Gli inganni dei referendum sulla legge 40
ROMA, domenica, 8 maggio 2005 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo per la rubrica di Bioetica l’intervento della dottoressa Claudia Navarini, docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. Perché non recarsi alle urne il 12 e 13 maggio non significa mancare di senso civico? Le ragioni sono molte, e ben chiarite dalle tante affermazioni pronunciate in questi giorni dai rappresentanti del fronte trasversale del “doppio no”, cioè dell’astensione.
Cerchiamo di raccoglierle. Intanto non andare a votare ad un referendum è un diritto, insieme a quello di votare. Non si tratta infatti di elezioni politiche o amministrative, in cui lo stato chiama i cittadini ad eleggere i loro rappresentanti nelle sedi appropriate, e in cui astenersi equivale a rifiutare la propria collaborazione all’organizzazione dello stato stesso.
Qui è un gruppo di cittadini che chiamano gli altri ad intervenire per modificare, secondo una procedura straordinaria (la consultazione referendaria, appunto), una legge esistente. È lecito obiettare a questa chiamata, esprimere il proprio dissenso non solo rispetto ai contenuti del referendum (il “no”) ma anche rispetto al referendum stesso, che non si voleva. Ecco quindi l’astensione, consapevole e militante.
Inoltre, non andare a votare esprime un’obiezione sulle modalità con cui è stata eseguita la raccolta delle firme necessarie all’ammissione dei quesiti referendari. Spesso tale raccolta è stata fatta in modo ingannevole, arruolando persone ignare della reale posta in gioco o addirittura dicendo il falso, e proponendo slogan che venivano (che vengono) applicati “con superficialità o con malizia all’ambito della procreazione artificiale umana: ‘Perché non avere un figlio sano?’, ‘Milioni di malati guariranno con le staminali’, ‘Bisogna dare a tutti la possibilità di avere un figlio’, e così via (C. Navarini, Procreazione assistita?Le sfide culturali: selezione umana o difesa della vita, Portalupi Editore, Casale Monferrato 2005, pp. 30-32).
I quesiti referendari sono poi incomprensibili. L’unica parte dei quesiti che si può capire ad una semplice lettura è il titolo. E i titoli, in questo caso, sono quanto di più falso si possa immaginare.
Il primo quesito, ad esempio, porta questa intestazione: “ Per consentire nuove cure per l’Alzheimer, il Parkinson, le sclerosi, il diabete, le cardiopatie, i tumori”. Chi, di fronte ad una simile promessa, si ritrarrebbe? Eppure, l’inganno c’è, ed è di dimensioni colossali. Perché la “promessa” referendaria riguarda presunte terapie ottenibili mediante la distruzione di embrioni umani, per ricavarne cellule staminali.
La grande bugia scientifica è che le cellule staminali embrionali non sono una via promettente per trovare le cure indicate dal referendum: non esiste un solo studio attendibile sull’uomo che riporti risultati positivi per questa via, mentre esistono studi sull’animale che dicono il contrario, cioè che le cellule staminali embrionali sono poco governabili e altamente tumorigene. Al contrario, la letteratura è ricca di successi ottenuti con le cellule staminali “adulte”, reperibili nel sangue del cordone ombelicale fetale, nel midollo osseo, nel fegato, nel pancreas, nel cervello, nelle cornee, nei denti, nelle orecchie, nel tessuto adiposo…
Le cellule staminali adulte sono il futuro della ricerca, e sono moralmente lecite perché non richiedono la soppressione di embrioni. Infatti, anche se in un ipotetico futuro le cellule staminali embrionali si rivelassero “utili”, rimarrebbe il grave problema etico: non possiamo uccidere esseri umani – gli embrioni – per salvarne (forse) altri. La ricerca sull’embrione è già consentita dalla legge 40 (art. 13, c. 2), purché non danneggi l’embrione stesso, come richiede ogni sperimentazione su soggetti umani. Ogni vita umana, infatti, ha lo stesso valore e la stessa dignità, qualunque siano le sue condizioni: età, salute, razza, colore, intelligenza, forza, bellezza. Non possiamo dunque sostenere che la vita dell’embrione umano, solo perché più debole, vale di meno e può essere “sacrificata” per la ricerca. Come suonerebbe il referendum se la sua intestazione fosse: “Per la distruzione di esseri umani allo stadio embrionale a fini di studio”? O dovremmo piuttosto dire “a fini di lucro”?
Il secondo quesito si dichiara “ Per la tutela della salute delle donne”. I referendari chiedono di revocare il limite massimo di tre embrioni da produrre e trasferire in utero, previsto dalla legge 40, sostenendo che in tal modo le donne avrebbero maggiori possibilità di ottenere il figlio desiderato, senza sottoporsi a nuovi e continui cicli di fecondazione. Anche qui, non si ammette un dato di fatto, e cioè che le donne sono meglio tutelate dalla legge 40 di quanto non fossero in passato, o di quanto non sarebbero se il referendum passasse.
