La laicità non è una divinità
Card. Mario F. Pompedda, Prefetto della Segnatura Apostolica (il Giornale, 29 gennaio 2004, p. 1 e p. 39)
Gentile Direttore,intervengo nuovamente, sempre a titolo personale, in merito alla legge sulla “laicità” in discussione proprio in questi giorni in Francia, dopo l’intervista, rilasciata al suo quotidiano lo scorso dicembre. Lo faccio senza alcuna intenzione di interferire nella legislazione di quel Paese e nella sua assoluta sovranità. Lo ritengo opportuno perché quella legge potrebbe intaccare alcuni principi fondamentali dei diritti umani universali ed essere così di cattivo esempio per altri ordinamenti statali.
Se tutto il problema si fosse limitato alla possibilità o meno di indossare nella scuola dei capi d’abbigliamento o dei simboli che richiamano a un credo religioso, la questione non sarebbe stata poi così difficile da risolvere. Fintanto che questi capi d’abbigliamento e questi simboli non turbano il normale svolgimento dell’attività scolastica e non sono indossati con chiaro intento provocatorio, non si vede perché proibirli. Il problema che sta dietro alla legge francese, però, è ben più grave. Mi ha molto colpito la lettura della relazione “sull’applicazione del principio di laicità nella Repubblica”, preparata dalla commissione presieduta da Bernard Stasi e successivamente presentata al presidente Jacques Chirac. Balza agli occhi, infatti, una esaltazione della laicità dello Stato – principio, si badi bene, di per sé importante e condivisibile – al punto da arrivare quasi a una sua “divinizzazione”. Sì, la laicità viene presentata come una sorta di divinità che deve dominare tutta la vita della Francia. Questo principio, che dovrebbe essere sinonimo di libertà, si converte così in un rifiuto della libertà delle singole persone.
Certo, la relazione Stasi offre un quadro della situazione francese dal quale si evince che alcuni conflitti sono realmente in atto nella società, e che alla loro origine vi sono anche alcune concezioni legate a determinate religioni. Da quelle pagine emerge la consapevolezza del fallimento di una politica di integrazione di alcune comunità, in particolare di quelle musulmane. Pur riconoscendo il diritto dello Stato di difendersi, e di difendere e conservare la propria identità, cultura e valori fondamentali, non si può pero non riconoscere che quello di migrare è uno dei diritti riconosciuti alla persona dalla Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo. Ebbene, queste popolazioni, queste comunità, hanno pure il diritto fondamentale di vivere la propria fede, le proprie convinzioni religiose e la propria cultura. Avendo come limite quello dell’ordine pubblico. Il diritto di credere non riguarda soltanto la professione privata, nella propria casa o nel proprio ambito, ma anche quella pubblica, e dunque non si vede perché lo Stato debba intervenire se non vengono lesi diritti altrui o non ci sono problemi di ordine pubblico.
Due esempi, tanto per chiarire. Chi professa una certa fede ha diritto a sposarsi secondo le usanze di quella religione anche in Occidente, ma non si possono imporre le nozze a una giovane donna che non lo voglia, come invece accade in certi Paesi del Sud del mondo. O ancora: se indossare il velo è il frutto di una imposizione contro la volontà della donna, lo Stato può impedire che ciò avvenga perché è lesa la libertà personale dell’individuo. Ma se chi lo indossa vuole indossarlo liberamente, lo Stato non può imporgli di toglierlo.
Mi chiedo: in forza di che cosa lo Stato può obbligare gli studenti, contro la loro volontà, a non indossare un capo d’abbigliamento o un simbolo che richiama la religione d’appartenenza? In forza di che cosa può imporre un certo abbigliamento a una ragazza, per la lezione di educazione fisica, se questo va contro i suoi convincimenti profondi? Più che la laicità – concetto che mi sembra di poter far risalire un po’ più indietro di quanto affermato invece nella relazione Stasi, dato che nel Vangelo è Gesù stesso a sancire questa legittima autonomia con la frase “Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” – qui si vuole imporre la nuova religione del laicismo. Se passasse questo principio, invece che tutelare la libertà, la si violerebbe, imponendo regole e concezioni che finiscono per togliere alla persona il diritto fondamentale di orientare la propria vita secondo i dettami della propria coscienza.
Da questo, credo, deriva la preoccupazione del Papa, il quale, nel recente discorso al Corpo diplomatico ha ben spiegato che “laicità non è laicismo”, ma è invece “un luogo di comunicazione tra le diverse tradizioni spirituali e la nazione”.