Ven. Prof. G. Toniolo: Ricordando Frederic Le Play

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Ven. Prof. Giuseppe Toniolo

Federico Le Play

Cenni commemorativi

da: Studium, Firenze, 1909, a. IV, pp. 633-685

 

Fra lo spadroneggiare di un laicismo settario e intollerante, come quello di Francia oggidì, non è meraviglia che l'inaugurazione a Parigi nel giardino del Lussemburgo l'Il giugno 1906 di un monumento a Federico Le Play, sociologo cristiano, per il centenario della sua nascita, passasse in generale poco avvertito. Non così però per gli uomini seri e studiosi (tanto è vero che il cammino silente della scienza è spesso inverso a quello rumoroso dei più), i quali anzi vi tributarono opuscoli, discorsi, articoli di riviste, illustrando vari aspetti della vita e degli scritti del valentuomo francese. Ed è confortante indizio di senno che fra noi giovani studiosi desiderino una parola sopra il grande sociologo che ormai appartiene ad un ciclo storico passato, in un periodico che pur sempre intende riflettere le aspirazioni della gioventù presente.

Invero, ciò che oggi sospinge a rimirare con sguardo retrospettivo quest'uomo il quale, ingegnere metallurgico fattosi sociologo, coi suoi viaggi in più continenti, colle sue inchieste monografiche, coi sodalizi scientifici e di propaganda da lui fondati, soprattutto coi suoi scritti, fra le correnti più opposte di scuole, attraeva l'attenzione del pubblico sopra le sue idee e gli onori dei governi sopra i suoi meriti, non è soltanto il valore intrinseco delle sue dottrine, ma il risalto che ora vi aggiunge la via percorsa dal pensiero pubblico nell'ultimo quarto di secolo dopo la morte di lui in ordine alle questioni sociali, cammino ideologico che meglio abilita ad estimare dal termine della traiettoria l'inizio di essa. Sotto questo punto di vista forse v'ha taluna osservazione da aggiungere a quanto fu scritto su questo tema e qualche preziosa istruzione da ritrarne di sommo interesse attuale; ambedue sgorganti da questo concetto (non abbastanza finora chiarito) che egli fu tra i primissimi a dettare e propugnare un sistema di riforme sociali cristiane nel secolo XIX. E allora potrà apparire per qual ragione l'opera dello statistico di Calvados (Normandia), elevato ai più grandi uffici ed onorificenze da Napoleone III nei massimi suoi splendori, trovi tuttora, mercé le società da lui fondate, continuatori in tutta Europa.

Fu un riformatore (e di quelli veri e fecondi, perché inteso a ricondurre la società aberrata e guasta ai suoi principi) di proposito esplicito e maturo, ché a formarsi tale egli mirava coi suoi viaggi (dal 1831), colla conoscenza tecnico­economica dei vari ambienti che egli frequentò (circoli industriali, minerari, forestali, agricoli); e a formulare e illustrare i capisaldi di un sistema di riforme egli dedicò un libro La reforme sociale en France in cui condensò tutte le induzioni dei suoi studi analitici e depose le risultanze delle sue convinzioni, educatesi fra i calcoli delle sue statistiche comparate e fra gli attriti di una esistenza laboriosa. Il libro infatti (egli stesso lo dichiara nella prima prefazione), concepito nel 1848, assunse forme di uno schizzo o abbozzo nel 1855, e comparve la prima volta nel 1864. Spuntò dunque – per segnare due pietre miliari estreme ed opposte ­ prima del libro del riformatore socialista Federico Engels, Le condizioni delle classi lavoratrici in Inghilterra (1849) che compose il substrato del collettivismo e insieme del materialismo storico di Carlo Marx; e si compié un anno dopo il libro La questione sociale e il cristianesimo di G. Ketteler (1863), che è reputato il saggio tipico delle riforme sociali cristiane. Questo è il posto di Le Play fra i riformatori della seconda metà del sec. XIX e con essi egli ha un tratto estrinseco comune, quello di riformatore positivo (non positivistico). A distinzione pertanto del ciclo storico già superato dai sociologi riformatori di carattere idealistico, filosofi e utopisti, egli asside il suo programma sul piedistallo dei fatti. Come Engels (e poi Marx) sulle condizioni di fatto del proletariato inglese e sulle cause che lo generarono, e come il vescovo di Magonza sopra l'osservazione del problema operaio e pratico (ormai gigante in quegli anni in cui Lassalle faceva la sua propaganda in tutta Germania), posto a riscontro della storia sociale del cristianesimo, così Le Play poggiava il suo edificio sulle sue celebri inchieste statistiche con quel metodo monografico descrittivo, che come è noto venne a completare quello matematico dei grandi numeri posto in onore da A. Quetelet, e che rimase ad integrare il compito della statistica.

