Sintonia con il mondo

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Josef Pieper, Sintonia con il mondo. Una teoria sulla festa, Cantagalli, Siena 2009, pp. 120, € 12,00

 

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Il filosofo tedesco Josef Pieper (1904-1997), noto per i suoi scritti dedicati alle virtù, iniziò a riflettere sulla festa durante la seconda guerra mondiale e successivamente ritornò sull’argomento negli anni 1960. Il risultato è questo saggio, pubblicato originariamente nel 1963 e tradotto in italiano dall’editore Cantagalli. Il contenuto essenziale della riflessione di Pieper è intuibile – cosa non scontata – già dal titolo: la festa è possibile solo se si è in sintonia col mondo, anzi, tale sintonia è il nucleo, il vero motivo della festa. Questo messaggio è efficacemente sintetizzato nella Prefazione (pp. 5-16)dal curatore Francesco Russo: «[…] si può vivere autenticamente la festa solo sulla base del proprio consenso verso il mondo nel suo insieme» (p. 11). Ciò non implica ignorare il male, ma tener presente che, malgrado tutto, il mondo ha una sua bontà originaria.

Il saggio si compone di nove capitoli, senza titolo ma facilmente identificabili nella misura in cui ciascuno è incentrato su un particolare aspetto della festa e rispettivamente: lo scopo della festa (pp. 19-28); il suo carattere contemplativo (pp. 29-38); il consenso (pp. 39-50); il culto (pp. 51-62); il settimo giorno (pp. 63-71); le arti (pp. 73-81); la festa artificiale (pp. 83-87); la festa totalitaria (pp. 99-106); infine, la persistenza della vera festa (pp. 107-115)

A prima vista, la festa è immediatamente percepibile come un giorno di non lavoro, ma questo non è sufficiente per definirne l’essenza. Del resto essa è, sì, distinta, ma anche legata al lavoro così che da uno pseudolavoro non può che scaturire una pseudofesta: né la schiavitù né l’ozio, ma «solo un lavoro pieno di senso» (p. 20) è terreno fertile per una festa che, a sua volta, sia piena di senso. La differenza con il lavoro risiede nel fatto che, la festa non è funzionale ad uno scopo esterno, non è "utile", ma è piena di senso in sé stessa. «Resta comunque sospesa la domanda: per quale motivo in un’attività è insita la caratteristica di essere piena di senso in quanto tale?» (p.28).

Non è certo l’organizzazione a "fare" la festa, né lo studio della morfologia, delle caratteristiche esteriori della festa, a permetterci di andare oltre l’involucro più esterno. L’essenza, ciò che fa della festa «una bella giornata» (p. 31) si situa piuttosto al livello dell’ammirazione, della gioia, della contemplazione, della visio beatifica. «Se si riesce a gettare lo sguardo sul fondamento nascosto di tutto ciò che è, allora nella stessa misura si verifica un agire in sé pieno di senso e all’uomo è concessa una "bella giornata"» (p. 33). La contemplazione è dunque ciò che "fa" la festa, ne è il vero motivo, nonché il solo in grado di giustificare la rinuncia al guadagno in favore di un arricchimento esistenziale – che è in fondo una rinuncia per amore.

Solo dall’amore può scaturire la gioia della festa. «Chi non ama nulla né nessuno, non può gioire, per quanto disperatamente lo desideri» (p. 40). Ma l’amore, a sua volta, può scaturire solo da una causa concreta, non certo da idee astratte – «[…] come quelle di Auguste Comte [1798-1857], che nel calendario da lui elaborato prevedeva le feste della "umanità", della "paternità" e persino del "focolare". Neppure l’idea di libertà potrebbe infiammare gli uomini per una festa» (p. 41). Si prova gioia invece per eventi concreti quali una nascita, un matrimonio, un ritorno a casa, e non si può gioire senza presupporre, almeno implicitamente, il consenso verso il mondo nel suo insieme, l’approvazione verso ciò che esiste, poiché «Per rallegrarsi di qualcosa si deve approvare tutto» (Friedrich Wilhelm Nietzsche [1844-1900], cit. a p. 43).

