ciascuno di essi il grado di minaccia – fino alla condanna a morte – che incombe su chi dall’islam passa a un’altra fede.

Ma, in un’ampia prefazione, il libro esamina anche come la questione viene discussa all’interno all’islam.

Perché anche all’interno dell’islam è in atto un acceso confronto su come agire nei confronti degli apostati, che rimanda al più ampio dibattito sull’interpretazione del Corano e sui rapporti tra politica e fede. Un dibattito animato dai musulmani “liberali”, contrapposti alle posizioni intolleranti espresse dai “radicali”.

Autore della prefazione è Samir Khalil Samir, gesuita egiziano, docente di storia della cultura araba e di islamologia all’Université Saint-Joseph di Beirut e al Pontificio Istituto Orientale di Roma, fondatore del Centre de Recherche arabes Chrétiennes e presidente dell’International Association for Christian Arabic Studies.

Dall’analisi del dibattito in atto tra i musulmani, padre Samir ricava che le posizioni degli intolleranti sono più fragili di quanto appaia, e che viceversa sono oggi più incisive di ieri le posizioni dei liberali, ai quali l’Occidente e la Chiesa dovrebbero dare più attenzione e sostegno.

Ecco qui di seguito i passaggi principali della prefazione al libro, per gentile concessione degli autori e dell’editore:


L’apostasia nel Corano e il dibattito tra i musulmani

di Samir Khalil Samir, S.J.



Il termine che abitualmente viene utilizzato in arabo per definire la situazione di un musulmano che rinnega l’islam è riddah o irtidad. Chi si rende responsabile di questa scelta è chiamato murtadd, apostata. Una larga parte dell’opinione pubblica musulmana ritiene che l’apostata debba essere ucciso in virtù di ciò che viene definito “il castigo dell’apostasia”, hadd al-riddah. Nei secoli questa convinzione si è radicata a tal punto che, talvolta, per poter giustificare l’eliminazione di qualcuno, lo si accusava – e tuttora lo si accusa – di apostasia.

Il problema è tornato di stringente e drammatica attualità negli ultimi decenni sull’onda del cosiddetto “risveglio islamico”, per il fatto che i musulmani radicali hanno rivalutato questa pena e chiedono di applicarla a coloro che si convertono al cristianesimo o ad altre fedi religiose, oppure diventano a loro giudizio dei rinnegati. Ho ricostruito una bibliografia provvisoria di ventuno scritti recenti di autori siriani, giordani, egiziani, sudanesi, pakistani e iraniani, o di musulmani residenti in Occidente. La novità sta nel fatto che la questione è dibattuta ormai non solo tra specialisti del fiqh, il diritto islamico, ma anche sui mass media. Gli autori sono pensatori musulmani credenti, ma non necessariamente giuristi.

La vicenda dei “Versetti satanici” di Salman Rushdie ha fatto da detonatore assumendo improvvisamente una dimensione mondiale, a motivo dell’accusa di apostasia lanciata con una fatwa dal grande ayatollah Khomeini, che ha esposto lo scrittore anglo-indiano al rischio di morte. Altri casi hanno avuto una ripercussione più o meno locale, come quello della scrittrice del Bangladesh Taslima Nasreen, accusata nel 1994 di offesa alla religione e costretta prima a vivere in clandestinità e poi a riparare in Occidente. In Egitto ricordiamo l’assassinio nel 1992 dell’intellettuale Farag Foda e il fallito attentato nel 1995 contro il premio Nobel per la letteratura Naghib Mahfouz, entrambi opera di gruppi radicali che li accusavano di apostasia. Ancora più significativa è la vicenda che ha coinvolto il docente universitario Nasr Hamid Abu Zayd, condannato per apostasia nel 1995 da un tribunale del Cairo per aver proposto un’interpretazione storico-razionalista del Corano. In conseguenza di questa decisione è stato decretato lo scioglimento del suo matrimonio, in quanto alla donna musulmana non è permesso mantenere il legame coniugale con un apostata. Temendo di essere ucciso da qualche fanatico, ha scelto di emigrare nei Paesi Bassi dove attualmente vive con la consorte. Sempre in Egitto, l’accusa di apostasia è stata scagliata nel 2001 contro Nawal al-Saadawi da un avvocato radicale islamico.