Carattere positivo pertanto di sua riforma sociale, consono appieno all'indirizzo metodico degli ultimi decenni e che accresce in lui, come negli altri, valore al suo programma; ma carattere antico (sia detto di passaggio) e tutto proprio di scrittori cristiani di cose sociali, ché il cristianesimo, come la religione rivelata da cui derivava, è alcunché di reale, storico, vivente, sicché se esso suppone le grandi idee del sovrannaturale intorno alle quali si aggira, pure queste seguono l'umanità peregrinante e combattente, abituando frattanto le menti a ritrarre il vero dal fatto. Così del nostro autore fu ben scritto che era «un saggio nel senso definito dalla bibbia che fa tesoro dell'esperienza dei secoli».

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Assegnato il posto che spetta al Le Play nella letteratura sociale moderna e i caratteri di questa cui egli partecipò, torna più agevole rivelare ciò che egli, in questo suo stesso ufficio di riformatore, apportò di originale, come prodotto della sua individualità e della sua educazione; l'unica difficoltà sicché rimane quella di additare i culmini massimi della sua riforma sociale, da cui tutto il sistema rimane informato, come le vette eccelse di una catena montana, che ne annunziano da lungi e scolpiscono la struttura geologica.

Ci proveremo a ridurli in poche proposizioni e a rilevare se ed in quanto essi rispondano alle esigenze più certe e legittime dell'ora presente, in cui è tanto più grave e diffusa quella crisi sociale, da cui egli aveva preso le mosse per le sue riforme. Sarà questo l'experimentum crucis della bontà intrinseca e duratura di esse.

Quale fu il solenne ammaestramento che F. Le Play ha ritratto per via di lunga e paziente induzione dai suoi viaggi di inchiesta intorno alle famiglie rurali e operaie della sua Francia, dalla Guascogna al passo di Calais, e di tutta Europa, dalla vecchia Castiglia alle pianure della Santa Russia, e dell'America del Nord e del Sud fino alle steppe di Astrachan, a contatto di popoli o erranti o sedentari dell' Asia? Ovvero dallo studio della vita sotterranea delle miniere dell'Harz fino alla Boemia, o delle piccole officine resistenti in ogni paese ai grandi stabilimenti ormai trionfanti ai tempi suoi; studi economici integrati da quelli sociali di consuetudini pubbliche («coutumes») e private «moeurs») per entro ogni popolo, ed avvalorati da quelli politici sugli ordinamenti di governo locale e centrale di tante razze e di popoli antichi e giovani, specialmente degli anglosassoni?
Il responso fu che «la prosperità delle nazioni è in proporzione della osservanza della legge del decalogo», sicché il benessere stesso economico è il risultato definitivo di questa principalissima (non unica di certo) causa religiosa, personificata dal cristianesimo.

Così egli tosto pronuncia ogni riforma sociale non ricerca dottrine nuove, ma riposa sopra talune verità certe, assolute, antiche, di valore dogmatico, razionale, non meno che storico. E soggiunge: le nazioni non sono fatalmente votate né al progresso né al regresso; bensì il destino loro è legato ad un miglior uso del libero arbitrio nell'accogliere i veri della religione e quelli della morale con essa congiunti. In oriente come in occidente vi furono razze custodi delle tradizioni religiose e morali, e altre fedifraghe; e le loro sorti prospere o sinistre nella storia non sono che la conseguenza o meglio la sanzione della osservanza e del rifiuto di quelle tradizioni insieme cristiane e nazionali. Anche in Francia il dispregio delle tradizioni nazionali cristiane, cominciato col rinascimento neoclassico, si svolse sotto Luigi XIV e si compié sotto la rivoluzione dell'89. Ogni riforma deve riannodarsi a quelle prime tradizioni, che sono la radice non mai del tutto spenta della civiltà e da esse ripigliare le mosse per il progresso avvenire, che si immedesima col cristianesimo.