Non stupisce quindi che Pieper definisca il culto come «la forma più festiva della festa» (p. 50), poiché alla radice del culto vi è il consenso: «[…] la lode costituisce pressoché l’intero contenuto della liturgia cristiana […]» (p. 56), intrisa di Amen e Alleluja. Lo stesso termine eucaristia significa "ringraziamento". La festa eterna della liturgia si svolge al di là del tempo, e ci permette di gettare lo sguardo sul fondamento. In fondo del giorno festivo si può dire che è il giorno fatto dal Signore – Haec dies quam fecit Dominus – poiché non si dà festa creata a tavolino, ma solo tramandata. «Platone ha scritto che la "pausa" della festa è stata istituita dalla divinità e delle feste del cristianesimo un cristiano non potrebbe dire qualcosa di molto diverso» (p. 52).

 

La Pasqua e quindi la domenica è la festa fondamentale del cristianesimo: essa ci riporta all’inizio, alla primordiale approvazione verso il mondo, espressa una volta per tutte da Dio: «[…] era cosa molto buona» (Gn 1,31). Il culto cristiano è quindi beneficium creationis e imago venturi saeculi: «[…] il ritorno all’inizio creatore e l’attualizzazione della felicità futura» (p. 68). «La domenica cristiana è […] una irradiazione della Pasqua» (ibidem), e dietro ogni festa cristiana c’è la festa eterna della creazione e della ri-creazione.

Le arti rendono visibile il nucleo invisibile della festa, così che «Appena diventa irrealizzabile l’elemento festivo della festa, le arti perdono inevitabilmente la propria collocazione […]» (p. 74). Non si tratta di asservimento dell’arte, piuttosto di una naturale dipendenza, poiché «[…] entrambe si nutrono dell’approvazione di ciò che è» (p. 75): dove c’è forma c’è consenso e dove questo viene rifiutato «[…] viene distrutta allo stesso tempo la radice tanto della festa quanto dell’arte» (p. 77). Tanto la festa, quanto l’arte, sono però minacciate da un altro pericolo: «Peggiore dell’ammutolire e dell’estinguersi della festa e delle arti è la loro pseudo realizzazione» (p. 78) illudendosi che si possano produrre artificialmente.

La pseudofesta avviene quando alla celebrazione esteriore non corrisponde la vera festa: ad esempio, quando la festa del Natale viene svuotata dell’Incarnazione; oppure quando una festa non scaturisce, in qualche modo, da una tradizione, bensì creata dal nulla. Certamente tutto quanto in essa è percepibile è opera umana. «Eppure resta intatto l’antico principio secondo il quale la festa è un giorno "che ha fatto il Signore" (Sal 117, 24). Resta valido perché l’uomo può ben fare la celebrazione ma non ciò che va celebrato, non il motivo e il fondamento della celebrazione»(p. 85)

Le nuove feste artificiali, dalla Rivoluzione francese ai regimi totalitari, hanno invece preteso non solo di "costruire" la celebrazione esteriore, ma anche di inventarne il motivo. Non stupisce quindi la natura coercitiva di queste autocelebrazioni del popolo, poiché quando viene a mancare il "vero" motivo della festa, alla gioia subentra «la radicale assenza di speranza» (p. 94). Addirittura, il regime bolscevico capovolge la festività in un giorno di «lavoro supplementare, volontario, non pagato!» (p. 102). La festa artificiale confina pericolosamente con l’antifesta del nichilismo.

Tuttavia «Il nucleo e l’origine della festa sono infallibilmente insiti nella società umana, oggi come mille anni fa: sotto la forma della lode cultuale, che viene compiuta letteralmente ogni ora» (p. 113) e che riposa, in definitiva, sull’originaria – ed eterna – approvazione divina. Ma anche quando questa è oscurata da circostanze poco felici, nulla può revocare la bontà originaria, il carattere essenzialmente festivo di questo mondo.

In conclusione, la lettura di questo saggio riporta alla mente quanto affermava, nella sua Autobiografia, lo scrittore inglese Gilbert Keitk Chesterton (1874-1936): «La vera difficoltà dell'uomo non è di godere i lampioni o i panorami, non di godere i denti-di-leone o le braciole, ma di godere il godimento […]». Le riflessioni di Pieper forniscono una possibile via d’uscita da quell’incapacità di provare gioia, riflesso e sintomo di un più generale impoverimento esistenziale.

Da: www.culturaeidentita.it

Stefano Chiappalone