I casi accennati sono relativi ad accuse di tradimento della religione musulmana. Ma non meno significative sono le vicende di conversione dall’islam ad altre fedi religiose, in particolare al cristianesimo. Dietro l’intera materia si stagliano alcune questioni di fondo: la libertà di coscienza, il rapporto tra religione e politica nelle società musulmane e, in ultima analisi, la concezione stessa dell’islam: è possibile pensare un islam “laico”, in cui religione e stato siano distinti?

Il problema è aggravato dal fatto che l’apostasia sembra configurarsi come un reato nel quadro dell’interpretazione tradizionale dell’islam fondata sul Corano e sulla sunna, la tradizione islamica. Rimettere ciò in discussione equivale a scuotere le fondamenta stesse dell’islam. Anzi, siccome questo reato viene descritto – secondo i fondamentalisti – nel Corano stesso e negli hadith, i detti del profeta, rimetterlo in discussione equivale ad arrecare un’offesa al valore assoluto del Corano, concepito come sistema che governa tutta la vita del credente, anche in ambito civile. L’apertura della più piccola breccia rischierebbe di far crollare tutto l’edificio intellettuale dei fondamentalisti, divenuti sempre più influenti nelle società islamiche. Criticare questo hadd, questa prescrizione penale del Corano, in nome della modernità equivale a dichiarare implicitamente che il libro sacro non è più valido per i musulmani – e a maggior ragione per i non musulmani – in epoca moderna.


I QUATTORDICI PASSI DEL CORANO


Sia i radicali che i liberali espongono le loro argomentazioni a partire dal Corano. In esso si trovano due termini per indicare l’apostasia: irtadda e al-kufr ba’d al-islam.

Il primo termine, irtadda, significa rinnegare, tornare sui propri passi, e compare in tre versetti. Uno dei più citati è quello della sura della Vacca, 2,217: “Quanto poi a quelli di voi che rinnegano la fede e muoiono da miscredenti, vane saranno le loro opere in questo mondo e nell’altro: finiranno nel fuoco e vi resteranno per sempre”. Gli altri due passi sono la sura della Mensa 5,54 e la sura di Maometto 47,25.

Il secondo termine, al-kufr ba’d al-islam, significa rinnegamento, incredulità o miscredenza dopo aver aderito all’islam. Si riscontra nel Corano undici volte. Il più citato e discusso è questo versetto della sura del Pentimento 9,74: “Giurano per Dio di non aver detto nulla, eppure hanno parlato da miscredenti e dopo aver abbracciato l’islam l’hanno rinnegato. Hanno cercato di attuare un piano che non è loro riuscito, e se l’hanno poi sconfessato è stato solo perché Dio, insieme al suo Messaggero, li ha arricchiti dei suoi favori. Se si convertiranno, sarà meglio per loro; se invece volteranno le spalle, Dio li punirà con un castigo doloroso in questo mondo e nell’altro; e qui in terra non avranno patroni né difensori”. Gli altri passi sono nella sura della Vacca (2,108-109 e 2,161-162), nella sura della Famiglia di Imran (3,90-91 e 3,177), nella sura delle Donne (4,137 e 4,167), nella sura della Mensa (5,73), nella sura del Pentimento (9,66), nella sura delle Api (16,106) e nella sura del Discrimine (25,55).

Quale punizione prevede dunque il Corano, per gli apostati? Dei quattordici passi che vi alludono, solo sette parlano di “castigo”, e sempre in riferimento a qualcosa che avverrà nell’aldilà, mai durante la vita. In un caso (2, 217) si parla del fuoco eterno; in un altro (2,161) della “maledizione di Dio, degli angeli e degli uomini tutti insieme”; e in quattro casi (3,91; 3,177; 5,73 e 16,106) di “castigo doloroso”. In un solo versetto, nella sura del Pentimento citata sopra (9,74), viene prescritto “un castigo doloroso in questo mondo e nell’altro”. Tutti i commentatori riconoscono la vaghezza di questa prescrizione rispetto alle altre pene coraniche. Infatti, mentre per il furto o per l’adulterio il Corano indica la punizione con estrema precisione (ad esempio, il numero dei colpi di frusta), c’è da stupirsi che per un reato tanto grave come l’apostasia parli soltanto di “un castigo doloroso in questo mondo e nell’altro”.

