Il ’68 alla rovescia del cattolico Messori
di Luciano Gulli – venerdì 01 febbraio 2008, 08:56
Il giornalista racconta come visse il periodo della contestazione globale. Che giunse quattro anni dopo la sua conversione al cattolicesimo: "I più estremisti erano i figli dei ricchi borghesi. Facevano i giacobini con i soldi di re Agnelli"
Brescia – Se un giorno avessero detto a Vittorio Messori che sarebbe finito ginocchioni, a baciare l’anello pastorale di due papi, e a farsela tra preti, vescovi e cardinali, non ci avrebbe creduto nessuno. Non lui, che nei suoi vent’anni era un mangiapreti e un liberal agnostico con simpatie per il Pci; né la sua famiglia, di fascisti emiliani non rinnegati; né soprattutto i suoi maestri laici all’università di Torino, città dove Messori è diventato grande. Gente del calibro di Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, Luigi Firpo. Le premesse, gli studi, le frequentazioni, la formazione laica – se proprio di libri era destino che si occupasse – facevano di lui il candidato ideale alla scuderia dell’Einaudi. E invece è finito al soldo – fino a quando lo strepitoso successo dei suoi libri non lo ha affrancato dagli obblighi della redazione – delle Edizioni Paoline, quelle di Famiglia Cristiana. Sicché, nel suo caso (ammetterà volentieri anche lui) non si può dire che non ci sia stato un intervento deciso, ma proprio a gamba tesa, della Divina Provvidenza.
Messori riceve come un padre guardiano nei vasti silenzi della millenaria abbazia di Maguzzano, tra gli olivi e i cipressi che fanno da cornice al lago di Garda. In una sala dell’abbazia, di cui lo scrittore (che vi ha uno studiolo appartenuto un tempo al monaco cellerario) è diventato il Gran Custode, campeggia una foto di Gabriele D’Annunzio – lui sciarpitissimo, come sempre – tra due umili frati. La data è quella del 19 settembre 1922. «All’epoca – mi racconta Messori, ghignando – i giornali di tutto il mondo parlarono di una conversione del Vate, se non già di una sua intenzione di farsi religioso in questo convento. Lui rispose che sì… monaco… perché no? Ma nel senso di cultore della mona. I frati ci rimasero male, puoi capire…».
La conversione di Messori è del 1964, quattro anni prima del mitico Sessantotto, di cui ora parleremo. Fu allora, per non dispiacere troppo ai Galante Garrone, ai Bobbio e ai suoi familiari, che Messori cominciò ad andare a messa di nascosto. «Fu l’inizio di un’avventura interiore. “Secretum meum mihi”, diceva Sant’Agostino: “il mio segreto è soltanto mio”. Così, anch’io, nel mio piccolo, rispondo a chi mi domanda come accadde. Intendiamoci però: io non ho mai rinnegato la cultura laica. Rifiuto il laicismo, l’ideologia. Io sono andato semplicemente oltre. Mi resi conto, a un tratto, che quella laica è una cultura insufficiente. Risponde alle domande penultime: quelle politiche, culturali. Ma non ha risposte per le domande ultime, sul senso della vita e della morte».
Dopo una breve esperienza di redattore alla Sei, l’editrice dei Salesiani, Messori entra a Stampa Sera, direttore Alberto Ronchey. «Scampando a un destino da intellettuale», sorride accendendosi una sigaretta. «Quel che c’era di pittoresco, di gioioso, nel Sessantotto, durò una manciata di mesi. I motivi per protestare non mancavano, sia chiaro. L’università era un posto anacronistico, una baronia. La morale era spesso moralismo: consentiva a un Oscar Luigi Scalfaro di prendere a ceffoni le signore scollate al ristorante. O a Bernabei di mettere i mutandoni alle ballerine. Ma la stagione dei fiori, le joli mai, il bel maggio sessantottino durò poco. Poi venne il tempo del fanatismo ideologico; e a seguire, gli anni di piombo e della droga».
Anche nei giornali, dove fino ad allora i direttori avevano regnato come monarchi assoluti (in redazione, alla Stampa, ci si alzava in piedi in presenza del Capo) il potere finisce nelle mani dei giacobini. Erano i Cdr, i Comitati di redazione, in quel permanente clima assembleare, a farla da padroni, a decidere i titoli e perfino le assunzioni. «E naturalmente i più estremisti erano i giornalisti figli della ricca borghesia torinese, così com’era stato al tempo della Rivoluzione francese, innescata dai borghesi agiati e progressisti e dagli aristocratici mimetizzati. Una minoranza, ma prepotente e violenta, di esagitati che un giorno, mentre Mirafiori bruciava per un attentato, salirono sul tetto della Stampa a brindare per festeggiare le fiamme in casa del padrone, l’odiato Agnelli che gli pagava il ricco stipendio».
