il Giornale 1-7-2009
Dossetti, l’eretico che volle riformare anche il Vaticano
di Gianni Baget Bozzo
Il leader Dc influenzò il Concilio II sfidando la linea ufficiale di Paolo VI. Il mutamento a cui pensava riprendeva l’antica contrapposizione tra monachesimo e papato
Il Concilio fu l’evento fondamentale per Dossetti, che tolse dal suo orizzonte la tesi della «catastrofe». La Chiesa, che a suo giudizio era la chiave della storia, accettava di porsi in discussione nella sua condizione spirituale e culturale. Proprio questa era l’intenzione fondamentale di Dossetti, che aveva lasciato il potere politico da lui conquistato per dedicarsi alla riforma della Chiesa. Una possibilità non pensata da lui dava autorità ai suoi pensieri. Paolo VI diede al Vaticano II una direzione specificamente conciliare quando ne affidò la conduzione ai quattro cardinali «moderatori», di cui uno era Lercaro, che ottenne la nomina di Dossetti a segretario dei «moderatori». Fu suo il tentativo di dare una svolta radicale al Concilio ponendo ai voti la dichiarazione sulla collegialità della Chiesa. Nel senso inteso allora, la collegialità comportava la diminuzione del ruolo del papato come potere nella Chiesa e toccava direttamente la figura del Papa come successore di Pietro. Fu questo il motivo di contrasto diretto tra Paolo VI, che voleva conservare intatto il primato papale, e Dossetti che, usando il sistema della consultazione diretta del Concilio sulla collegialità, creò le basi di un conflitto tra il pontefice e le correnti che avevano assunto il controllo culturale dell’assemblea. Paolo VI rispose alla linea impressa da Dossetti al Concilio con un documento di pura autorità papale, che stabiliva un concetto spirituale e non giuridico di collegialità, mantenendo intatti il senso e l’esercizio del primato petrino. Così, di fatto, Dossetti fu il più vicino a rappresentare l’antitesi tra la corrente culturale prevalente e il papato. Paolo VI giunse, con una Nota praevia alla Lumen gentium, a sfidare il progressismo della cultura dominante. Ma ciò non tolse che il tema della collegialità mantenesse il suo carattere di tensione tra primato petrino ed episcopato per molti anni, oltre il pontificato di papa Montini. Dossetti uscì rafforzato dal suo ruolo nel Vaticano II e apparve come una figura riconosciuta della tensione tra primato papale e «spirito del Concilio». Ma veramente egli aveva nel suo animo una riforma istituzionale e dottrinale della Chiesa come quella che poi avvenne col Concilio? L’intenzione di Dossetti andava al di là dei mutamenti culturali e istituzionali. Il suo pensiero ultimo riguardava la stessa figura del cristiano, che non poteva essere espressa da un’istituzione ma da un livello di vita spirituale, da una differenza radicale di vita nel mondo. Per quanto importante sia stato il ruolo dell’Istituto per le Scienze Religiose nell’azione di Dossetti, esso non fu mai quello veramente principale. Egli viveva la speranza di esprimere la Chiesa spirituale e trovò la propria forma nella figura del monaco. Dossetti ripropose così la contrapposizione antica, nella Chiesa, tra il monaco e il vescovo e, nel suo caso, più specificamente, tra il monaco e il Papa. Paolo VI aveva capito che vi era un’intenzione antipapale nella posizione di Dossetti, che seguiva una imprecisata via di Chiesa marginale e potente nella sua marginalità, una Chiesa guidata dai monaci e presente nella politica nei momenti di crisi. Lercaro trovò in Dossetti colui che gli dava l’indicazione per comprendere il Concilio come rinnovamento della Chiesa. E Dossetti offrì a Lercaro l’autorevolezza di un linguaggio. Ciò condusse Lercaro alla nomina a presidente della Commissione per la riforma liturgica. La forza di questo rapporto indusse il cardinale a nominare Dossetti vicario generale a Bologna e infine a presentarlo al Papa come suo vescovo ausiliare. Paolo VI rifiutò, dopo l’esperienza che aveva avuto di Dossetti come segretario dei «moderatori». Fu la definitiva rottura di Dossetti con il papato.
Il rapporto di Dossetti con il post-Concilio fu mitizzato dai suoi sostenitori politici. Dossetti non era un teologo né un esegeta, non apparteneva quindi, per storia e cultura, ai fronti caldi del post-Concilio. Né volle creare un’attività specifica a questo riguardo, non era sensibile né a Bultmann né a Barth e certamente si trovava agli antipodi del trascendentale di Karl Rahner, della «svolta antropologica». Quindi non simpatizzava nemmeno con la teologia politica di Johann Baptist Metz e con la teologia della liberazione latino-americana di Gustavo Gutierrez, di Jon Sobrino e dei fratelli Boff. E quindi con la «opzione per i poveri», la formula con cui la Chiesa italiana recepì la teologia della liberazione. Non si interessò del ’68 e del dissenso cattolico, non fece parte di quella che potremmo chiamare una «sinistra teologica ed ecclesiastica». Ma certamente non era nemmeno favorevole alla svolta promossa da Hans Urs von Balthasar e da Joseph Ratzinger. L’evento conciliare venne staccato dal post-Concilio e divenne un’icona in sé stesso, di cui l’Istituto per le Scienze Religiose, divenuto Fondazione Giovanni XXIII, si pose come custode, raccogliendo i documenti privati dei padri conciliaci e infine compiendo una poderosa storia del Concilio, in cui rimaneva evidente che l’impulso spirituale impressogli da Giovanni XXIII era stato contrastato e deviato da Paolo VI. Il messaggio centrale era che la Chiesa era altro dalla storia e passava tra le vicende del tempo segnata non da una struttura dogmatica, ma da una spiritualità non mondana: la Chiesa esiste nel tempo come marginalità significante, attenta alla storia e alla società e capace di intervenire in essa, ma rimanendo sempre in uno stato di alterità. La Chiesa era pensata come «povera» e «marginale»: ciò le conferiva il potere di interpretazione degli eventi perché ulteriore e superiore a essi. Questa posizione si espresse nel caso personale di Dossetti, nella sua scelta spirituale. Egli rimase un punto fondamentale della politica italiana, ma ciò avvenne dall’eremo di Monteveglio e soprattutto da quello di Montesole, posto come memoria dei morti di Marzabotto uccisi dalla rappresaglia nazista, a ricordare un evento sacro della storia italiana da cui il monachesimo di Dossetti traeva il suo significato politico e spirituale a un tempo.