Anche gli islamisti radicali riconoscono che il Corano non è esplicito sul castigo dell’apostata. Uno tra gli intellettuali radicali più rappresentativi, Muhammad Salim al-’Awwa, scrive: “I santi versetti non fanno allusione, né da vicino né da lontano, a un castigo in questo mondo prescritto dal Corano contro chi avrebbe apostatato dall’islam. La sola eccezione è il versetto 74 della sura del Pentimento, che contiene la minaccia di una tortura dolorosa in questo mondo e nell’aldilà. Ciononostante, questo versetto non ci è utile per determinare il castigo dell’apostasia, perché parla del rinnegamento, kufr, degli ipocriti dopo aver abbracciato l’islam. Ora si sa che non è previsto alcun castigo in questo mondo per gli ipocriti, poiché non manifestano il loro kufr ma lo negano e nascondono. Le prescrizioni giuridiche nel sistema musulmano si applicano, infatti, solamente alle apparenze degli atti e delle parole, non a quanto nascondono i cuori e celano le coscienze. […] Da ciò che precede concludiamo che il sacro Corano non ha precisato un castigo in questo mondo per l’apostasia; ma i versetti che fanno menzione dell’apostasia prefigurano una minaccia di un castigo dell’apostata nell’altro mondo” .

I musulmani di orientamento liberale hanno pubblicato, negli ultimi anni, vari libri che condannano il ricorso a procedimenti giudiziari contro gli apostati. Segnalo, ad esempio, quello dello sceicco egiziano Ahmad Subhi Mansur, intitolato “Il castigo dell’apostasia”, e il libro del siriano Adlabi, intitolato “L’uccisione dell’apostata”. Molte altre prese di posizione vanno nella stessa direzione. E tutti partono del Corano per affermare che esso contiene un orientamento generale favorevole alla libertà religiosa.

I liberali citano anzitutto il fatto che il Corano critica ogni costrizione religiosa. Sono tre i passi più citati in proposito, anche negli incontri tra musulmani e cristiani.

Sura della Vacca 2,256: “Non vi sia costrizione nella religione! La retta via ben si distingue dall’errore”.

Sura di Giona 10,99-10: “Se il tuo Signore l’avesse voluto, tutti gli abitanti della terra avrebbero creduto. E tu vorresti costringere gli uomini a diventar credenti? Nessuno può credere senza il permesso di Dio”.

Sura della Caverna 18,29: “Di’: La verità viene dal vostro Signore: chi vuole creda, chi non vuole non creda”.

Le due ultime sure citate sono meccane, corrispondenti cioè al periodo antecedente l’Egira, la migrazione di Maometto a Medina. Invece il primo testo, quello più famoso, risale all’inizio del periodo medinese, dunque dopo l’Egira, ed è databile attorno all’anno 623.

Questo dettaglio non è privo di importanza. Infatti la tradizione musulmana ha sviluppato la teoria dell’abrogante e dell’abrogato, al-nasikh wa-l-mansukh, secondo la quale certi versetti rivelati al Profeta ne avrebbero abrogati altri rivelati in precedenza. Il punto è sapere se questi tre versetti a favore della libertà religiosa sono stati abrogati oppure no da qualcuno dei quattordici versetti che parlano dell’apostasia, e in particolare da quello più specifico (sura del Pentimento 9,74) che parla di una punizione dell’apostata sia nell’aldilà sia in questo mondo. L’abrogazione è stata talvolta sostenuta da grandi giuristi del passato, in particolare da Ibn Hazm di Cordoba (994-1063), che appartiene alla rigida scuola giuridica hanbalita.