Di quegli anni, Messori ha un ricordo personale, così bruciante da meritare la combustione di un’altra sigaretta. «Andai a una conferenza stampa del fondatore di Amnesty International, Peter Benenson, che apriva una sede a Torino. La Grecia dei colonnelli, il Cile di Pinochet, ma anche il mancato rispetto dei diritti umani nei Paesi dell’Est. Questi i punti toccati da Benenson alla conferenza stampa. Scrissi due cartelle. Ma quando vidi il giornale stampato, mi accorsi che ogni riferimento ai Paesi del comunismo reale era sparito. Protestai col capo cronista, Ernesto Gagliano. Allargò le braccia e mormorò: “Che vuoi farci? Il Cdr ha letto e non ha approvato…”». Questa era La Stampa. Questo era anche il Corriere della Sera da cui scappò a gambe levate Indro Montanelli per fondare il qui presente Giornale.
Un’ubriacatura che travolse anche la Chiesa. Ricordate la comica stagione dei «preti operai» in dolcevita antracite, che alla fine vennero cacciati dagli operai della Fiat perché rubavano posti di lavoro ai padri di famiglia? Protagonista eminente di quella bizzarra lettura proletaria del Vangelo fu il cardinale di Torino, Michele Pellegrino. È di quegli anni la lettera pastorale di Pellegrino intitolata Camminare insieme. Insieme con chi? Ma con i comunisti, ovvio. Messori scuote il capo. «Pellegrino, sant’uomo, studioso illustre di patristica ma senza esperienza pastorale, prese sul serio il mito della classe operaia, dimenticando che alla Fiat, perfino in quegli anni, gli iscritti al sindacato erano minoranza, e quelli della Fiom, minoranza all’interno della minoranza».
Quando si intronò nel ruolo di arcivescovo, Pellegrino ricevette in dono dai fedeli, come voleva la tradizione, una croce pettorale d’oro. La vendette, destinando demagogicamente il ricavato agli «ultimi» e sostituendola con una di legno. «Demagogia o carità evangelica? Quando andò al suo Seminario, a Rivoli, venne accolto dai futuri preti, in tonaca, a pugno chiuso. Scandivano lo slogan che risuonava, come un mantra, nelle strade: “Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tze Tung!”. Io ero lì come cronista, li ho visti con i miei occhi». Risultato: nel giro di pochi anni il Seminario si svuotò, e l’immobile venne venduto. «Da allora – commenta Messori – la diocesi di Torino, che conta due milioni di battezzati, ordina due preti l’anno. Quando va bene. Quando va male, uno. O zero del tutto».
È in quegli anni che il Gran Custode dell’abbazia di Maguzzano, l’unico giornalista ad avere intervistato due papi (Varcare la soglia della speranza con Giovanni Paolo II: trenta milioni di copie in 53 lingue, e Rapporto sulla fede con l’allora Prefetto dell’ex Sant’Uffizio, Joseph Ratzinger); è lì, nel Sessantotto e dintorni che Messori, «aspettando che il carnevale finisse», continua la sua lenta navigazione alla ricerca della verità del Vangelo. «Dalla Chiesa uscivano eccitate schiere di preti e di suore che avevano scoperto Marx, Freud, Nietzsche. Io, alle porte di quella Chiesa avevo bussato da poco, deluso proprio da quei maestri. In silenzio, lavoravo a Ipotesi su Gesù. Uscì nel ’76, nel pieno dell’ubriacatura cattocomunista. E in capo a due anni il libro vendette, solo in Italia, un milione di copie. Nelle classifiche, era primo nella saggistica. Nella narrativa svettava Porci con le ali di Lidia Ravera, ti ricordi?».
Passeggiando nel chiostro del convento, prima di congedarci, gli domando qual è, secondo lui, il lascito del Sessantotto. Ci pensa un po’ su. Poi dice: «Tutte le rivoluzioni, dall’Illuminismo in poi, sono fallite. Con l’eccezione della rivoluzione sessuale. I ventenni del ’68 furono i quarantenni degli anni Ottanta, la generazione più edonista, sfacciata, egoista e allupata del secolo. Guarda lo sconquasso che ha portato nella vita affettiva, familiare, sessuale. Aumentando, credo, l’infelicità delle persone. Il 53 per cento dei matrimoni, a Milano e a Torino, finiscono in Tribunale. Mentre dall’omofobia pre-Sessantotto, che era deprecabile, siamo passati all’omocrazia odierna, in cui ti trascinano in Tribunale anche solo se parli di “normalità” per chi non è gay. Un nuovo conformismo. Una nuova inquisizione. Non è un bel guadagno».
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