Dal dì in cui Le Play così scriveva, si moltiplicarono e si approfondirono ben altrimenti le indagini di filologi, storici, statistici, sociologi sull'oriente e sull'occidente, a conferma della funzione civilizzatrice delle religioni e del posto eminente che in esse, senza paragone alcuno, tiene il cristianesimo per il suo stesso valore sociale; intorno allo svolgimento di tale rivendicazione storica si scrissero volumi, e la sociologia poté, con argomenti rigorosi e positivi, ripetere la conclusione che il cristianesimo è tutta la civiltà, del passato e dell'avvenire, e che ivi sta il fulcro di ogni ascensione sociale; sicché oggi ancora a tale criterio di estimazione si misura il degradare di taluni Stati, specie delle razze latine, e il crescere di altri, specie di germani-anglosassoni. Ma giusta dispensiera di gloria, la critica scientifica riconosce che questo supremo vero positivo, come caposaldo delle riforme sociali, risale nei rispetti della statistica comparata a Federico Le Play; come in quella della storia della civiltà cristiana al suo contemporaneo F. Ozanam della Sorbona, integrato oggi da G. Kurth dell'Università di Liegi. Grande monito a coloro i quali, di contro alla funesta e antistorica propaganda di civiltà laica, tendono a menomare la fede nella virtù civilizzatrice del cristianesimo e della Chiesa.

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Con questa scorta egli stesso perviene ad additare nella famiglia l'elemento primo della società; e nei suoi viaggi e colle sue monografie sulla costituzione familiare di tutti i popoli, analizzata sottilmente come la cellula sotto il microscopio del filosofo, valse a fermare come canone fondamentale di riforma sociale la necessità di ridarvi stabilità e continuità e soprattutto una alta funzione educatrice sociale, mercé la elevazione dell'autorità paterna e della dignità materna.

Per quest'ultimo riguardo egli sostiene che la resistenza delle razze si trova in diretta connessione colla autorità del padre, come ogni decadenza della autorità pubblica degli Stati, per contrario, segue il declino dell'autorità paterna. Questa può supplire in qualche misura alla deficienza o debolezza dello Stato, ciò che si riscontra nella famiglia retta da un patriarca, padre, sacerdote o re, cioè nella famiglia patriarcale, stabile per eccellenza, come oggi per la storia del diritto, Tonnies con Laboulaye, Fustel de Coulanges, Jonnies, Schmoller hanno dimostrato; ma nessuna autorità pubblica mantiene prestigio ed efficacia sulle nazioni ove quella privata sia stata scossa o disciolta da un individualismo familiare che il padre allivella ai propri figli; donde la famiglia egualitaria instabile per eccellenza dell'età nostra. Religione, costumi, leggi suggeriscono pertanto di provvedere a questa riforma, che è una ricostituzione dell'elemento primo d'ogni società.