In epoca più recente, l’ex sceicco di al-Azhar, Muhammad Shalabi, commentando Ibn Hazm, ha scritto: “Noi non costringiamo l’apostata a ritornare all’islam, per non contraddire la parola di Dio: ‘Nessuna costrizione in materia di religione’. Ma gli lasciamo l’opportunità di ritornare, volontariamente, senza costrizione. Se non ritorna deve essere ucciso, perché è strumento di sedizione, fitnah, e perché apre la porta ai miscredenti, kafir, per attaccare l’islam e seminare il dubbio tra i musulmani. L’apostata è quindi in guerra dichiarata contro l’islam, anche se non alza la spada di fronte ai musulmani”.

Shalabi intende dire che il “versetto della non-costrizione” non è stato abolito; ma che l’apostata deve essere ucciso ugualmente, in nome di un altro brano coranico, quello della sedizione, fitnah, che viene oggi chiamato dai musulmani radicali “il versetto della spada”, ayat al-sayf, sura della Vacca 2,191-193. Ecco cosa dice: “Uccideteli ovunque li incontriate e scacciateli da dove hanno scacciato voi, poiché la sovversione, fitnah, è peggiore dell’uccisione. Non combatteteli però presso il Sacro Tempio, a meno che non vi attacchino per primi: in tal caso, uccideteli. Ecco la ricompensa dei miscredenti! Ma se desistono, sappiate che Dio è indulgente e misericordioso. Combatteteli dunque finché non ci sia più sovversione, e la religione sia quella di Dio. Se desistono, non ci siano più ostilità se non contro gli iniqui”.

Dunque, salvo poche eccezioni, i commentatori – anche quelli vicini alle posizioni più radicali – concordano nel dire che i tre versetti a sostegno della libertà religiosa non sono stati abrogati.

È questo che induce i musulmani liberali a sostenere che la linea principale del Corano è favorevole alla libertà di coscienza. Se il Corano parla talvolta dell’apostata, ciò non può opporsi alla linea generale, ma deve essere compreso in questo quadro globale, che è di tolleranza.


I DUE HADITH DI AWZA’I E DI ‘IKRIMAH


Ma allora, su che cosa si basa la pratica tradizionale islamica, se il Corano non stabilisce nessuna punizione specifica contro l’apostata?

Essa si basa su due detti, hadith, del Profeta, instancabilmente ripetuti dai radicali: quello dell’imam Awza’i, e quello di ‘Ikrimah.

Entrambi questi hadith appartengono alla categoria degli hadith al-ahad, cioè dei detti riferiti da una sola persona. In generale, gli ulema considerano non validi questi detti nella definizione delle pene e dei castighi corporali, hudud. Tuttavia, lo sceicco radicale egiziano Yusuf Al-Qaradawi, oggi uno dei più ascoltati nel mondo arabo, fa una difesa di principio di questo tipo di detti trasmessi da un solo testimone, affermando che sono ugualmente validi.

Su che cosa si basano, invece, coloro i quali sostengono che i due hadith non debbano essere presi in considerazione? Riassumerò qui l’argomentazione di alcuni autori, particolarmente quella dello sceicco Ahmad Subhi Mansur che, a mio avviso, ha fatto la migliore analisi storica e giuridica degli hadith in questione.

Per ciò che riguarda l’hadith di Awza’i, Mansur dimostra che egli fabbricò vari hadith per compiacere coloro che detenevano il potere. Nato a Baalbek nel 707, Awza’i era riuscito grazie alla sua abilità a introdursi nella corte di Damasco, non lontano dalla sua città natale, diventando il giurista dei califfi Omayyadi. Quando, nel 750, gli Abbassidi si impadronirono del potere e fecero il loro ingresso a Damasco uccidendo tutti i dirigenti Omayyadi e i loro cortigiani, Awza’i fu l’unico a uscire indenne da questo sanguinoso cambio della guardia. Possediamo il racconto del suo incontro con il generale Abbasside, riportato dallo storico Ibn Kathir, dal quale emerge la sua personalità opportunistica. È in questo contesto che Awza’i cita il famoso hadith al-nafs bi-l-nafs, vita per vita, che egli fa risalire al Profeta: “Il sangue di un musulmano non è lecito al di fuori di uno di questi tre casi: la vita in cambio della vita, l’uomo sposato che commette adulterio, quello che abbandona la sua religione e si separa dalla sua comunità”.

