A qualcuno non piace lo sviluppo
Riccardo Cascioli
SVIPOP 1 aprile 2006
Una strana moda da qualche tempo attraversa i media cattolici: la condanna dello sviluppo. Non di un certo tipo di sviluppo, identificabile magari con il liberismo più estremo; no, è proprio la condanna dello sviluppo in sé. Basta vedere la frequenza con cui compare sulle pagine di tanti media cattolici il pensiero di certi economisti, quali Serge Latouche, Wolfgang Sachs e Susan Gorge, o eco-catastrofisti come Lester Brown e Mathis Wackernagel, il teorico dell’ “impronta ecologica”. Per averne un’idea basterebbe dare un’occhiata al catalogo della EMI, la principale casa editrice missionaria: i titoli che teorizzano la fine dello sviluppo o “la decrescita” economica sono innumerevoli. Allo stesso modo questo è l’unico pensiero che viene proposto dall’associazione ambientalista cristiana, Greenaccord (www.greenaccord.it), che recentemente ha pubblicato un volume su “Economia e ambiente” in cui raccoglie una serie di saggi scritti dagli autori succitati o comunque sulla stessa linea. Il caso Greenaccord è interessante perché questa associazione già da tempo organizza incontri internazionali dedicati ai giornalisti cattolici allo scopo di formarli su temi ambientali, e a questi congressi partecipano anche personalità ecclesiali di rilievo.
Ciò che stupisce non è tanto il pensiero anti-sviluppo: in fondo non è nuovo e non è altro che la solita analisi marxista che però deve fare i conti con il crollo e il fallimento dei regimi comunisti. Si ripropone così la solita equazione “sviluppo uguale neocolonialismo” oppure l’altrettanto nota “sviluppo uguale pochi sempre più ricchi e molti sempre più poveri”. Quindi, come sostiene Latouche in Come sopravvivere allo sviluppo (Bollati Boringhieri, 2005), “lo sviluppo è la fonte del male” e “macchina per affamare i popoli”. La ricetta, secondo Latouche, consiste dunque nell’abolizione “della proprietà privata dei mezzi di produzione e dell’accumulazione illimitata del capitale”. State pensando all’Unione Sovietica e alla Cina? State tranquilli, dice Latouche, quello è un esperimento fallito, fondamentalmente perché l’economia era ancora il centro della riflessione. Latouche chiama ad andare oltre, “bisogna uscire dall’economia”, puntare alla “decrescita conviviale”, perché “la costruzione di una società meno ingiusta si tradurrebbe nel recupero della convivialità e di un consumo più limitato quantitativamente e più esigente qualitativamente”. In estrema sintesi, sostiene Latouche, basterebbe essere tutti più poveri per evitare la miseria di tanti; così saremmo anche più felici, perché i beni che ci fanno felici non sono i prodotti da consumare.
A parte la banale considerazione che se non è la ricchezza a farci felici non si capisce perché dovrebbe esserlo la povertà, appare evidente che per poter sostenere queste tesi è necessario negare buona parte della realtà e inventarsene una di sana pianta: ad esempio, come è possibile far partire la storia dello sviluppo dalla Rivoluzione industriale? Non c’è dubbio che da lì in poi vi sia stata una accelerazione improvvisa, ma i millenni precedenti? Il passaggio dalla preistoria alla storia, dal nomadismo all’agricoltura e su su per i secoli passando dalla tecnologia medievale, le grandi scoperte scientifiche, l’esplorazione dei “nuovi mondi”? Come si può negare che sia inscritto nell’uomo un desiderio di andare oltre, di migliorare la propria situazione, di rispondere a nuovi bisogni?
E ancora, i dati dimostrano che non è lo sviluppo ad affamare: tra il 1900 e il 1998 il Pil (Prodotto interno lordo) globale, cioè la ricchezza disponibile, è aumentata da
Dicevamo prima: queste tesi in fondo non ci stupiscono molto. Ciò che è invece sorprendente è l’entusiasmo che con cui sono accolte e rilanciate in ambienti cattolici di rilievo, perché in fondo il pensiero che ne sta alla radice è profondamente anti-cattolico.
Il tanto vituperato concetto di sviluppo è infatti figlio del cristianesimo che, fondato sulla tradizione ebraica, introduce una concezione completamente nuova della storia, lineare, ovvero con un punto di partenza e un punto di arrivo. La storia si svolge cioè dalla Creazione fino al ritorno di Cristo e l’uomo – immagine e somiglianza di Dio e vertice del Creato – è chiamato a modellare la realtà della “Gerusalemme terrena” per renderla a somiglianza della “Gerusalemme celeste”. L’idea di progresso, di sviluppo, ha qui la sua radice. Non un fatto meramente economico, ma certamente anche economico. Perché il cristianesimo porta una concezione positiva della realtà – che è segno di Dio – e l’economia è parte di questa realtà. Ciò che distingue il bene dal male è dunque l’agire – o meno – in funzione del Regno di Dio. Per questo nei documenti ecclesiali si parla spesso di “sviluppo integrale” – che riguarda tutta la persona e alla cui base c’è la libertà religiosa – e di “sviluppo solidale”, per indicare l’intima unità del genere umano che nasce dalla consapevolezza di avere un unico Padre.
La visione lineare della storia è una specificità del cristianesimo, che non troviamo né nelle religioni orientali (concezione circolare, l’eterno ritorno) né in quelle animiste (dove l’uomo è elemento del cosmo e “schiavo” del passato). Ed è proprio per questo che da secoli l’Occidente – formatosi sul cristianesimo – guida il processo di sviluppo mondiale.
In un Occidente che però ha perso la memoria e la coscienza delle proprie radici, eliminare il concetto di sviluppo equivarrebbe a dare l’ultima spallata alla millenaria civiltà cristiana, cancellarne ogni traccia visibile. Che a questo vogliano contribuire entusiasti anche dei cattolici lascia indubbiamente esterrefatti.