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Ciò che Le Play del resto scrive intorno al rispetto della donna e in ispecie alla dignità della madre nella famiglia (pur chiamando una aberrazione l'eguaglianza dei due sessi) è quanto di meglio si poté scrivere fino ad oggi intorno alla vessata questione del femminismo. Egli fu il primo, colle sue osservazioni comparate, a pronunciare come sentenza positiva che se l'uomo fa le leggi nelle assemblee e dai troni, la donna fa il costume nella famiglia e nella società, e che per questa via essa è autrice indispensabile di prosperità sociale. Sicché egli colle sue proposte precorse quella soluzione del femminismo a cui in questi ultimi dì si accostano i più assennati riformatori, invocando non già un pareggiamento dei sessi in tutto il campo della vita sociale e politica, bensì più ampie ed efficaci facoltà e sussidi di legge alla donna per poter meglio esercitare quelle funzioni speciali che la natura a lei, a differenza degli uomini, commise, funzioni di moglie, di madre, di gestione domestica, di educazione dei figli, di ministra e dispensatrice di ideali del vero, di virtù confortatrici e di carità sociale. Che se pure la donna reclama altre facoltà e diritti da esercitarsi insieme all'uomo, essa lo richiede solo in quelle forme, modi e limiti, che divengano una preparazione, un mezzo ed un complemento alle speciali funzioni del suo sesso. Tale è il concetto ispiratore del movimento rappresentato in questi ultimi tempi dal giornale di Berlino Mutterschutz la protezione della madre in Germania; per la quale la donna non chiede tanto alle leggi di fare quello che fa l'uomo, bensì quello che meglio stabilisce le differenze fra l'uomo e se stessa. Tale è il carattere che mercé Ellen Key, Amore e matrimonio va assumendo il femminismo nell'America stessa (la terra della donna mascolinizzata) appoggiato da Roosevelt. Tale la bandiera che si solleva oggi in Francia col motto «la femme au foyer», nel libro Salaire de femmes nel quale, continuando le tradizioni cristiane del Le Play, si rammenta come questi fu il primo a proclamare (quando l'impiego muliebre nelle grandi fabbriche era ancora indisputato), che il ricondurre le donne al lavoro domestico sarebbe una riforma non solo morale ma anco di utilità economica; riforma che già trovasi attuata da F. Brandts, il presidente del «Volksverein», il quale da dieci anni alle operaie divenute spose e madri attribuisce lavoro non più in fabbrica ma sotto il tetto domestico. Ecco il germe di una riforma che sarà fra le più grandiose e salutari di un prossimo avvenire.

Che se questi provvedimenti etico-civili (riprende Le Play) ridoneranno virtù sociale alla famiglia, la stabilità e la continuità di essa resulterà in buona parte dal regime patrimoniale; donde il nesso fra famiglia e proprietà.

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È del pari dagli esempi di tutti i popoli che, secondo al nostro autore, la proprietà apparisce fornita di una funzione ed importanza non solo individuale, ma ancora sociale. Una proprietà individualizzata, come ai dì nostri, non è che forma unilatere e morbosa di un periodo passeggero in contraddizione con tutte le tradizioni dell'umanità e colle stesse tendenze odierne delle «nazioni modello» fra cui l'Inghilterra, in cui (in onta a tante violente trasformazioni del tempo della riforma) la proprietà serba ancora traccia nelle leggi e nei costumi di un contemperamento fra interessi individuali e sociali, con temperamento ereditato dai tempi cristiani.

Traendone un canone di riforma per i popoli del continente, Le Play conchiude che il regime della proprietà, pur sempre individuale nella sua essenza e finalità, deve però essere atteggiato ancora a beneficio dell'organismo sociale.

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E in prima a pro di quell'organo elementare della società che è la famiglia, la cui stabilità e continuità (ecco la condizione per lui della ricostituzione familiare) dipende dal suo legame col patrimonio, sicché la famiglia, società etico-fisiologica, rinvenga il suo suggello nel suolo, mercé la pietra sacra del focolare domestico (la casa e i beni patrimoniali), che agli occhi degli antichi serbava quasi il carattere religioso di un altare. Di qui quel nerbo della riforma pel sociologo francese, che riguarda il diritto successorio, il quale, a seconda che è diversamente regolato dalle leggi e dalle consuetudini, si dimostra storicamente di importanza decisiva per la famiglia e quindi per la salvezza dell'economia nazionale. Per lui al sistema della conservazione forzata del patrimonio del padre, obbligato dalle leggi a trasmetterlo indiviso ad una serie di successori preferiti, e a quello di una divisione forzata del patrimonio fra i figli (nella misura prestabilita dai codici colla legittima) indipendentemente dal volere del padre, ad ambedue questi sistemi, ripetesi, per il Le Play deve preferirsi il regime della libertà testamentaria del padre di famiglia, piena facoltà di disporre del suo patrimonio fondiario a favore di quello fra i suoi figli che crede più adatto a mantenere e tramandare le virtù, le tradizioni, il benessere della famiglia originaria, ossia del ceppo domestico primitivo («Stamm» dei tedeschi), libertà testamentaria completata, bene inteso, da leggi successori e ab intestato, subordinate però alla loro volta, come in Inghilterra, alle consuetudini giuridiche locali. Di qui l'istituto e il nome, divenuto celebre di «famille souche» (stipite), in cui il regime successori o – in contrasto con quello de «la conservation forcée» (dei beni) che irrigidisce nel privilegio la famiglia, o di quello degli odierni codici «du partage forcé», che mobilizza e disperde gli elementi familiari – è destinato ad assicurare alla famiglia stessa stabilità e continuità sul duplice piedistallo della fecondità delle nozze e della unità del patrimonio o del focolare «menage», «foyer») domestico. I popoli occidentali (dice Le Play) devono a questo istituto, preponderante per secoli nelle nazioni europee, la durata e insieme la libera espansione delle famiglie, ciò che assicurò il primato nella civiltà.