Secondo Awza’i, Maometto avrebbe dunque affermato che un musulmano può essere ucciso solamente in uno di questi tre casi. Il primo risulta dall’applicazione della legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente, vita per vita. Il secondo, quello dell’adulterio, è in contraddizione flagrante con il testo del Corano riportato nella sura della Luce 24,2, che prevede esplicitamente una pena di cento frustate per l’adultero, ma mai la pena di morte. Il terzo caso corrisponde all’apostasia.

Richiamandosi a questo hadith – che si presenta senza nessuna catena di trasmissione, cosa completamente insolita nella scienza musulmana della tradizione – gli Abbassidi eliminarono i loro oppositori politici.

Aggiungo che nelle oltre 800 pagine della raccolta degli scritti di Awza’i, recentemente pubblicata a Beirut, questo hadith non è riportato. In compenso, se ne trova uno che parla di apostasia, anch’esso citato senza la pur minima catena di trasmissione. Molto curiosamente, riguarda solo la donna. È il numero 1354: “A proposito della donna, se si separa dall’islam, deve essere uccisa” .

Il secondo hadith a cui si rifanno i radicali, quello di ‘Ikrimah, dice: “Chi cambia religione, uccidetelo”. Anch’esso si presenta poco attendibile.

‘Ikrimah, morto nel 723, era lo schiavo di ‘Abdallah Ibn ‘Abbas, cugino di Maometto, e fu liberato dopo la morte del suo padrone. La sua fama deriva dal fatto che si cimentò a trasmettere delle “tradizioni” attribuite a Ibn ‘Abbas, il quale godeva di una grande autorità. Ma egli apparteneva al gruppo politico ribelle dei Kharigiti ed è ricordato dagli scienziati degli hadith per la sua scarsa credibilità e per la debolezza della catena di trasmissione da lui fornita: secondo la sua abitudine, egli fa risalire questo suo hadith a Ibn ‘Abbas, al quale attribuisce centinaia di detti. Inoltre, il contenuto stesso dell’hadith in questione non è in conformità né con la tradizione, sunna, né con il Corano.

In conclusione, le due tradizioni sulle quali si appoggiano i radicali per giustificare la condanna a morte dell’apostata sono entrambe molto discutibili.


UN PRECEDENTE STORICO: LE “GUERRE DI APOSTASIA”


Se dunque né il Corano né la sunna autorizzano l’interpretazione dei radicali, su che cosa essa si fonda?

Tra gli argomenti dei musulmani radicali ve n’è uno di carattere storico. Esso fa riferimento agli eventi noti nella storia musulmana con il nome di “guerre di apostasia”.

I liberali sottolineano il fatto che Maometto non ha ucciso mai nessuno in nome del “crimine di apostasia”. Per due volte, quando i suoi fedeli volevano uccidere un rinnegato, Maometto intervenne per impedirlo.

Si sa che Maometto combatté molte guerre, diciannove secondo la biografia ufficiale scritta da Ibn Hisham, non esitando ad uccidere i suoi nemici o coloro che si opponevano alla sua missione. Se dunque ha negato per due volte l’uccisione di un rinnegato è perché non considerava l’apostasia come un motivo che comporta una punizione nella vita terrena. Questa è l’argomentazione dei musulmani liberali.