Dovendo produrre al massimo tre ovuli, infatti, si riduce proporzionalmente la necessità di ricorrere a pesanti stimolazioni ovariche per indurre farmacologicamente l’ovulazione, con i rischi gravi – a volte letali – per la donna che tale stimolazione comporta, spesso imprudentemente sottovalutati. Inoltre, ad una massiccia produzione di ovuli si accompagna generalmente una scarsa qualità degli ovuli stessi, buona parte dei quali vanno scartati o espongono ad un maggior pericolo di patologie il concepito. Trasferire tre embrioni, poi, offre la maggior percentuale di garanzie di “bambini in braccio”. Oltre, le statistiche dicono che non aumenta più il numero delle nascite, ma solo quello delle morti embrionali o fetali, e le complicazioni della gravidanza.
Anche in questo caso, dunque, le regole poste dalla legge 40 contribuiscono a rendere un po’ più simile alla generazione naturale, e quindi un po’ meno traumatica, la fecondazione artificiale per le donne, prima usate quasi come le cavie animali su cui si sono esplorate, per molti anni, le potenzialità della fecondazione in vitro, ottimizzando e potenziando la riproduzione a scopo di mercato.
Questo quesito contiene un altro punto decisivo, ovvero l’abolizione del divieto di eseguire la diagnosi preimplantatoria. All’inizio sembrava ovvio: la fecondazione artificiale è per chi è colpito dalla sofferenza della sterilità. Ma ora il quadro sta cambiando, o forse è già cambiato: si vuole utilizzare le pratiche per scegliere le caratteristiche del figlio, per ora in negativo (non avere alcune malattie), un giorno non lontano forse in positivo (avere le caratteristiche desiderate). Stiamo passando dunque dal desiderio del figlio al figlio del desiderio, dalla logica del dono alla logica della selezione umana. Infatti, specularmene alla volontà di scegliere i figli sani, c’è la volontà di eliminare i figli malati
Al di là del fatto che la diagnosi preimpianto non offre garanzie di salute dell’embrione, che presenta un consistente numero di falsi negativi, che causa comunque (qualunque sia lo stato di salute) la morte di molti concepiti per il suo grado di invasività, c’è un’evidenza inquietante: tale diagnosi rappresenta il punto più basso di una mentalità eugenetica ancora drammaticamente viva.
Il terzo quesito è identico al primo, con in più la cancellazione dei diritti del concepito sanciti dall’articolo 1, scomodo perché rende ragione di tutte le misure a difesa del concepito disseminate nella legge 40.
Il quarto quesito intende cancellare il divieto di ricorrere alla fecondazione eterologa. Tale tecnica è una di quelle più invocate da chi sostiene di essere “personalmente contrario”, ma comunque favorevole a consentire la pratica “per gli altri”. La fecondazione eterologa in effetti è raramente necessaria, e molti di coloro per i quali sarebbe “necessaria” non la vogliono, ritenendola una forma di accanimento, una strada troppo gravosa per avere comunque un figlio non biologico, almeno per uno dei due richiedenti. Molti preferiscono, a questa stregua, la più nobile via dell’adozione, che risponde al bisogno di una famiglia da parte di bambini che già ci sono, e che sono purtroppo numerosi.
La fecondazione eterologa, in altre parole, aggrava i problemi già insiti nelle tecniche di fecondazione artificiale, con pesanti ripercussioni sull’equilibrio sociale (come conciliare il diritto alla propria identità genetica del figlio con il diritto alla privacy del “donatore”?) e sulla famiglia, come dimostra il divieto di disconoscimento di paternità associato ovunque alla fecondazione eterologa. In troppe circostanze, in effetti, si sente di casi giudiziari in cui padri “unicamente sociali” hanno ad un certo punto percepito un’estraneità rispetto al figlio.
Non andare a votare ai referendum, quindi, esprime con chiarezza che il dibattito sulla questione dell’embrione, sul valore della vita umana e della famiglia non si può decidere a colpi di maggioranza, perché, come dice lo slogan del Comitato “Scienza & Vita”, “la vita non può essere messa ai voti” (www.comitatoscienzaevita.it).
E infine, non andare a votare è il mezzo più efficace affinché la legge 40 non cambi. Anche votare “no”, infatti, costituirebbe in realtà un favore ai referendari. Un favore economico, visto che i promotori del referendum (qualunque sia il suo esito) ricevono un bonus in denaro al raggiungimento del quorum. E un favore elettorale, dato che aumenterebbe il numero dei votanti, magari quel tanto che basta ad avere il 50% più uno degli elettori, senza tuttavia superare numericamente il numero dei “sì”.
La lotta fra il “sì” e il “no”, infatti, è impari. Le forze a disposizione di chi non vuole cambiare la legge 40 sono esigue, a confronto di chi, invece, la vorrebbe stravolgere completamente con i referendum. Questo perché la sproporzione fra i mezzi di informazione controllati dai due schieramenti è abissale. La sfida è epocale, e l’appello urgente: non andiamo a votare, perché la legge 40 è preziosa per continuare a riflettere su temi da cui dipende il futuro e la salute dell’umanità.
[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org . La dottoressa Navarini risponderà personalmente in forma pubblica e privata ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]
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