Robert Spaemann, Persone. Sulla differenza tra «qualcosa» e «qualcuno», a cura di L. Allodi; Biblioteca Universale Laterza, 2005, pp. 272, Euro 20,00 ISBN: 88-420-7119-6
Durante il periodo del referendum è deflagrato anche presso il grande pubblico il problema decisivo della definizione della persona. Una schiera di divulgatori tra i referendari ha amplificato le tesi di bioeticisti come Singer, Parfit o Engelhardt, tesi che, in modi diversi, rimontano a Locke e a Hume. Per questi autori empiristi o neoempiristi un soggetto è persona solo quando manifesta il possesso di alcuni requisiti, quali l’autocoscienza o la memoria. Un soggetto che non sta esercitando queste funzioni non può essere considerato persona; pertanto gli embrioni, i ritardati, gli individui in coma o in stato vegetativo, non possono essere ricompresi nel novero delle persone, dunque sono pratiche moralmente lecite non soltanto la soppressione degli embrioni e l’eutanasia, ma, secondo Singer ed Engelhardt, anche l’uccisione dei neonati e dei ritardati mentali (a meno che queste uccisioni non pregiudichino la felicità di soggetti che sono persone, come, ad es., i loro parenti).
La discussione critica di questa concezione è il nodo nevralgico di uno degli ultimi testi di Robert Spaemann, solo da poco tradotto col titolo: Persone. Sulla differenza tra qualcosa e qualcuno.
Spaemann, pensatore cattolico tedesco che ha insegnato nelle università di Heidelberg, Stoccarda e Monaco e che ha attualmente 78 anni, è un filosofo di grande levatura speculativa e i suoi lavori, che sono sempre di notevole interesse, si muovono principalmente lungo la direttrice dell’analisi della modernità e della riproposizione della visione classica teleologica della natura degli enti e dell’uomo.
In Persone egli critica Locke, secondo cui la persona inizia nel punto della vita di un essere umano fino al quale la memoria di un soggetto riesce a ritornare a ritroso: «fin dove questa consapevolezza può essere riportata indietro a una qualsiasi azione o pensiero del passato, fino a quel punto giunge l’identità di quella persona». L’identità di una persona, dunque, coincide la consapevolezza e la memoria della propria identità. Spaemann replica, ripresentando un argomento di Thomas Reid, che quest’idea è assurda. Consideriamo tre stadi A, B, C della vita di un uomo, che nello stadio C si ricorda dello stadio B, ma non dello stadio A, e che nello stadio B si ricordava dello stadio A. Per Locke l’identità di quest’uomo che si trova adesso nello stadio C inizia nello stadio B, ma non si spinge fino allo stadio A, perché la sua memoria non ricorda quest’ultimo stadio. Per contro, dice Spaemann, (p. 136) «Come C, l’uomo si ricorda di B e [per Locke] si identifica con lui. Come B, però, egli si era ricordato di A e si era riconosciuto identico a lui. Ora, come può C essere identico a B se non è identico a colui con il quale B, sulla base del suo ricordo, era identico e cioè A?». Dunque esiste una continuità della persona che non coincide con la consapevolezza e la memoria della propria continuità nel tempo. Pertanto l’estensione temporale della persona non inizia là dove riesce a retrocedere la presa su di sé della sua memoria, bensì coincide con l’inizio della sua vita. Diceva Leibniz: come la proprietà è indipendente dalla consapevolezza attuale del proprietario di possedere una qualche proprietà, di cui potrebbe essersi dimenticato, così la persona è indipendente dalla consapevolezza, da parte di una persona, di essere persona.
Spaemann disinnesca la visione empirista, elaborando altri sei incisivi argomenti, in buona parte originali.
1. Per gli esemplari di una specie di cose è indifferente che esistano altre cose in quella specie: per l’esistenza di una sedia è indifferente che esistano altre sedie. Per i viventi, e in particolare per la persona, invece, ciò non è indifferente, cioè l’esistenza di altre persone è costitutiva per la persona: io non esisterei se non ci fossero state altre persone prima di me con cui io mi trovo in un rapporto di parentela. In altri termini, il fatto biologico della parentela è costitutivo della persona, cioè la relazione di parentela istituisce la personalità della persona, perciò tutti gli appartenenti alla specie biologica homo sapiens sapiens si trovano per ciò stesso già in una situazione interpersonale.
2. Le qualità e le attività che, secondo l’empirismo, solo nel loro emergere attuale determinerebbero la persona, emergono solo quando la madre, o chi per lei, tratta un bambino come una persona e non come un semplice vivente. Il bambino impara a parlare non semplicemente perché sente qualcuno parlare (si è tentato inutilmente di insegnare a parlare a dei bambini mediante dei video), bensì perché la madre si rivolge a lui trattandolo come una persona. Se la madre tratta il bambino come se dovesse diventare una persona ma pensando che lo non sia ancora, il bambino non riesce ad esprimere le qualità e la attività della persona. Non si dà, dunque, un qualche passaggio da qualcosa a qualcuno, il bambino è fin da subito qualcuno.
3. Non possiamo attribuire la personalità solo a chi manifesta una qualche razionalità, perché noi possiamo raggiungere una certezza circa la presenza dell’intenzionalità, ma non possiamo con la stessa certezza stabilire quando essa non è presente, perché è possibile che qualcuno agisca intenzionalmente senza che un osservatore esterno possa percepirlo: il significato che un malato di mente dà ad un’azione può sfuggirci, tuttavia egli può avere una sua razionalità di azione ed essere capace di una chiara distinzione tra bene e male.
4. Per quanto concerne specificamente i malati di mente, noi li percepiamo appunto come malati, non come dei viventi che si trovano in una normale condizione. E come noi percepiamo una sedia difettosa non come qualcosa di differente da una sedia, ma appunto come una sedia difettosa, così l’uomo che non è attualmente capace di manifestazioni personali non è una non-persona, bensì una persona anormale.
5. Quanto ai bambini, è errato considerarli persone potenziali. Non solo per quanto si è detto al punto 2, ma perché la persona è una sostanza, quindi non può scaturire da una trasformazione (che per gli empiristi sarebbe l’attuazione delle funzioni personali), ma solo da una generazione. L’uomo inizia a dire «io», cioè a possedere l’autocoscienza (e solo a questo punto per gli empiristi diventa persona), dopo molto tempo dal concepimento e dalla nascita, tuttavia noi non diciamo «in quel momento e stato generato/è nato qualcosa dal quale io mi sono sviluppato», bensì diciamo «io sono nato in quel giorno» o anche «io sono stato generato in quel momento», anche se in quel momento l’essere che è nato o che è stato generato non diceva «io».
6. Infine, in situazioni di incertezza occorre darsi regole che non siano discrezionali e incerte. Così, il riconoscimento della persona non può dipendere dalla sua manifestazione di una qualche attività stabilita convenzionalmente, della cui esistenza decidono coloro che già si riconoscono reciprocamente la status di persone. Perciò, «può e deve darsi un unico criterio per la personalità: l’appartenenza biologica al genere umano. Per questo l’inizio e la fine dell’esistenza della persona non possono essere separati dall’inizio e dalla fine della vita umana. […] L’essere della persona è la vita di un uomo» (p. 241).
Giacomo Samek Lodovici
(C) Il Foglio, 4 agosto 2005, p. 2