Le “guerre d’apostasia”, hurub al-riddah, invocate invece dai musulmani radicali sono quelle condotte da Abu Bakr, il primo califfo, succeduto a Maometto dopo la sua morte nel 632 e morto egli stesso due anni dopo. I fatti sono noti: alla morte di Maometto, numerose tribù arabe già sottoposte allo stato di Medina fondato dal Profeta e che gli pagavano un pesante tributo in segno di vassallaggio, ne approfittarono per non versare più denaro e ottenere la libertà. Abu Bakr condusse una feroce guerra contro di loro, per farli rientrare in seno all’islam. Questo atteggiamento venne criticato da molti, in particolare dai primi compagni di Maometto, i Sahaba. Tuttavia, quando il califfo riuscì nell’intento di riportare la maggioranza di queste tribù sotto la sua dominazione, tutti si congratularono con lui. Per i contemporanei di Abu Bakr, come per gli storici musulmani, queste guerre avevano uno scopo economico e politico. Abu Bakr ha combattuto l’una dopo l’altra queste tribù per farle rientrare nel grembo del giovane stato musulmano, e così rimpinguarne le casse.

Il suo successore Omar, morto nel 644, il primo califfo a portare il titolo di “Comandante dei credenti”, non proseguì queste guerre. E il motivo era chiaro: avendo egli già conquistato ampi territori bizantini e persiani, il ritorno di qualche arabo ribelle avrebbe fruttato solamente un magro bottino. Anzi, la storia racconta che questo califfo protesse un apostata di cui era stata chiesta la morte. Ciò mostra in maniera evidente che queste guerre non avevano niente a che vedere con il problema dell’apostasia, ma piuttosto con quello del ritorno delle tribù arabe al nuovo impero.


CONCLUSIONI


Insomma, il reato di apostasia e la sua sanzione con la morte dell’apostata, che vengono presentati come fondati su una lunga tradizione nell’islam, non hanno in realtà un fondamento islamicamente accettabile. Non trovano fondamento nel Corano e nella sunna, né vi sono hadith che li giustifichino. Neppure la storia dei primi anni dell’impero islamico autorizza una simile interpretazione.

Da dove trae origine allora quello che è diventato un luogo comune largamente condiviso nel mondo islamico? I liberali sostengono che è un’invenzione dei giuristi musulmani ed è stata promossa per motivi essenzialmente politici. Ma allora – aggiungono – se questo reato è un problema politico, deve essere trattato politicamente. Se l’apostasia è un rischio per la nazione – e se l’apostata è giudicato alla stregua di un pericolo per lo stato, di uno strumento di fitnah, sedizione – allora si tratta di un problema politico da affrontare in quanto tale, non di un problema religioso che deve essere gestito dall’autorità musulmana.

È evidente che, dietro tutto ciò, quel che è in gioco è la libertà religiosa. E ciò va ben al di là dei casi di musulmani che si fanno cristiani o che criticano l’islam. Riconoscere come reato l’apostasia significa aprire le porte e offrire pretesto a ogni tipo di repressione esercitata dai gruppi islamisti contro tutti quelli che non la pensano come loro. È, in definitiva, dare carta bianca al terrorismo che vuole ammantare le sue gesta con una giustificazione religiosa.

Ecco, in sintesi, alcuni aspetti problematici sollevati dal dibattito attuale sulla riddah, dibattito che fortunatamente non sembra destinato a esaurirsi in un breve spazio di tempo. È perciò importante che i paesi occidentali, i quali si sono fatti spesso portavoce della difesa delle libertà, sostengano gli sforzi degli intellettuali musulmani che si impegnano per conciliare la fede islamica con i diritti dell’uomo e che lottano per un islam dal volto umano.

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Il libro:

Giorgio Paolucci, Camille Eid, “I cristiani venuti dall’islam. Storie di musulmani convertiti”, prefazione di Samir Khalil Samir, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 2005, pp. 222, euro 12,90.

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L’autobiografia di uno degli intellettuali musulmani fatti oggetto di accuse di apostasia:

Nasr Abu Zayd, “Una vita con l’islam”, il Mulino, Bologna, 2004, pp. 230, euro 12,50.

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Un altro libro, fresco di stampa, molto efficace nel tracciare un profilo dell’islam italiano, con un capitolo sulle conversioni nascoste:

Cristina Giudici, “L’Italia di Allah. Storie di musulmani fra autoesclusione e desiderio di integrazione”, Bruno Mondadori, Milano, 2005, pp. 140, euro 10,50.