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La instabilità, precarietà, accidentalità della famiglia moderna, colla conseguenza inevitabile della sterilità, rimase per l'opposta cagione la piaga che corrode alla radice le odierne popolazioni. La ricomposizione della «famille souche», è perciò la spina dorsale, per il Le Play, delle riforme sociali; la quale, di mezzo all'avanzarsi delle grandi imprese che egli, esperto tecnico ed economista, per nulla disconosce e contrasta, rinverrebbe le prossime e più benefiche applicazioni nella ricostituzione e saldezza della piccola proprietà terriera da un canto e della piccola industria artigiana dall'altro, oggi seriamente compromesse.

Fu codesta (non ci peritiamo di proclamarla) la più ardita e insieme la più legittima fra le proposte di riforme normali della proprietà che sia stata lanciata in mezzo alle istituzioni, abitudini e pregiudizi delle genti contemporanee, le quali non poterono sottrarsi dal porla al cimento di discussioni, indagini ed esperienze, non più cessate dappoi. Ed invero nell'intervallo questi studi e sperimenti attestarono incontestabilmente la connessione fatale fra l'odierno regime successorio e la sterilità delle famiglie specialmente in Francia, e la decadenza del piccolo podere nella «pulverisation du sol» e della piccola industria nel proletariato.

E la riforma del Le Play si annunzia oggi più urgente; anzi essa si trova attuata come provvedimento eccezionale (di fronte al regime normale successorio) in Germania col sistema dell'«Anerberecht», agli Stati Uniti coll'«Homestead», e in più luoghi colla comunione dei beni familiari. Ed essa rimane come uno degli articoli del programma dei riformatori cattolici quasi dovunque; anzi rimase, per merito di lui, qualche cosa di più: la affermazione e dimostrazione positiva della importanza dei beni e delle connesse industrie territoriali in genere per la economia nazionale; cosicché il Le Play stesso propugnò (ciò che poi ottenne pubblico consenso) che i boschi e le miniere e le rispondenti industrie forestali e minerarie, finché non si ricompongono enti collettivi autonomi, rimangano o trapassino in mano dei comuni, delle province e dello Stato, in forma di sociale manomorta, che tornerebbe viceversa molto viva per la custodia di preziosi interessi generali e permanenti.

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Accanto agli istituti della famiglia e della proprietà nei modi accennati per la loro ricostituzione, campeggia in Le Play, come terzo caposaldo di ristorazione sociale, il patronato delle classi superiori sulle inferiori, il quale, nel concetto del sociologo cristiano, dispiegò sempre una funzione di tutela ed educazione sui popoli. Istituto necessario in tutti i tempi, perocchè (egli dice) le ineguaglianze sociali spuntano del pari dai privilegi come dalla libertà; né mai possono annullarsi i doveri e le responsabilità (idea tutta cristiana) dei ceti superiori rispetto agli inferiori e le relazioni reciproche d'interesse materiale e morale.

Del resto il Le Play accenna fra le provvidenze riformatrici alla associazione, complemento e correttivo della individualità, presidio dei deboli, base della organizzazione del lavoro; e ricorda come il pauperismo debba essere il massimo oggetto della terapeutica popolare, da dispiegarsi dalle autorità sociali (nozione caratteristica del nostro autore) sopra le classi laboriose e diseredate e da integrarsi dalla autorità dello Stato; meglio però che dal governo politico centrale, dalla amministrazione autonoma delle località, giusta l'ideale offerto dal «self-governement» inglese, di cui Le Play è ammiratore di contro alla burocrazia accentratrice e corruttrice perché irresponsabile (sic) del continente di che è fiero avversario.

È questa la parte meno originale e concreta della riforma sociale del Le Play, che risente delle deficienze della scuola liberale dominante nel fior della sua esistenza e trionfante col secondo impero e che rispecchia lo stato in quei tempi della crisi sociale la quale era ancora divenire e che presentò definiti atteggiamenti ed esigenze nei paesi europei soltanto negli ultimi tre decenni, dopo la morte dello statistico francese.

Il problema del proletariato e la massima riforma dell'oggi, quella di ricostituirlo in classe autonoma, non si imponeva allora così imperioso, colla sua trilogia del contratto collettivo di lavoro, delle unioni professionali corporative, della legislazione sociale operaia. Ma è merito di Le Play di avere adombrato questo programma riformatore che oggi si riproduce in ogni riforma e partito e che cristianamente entrò nel disegno di ristorazione della società moderna (…) per sapiente autorità di papa Leone XIII. Il sociologo francese (che apparteneva alla scuola che fu detta di Angers) tuttavia annovera fra le pratiche risanatrici dei conflitti di classe: la permanenza degli impegni reciproci fra padroni e lavoratori; l'accordo completo delle due parti nella fissazione del salario; l'alleanza fra le grandi industrie e le piccole, specialmente domestiche; il risparmio (più necessario del credito) per ridare il capitale alle famiglie del coltivatore e dell'artigiano; le associazioni o consorzi fra le famiglie e i loro patrimoni; la difesa della donna dai pericoli della seduzione. Non vi hanno qui i germi della ricostituzione cristiana del proletariato in classe?

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Così le riforme proposte dal Le Play porgevano la mano a quelle dei nostri giorni. Ne ciò a caso; bensì per virtù dei principi e dei metodi che furono la guida della sua lunga e feconda esistenza di scienziato e di riformatore. Vi ha nelle sue opere una proposizione la cui idea sostanziale si riflette, come i colori dell'iride, nelle pagine più svariate dei suoi scritti. «La via falsa, egli dice, che ci conduce all'abisso, è il disprezzo del passato; ad essere uomini del proprio tempo bisogna riconsacrare il culto delle tradizioni». Era questa una forma più corretta ed esplicita della proposizione di F. Hegel: il presente, figlio del passato, è gravido dell'avvenire; ché questo accenna a fatale evoluzione, quello a libero e forte volere di popoli che dalle esperienze assorgono a successivi rinnovamenti sociali. Su questa via della osservazione comparata statistica che discopre le sorvivenze storiche delle età trascorse egli incontrò la corrente secolare ed indefettibile del cristianesimo, colle sue dottrine ed istituzioni sociali, le quali rispecchiano e compendiano quelle religiose e civili dell'umanità.

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Egli dietro questa luce discriminatrice, che disvela e giudica ad un tempo, poté colla prova dei fatti, ben prima dell'opera di Taine, denunciare i falsi dogmi della rivoluzione francese di cui la crisi sociale odierna è figlia immediata, dogmi che egli non si perita di compendiare nella triplice negazione: di Dio e della morale nella civiltà, della socialità delle famiglie nella proprietà, della gerarchia nelle classi, in nome del naturalismo, dell'individualismo, della eguaglianza. Da quella luce stessa egli trasse calore e ardimento per indire la controrivoluzione di fronte a tali errori antistorici e antisociali, in nome delle verità cristiane, eminentemente sperimentali e feconde di civiltà, e per intimare una santa intransigenza contro di quelli e una fede inconcussa in favore di queste da parte di coloro che onestamente caldeggiano le sociali riforme. «Io non conosco (scriveva) nulla di più doloroso di certa gente che propaga idee false sotto pretesto che la nazione non potrà mai rinunciarvi. Se non vi rinunzierà essa perirà; ma ciò non sarà mai un motivo per accelerarne la decadenza accettando l'errore. Non vi ha altra norma riformatrice che quella di ricercare la verità e di confessarla ad ogni costo».

Valga questo come supremo monito alla gioventù la quale, nell'atto stesso che intuisce la vastità del programma di riforma sociale cristiana, trovasi insidiata dal duplice pericolo delle indebite concessioni a sospetti principi della civiltà moderna e della sfiducia verso la virtù sociale redentrice del cristianesimo e della Chiesa.